Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27936 del 23/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 27936 Anno 2017
Presidente: BALESTRIERI FEDERICO
Relatore: DE GREGORIO FEDERICO

ORDINANZA
sul ricorso 10383-2012 proposto da:
POSTE ITALIANE SPA 97103880585,in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato
in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato
ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende, giusta
delega in atti;
– ricorrentecontro
GOVERNATORI ALESSANDRA, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI

2,

presso lo studio

dell’avvocato GIORGIO ANTONINI, che lo rappresenta e
difende unitamente all’avvocato RICCARDO GALASSI,
giusta delega in atti;
– controricorrente –

Data pubblicazione: 23/11/2017

avverso la sentenza n. 34/2012 della CORTE D’APPELLO di

ANCONA, depositata il 24/01/2012 RG 238/09;

c.c. 20-06-17 / r.g. n. 10383-12

ORDINANZA
La Corte visti gli atti e sentito il consigliere relatore, OSSERVA
Con sentenza del 27 marzo 2008 il giudice del lavoro di Ancona, ritenuta fondata l’eccezione
sollevata dalla convenuta società POSTE ITALIANE, di risoluzione del più recente contratto di
lavoro per mutuo consenso, rigettava la domanda di GOVERNATORI Alessandra, volta ad
accertare l’illegittimità del termine finale al contratto di lavoro subordinato a tempo determinato,
stipulato nell’anno 1999, condannando per l’effetto l’attrice alle spese di lite, tra cui anche quelle
di consulenza tecnica di ufficio.
L’anzidetta pronuncia veniva appellata dalla GOVERNATORI, nonché in via incidentale dalla

consulente tecnico di ufficio, in via subordinata comunque chiedendo l’applicazione dell’articolo
32 della L. n. 183/2010, entrata in vigore 24 novembre di quell’anno.
Con sentenza non definitiva in data 8 aprile / 14 giugno 2011 la Corte di Appello di Ancona, in
accoglimento dell’interposto gravame, dichiarava la nullità dell’apposizione del termine al
contratto di lavoro, dal marzo 1999, accertando la prosecuzione del rapporto a tempo
indeterminato, tuttora in essere, con la condanna di Poste Italiane S.p.A. alla riammissione in
servizio dell’attrice con mansioni proprie dell’area operativa, disponendo con separata ordinanza
per l’ulteriore istruzione della causa in relazione alle pretese risarcitorie azionate dalla
GOVERNATORI. Quindi, con sentenza definitiva n. 34 in data 13 / 24 gennaio 2012, notificata il
successivo 21 febbraio dello stesso anno, la medesima Corte territoriale condannava la società
convenuta al pagamento, in favore dell’appellante, dell’indennità onnicomprensiva di cui
all’articolo 32 L. n. 183 cit., nella misura di 8 (otto) mensilità dell’ultima retribuzione globale di
fatto, oltre interessi e rivalutazione monetaria Istat come per legge dal contratto di lavoro al
saldo; rigettava, quindi, l’appello incidentale e condannava la società appellata al pagamento

delle spese di lite, così come ivi liquidate.
Con atto notificato in data 18 – 24 aprile 2012 Poste Italiane S.p.A. proponeva ricorso per
cassazione, indicando nell’intestazione della prima pagina la sentenza n. 34 in data 13 / 24
gennaio, notificata il 21 febbraio 2012, ma nelle conclusioni chiedendo anche l’annullamento
della sentenza non definitiva n. 353 del 2011, con tre motivi di impugnazione, ai quali ha
resistito la GOVERNATORI mediante controricorso in data 28 – 29 maggio 2012.
VISTE le memorie depositate per entrambe le parti;
VISTA la requisitoria scritta, in data 17 maggio 2017, con la quale il Pubblico Ministero ha
chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, poiché í relativi motivi si riferivano alla non
impugnata sentenza non definitiva n. 353/2001, mentre con il solo motivo attinente alla
pronuncia n. 34/2014 si lamentava del tutto apoditticamente la quantificazione dell’indennizzo di
cui all’art. 32 L. n. 183/2010;
CONSIDERATO che
con il 1 0 motivo la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’articolo 1372

e dell’articolo 2697 del codice civile, nonché dell’articolo 115 c.p.c., ed anche omessa ed
insufficiente nonché contraddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il
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FDG

società, che instava per la condanna dell’appellante alla restituzione di quanto versato al

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giudizio, censurando la decisione di appello per aver disatteso l’eccezione di scioglimento
del rapporto contrattuale per mutuo consenso;
con il 2 0 motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e 1363
e seguenti c.c., nonché omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto
decisivo per il giudizio, contestando la tesi di una limitata efficacia temporale dell’accordo
sindacale in data 25 settembre 1997, tenuto altresì conto del successivo accordo in data 18
gennaio 2001. Per contro la tesi, secondo cui la previsione collettiva avrebbe cessato di

accordi con documentazione sindacale, si rivelava inconsistente ed ancor prima violatrice
dei principii ermeneutici della contrattazione di diritto comune, in quanto le parti non
avevano mai pattuito un limite di validità temporale, avendo semplicemente riconosciuto la
persistenza di esigenze aziendali retrostanti la causale in esame, riconoscendo quindi la
necessità di ricorrere ad assunzione a tempo determinato. Pertanto, la ricorrente chiedeva
darsi atto che l’apposizione del termine al contratto stipulato ai sensi dell’articolo 8 del
C.C.N.L. 27 novembre 1994, così come integrata dall’accordo del 25 settembre 1997, era
legittima, benché fosse intervenuta oltre la data del 30 aprile 1998;
con il 3 0 motivo è stata lamentata omessa e insufficiente o contraddittoria motivazione circa
un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonché denunciata la violazione e falsa
applicazione dell’articolo 8 L. n. 604/1966, contestandosi la quantificazione dell’indennità
onnicomprensiva di cui al citato art. 32, operata dalla Corte territoriale, che non aveva
proceduto ad una concreta ed espressa analisi dei criteri indicati dall’art. 8, richiamato a sua
volta dall’art. 32 (non vi era stato alcun riferimento al comportamento tenuto dalle parti, né
tantomeno una valutazione dei comportamenti rilevanti rispetto ai vari parametri di legge
per una corretta quantificazione dell’indennità, tra i quali la prolungata inerzia osservata
dalla lavoratrice nell’impugnare il contratto a tempo determinato dopo la sua scadenza,
nonché la limitata durata dello stesso di soli due mesi). Infine, la ricorrente ha censurato,
nell’ambito dello stesso terzo motivo, la sentenza laddove aveva previsto che sulla somma
liquidata a titolo risarcitorio fossero calcolati svalutazione monetaria ed interessi legali con
decorrenza dal contratto di lavoro al saldo, mentre l’indennità in questione proprio per la
sua espressa natura onnicomprensiva assorbiva l’intero pregiudizio patito dal lavoratore, dal
giorno dell’interruzione del rapporto fino al momento dell’effettiva riammissione in servizio
(citando Corte costituzionale n. 303 del 2011, secondo cui il danno forfettizzato
dall’indennità in esame copre il periodo intermedio dalla scadenza del termine sino alla
sentenza che accerta la nullità di esso dichiarando la conversione del rapporto);
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essere efficace in quanto successivamente al 30 aprile 1998 non vi sarebbero stati ulteriori

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che, preliminarmente, il ricorso de quo, nonostante l’incompleta indicazione contenuta nella
sua prima pagina, laddove veniva indicata la sola sentenza n. 34/2012 come oggetto
dell’impugnazione, deve evidentemente ritenersi esteso ad entrambe le anzidette decisioni
della Corte anconetana, tenuto conto di quanto emergente dalla complessiva lettura
dell’atto, le cui prime due censure riguardano evidentemente la sentenza non definitiva,
mentre soltanto il terzo motivo si riferisce chiaramente all’indennizzo ex art. 32 L. n.
183/10, tanto più poi che nelle conclusioni rassegnate a pagina 31 del medesimo ricorso

che il primo motivo si appalesa, comunque, infondato alla luce del granitico orientamento
interpretativo in materia consolidatosi presso questa Corte di legittimità (v. Cass. lav. n.
22489 del 04/11/2016, secondo cui in tema di mutuo consenso alla risoluzione del rapporto
di lavoro, non è sufficiente il mero decorso del tempo fra il licenziamento e la relativa
impugnazione giudiziale, essendo necessario il concorso di ulteriori e significative
circostanze, della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro; non costituiscono, da
sole, circostanze significative idonee ad integrare la fattispecie di tacita risoluzione
consensuale l’avere il lavoratore, nelle more, percepito il t.f.r., ovvero cercato o reperito
un’altra occupazione. In senso analogo id. n. 8604 del 03/04/2017);
che, quanto poi al superamento della data del 30-04-1998, parimenti appaiono infondate le
doglianze mosse con il secondo motivo (v. tra le altre, Cass. lav. n. 9259 del 09/04/2008,
secondo cui l’art. 23 della legge n. 56 del 1987, nel consentire alla contrattazione collettiva
di individuare nuove ipotesi rispetto a quelle previste dalla legge n. 230 del 1962, non
impone di fissare contrattualmente dei limiti temporali alla facoltà di assumere lavoratori a
tempo determinato, ma, ove un limite sia stato invece previsto, la sua inosservanza
determina la illegittimità del termine apposto, dovendosi ritenere, diversamente opinando,
che la clausola contenuta nell’accordo attuativo sia “senza senso”, in violazione del canone
ermeneutico di cut airart_ 1367 cod. civ.; né – avuto riguardo alle ah- RIF-MO[1i erretiUkite Oltre
30 aprile 1998, limite temporale stabilito con l’accordo attuativo del 16.1.1998, con cui
era stato prorogato l’originario termine del 31 gennaio 1998, previsto con l’accordo del 25
settembre 1997 – può attribuirsi efficacia sanante all’accordo del 18 gennaio 2001,
dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento
dell’interpretazione autentica, di intervenire su diritti indisponibili dei lavoratori in quanto
già perfezionati e, quindi, di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a
termine non più legittimi. In senso analogo: Cass. Sez. 6 – L, ordinanza n. 22015 del

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risultano ad ogni modo espressamente indicati gli estremi delle due pronunce d’appello;

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28/10/2010; Sez. L, sentenza n. 9259 del 09/04/2008, id. n. 3116 – 11/02/2010; Sez. 6 L, ordinanza n. 21355 del 15/10/2011);
che, quanto al terzo motivo, la doglianza può dirsi fondata unicamente con riferimento alla
parte in cui la decorrenza degli accessori è stata individuata in relazione al termine finale
stabilito con il contratto a tempo determinato in questione, dovendo invece decorrere dal
momento in cui il giudice adito, in questo caso quello di secondo grado, ha ritenuto la nullità
di detto termine, con conseguente conversione a tempo indeterminato, mentre le doglianze

valutazione nel merito di fatti discrezionalmente apprezzati dai giudici esclusivamente
competenti in materia, le cui decisioni sul punto sono quindi insindacabili in questa sede
(sono perfettamente conformi ai principi di diritto affermati da questa Corte le
argomentazioni svolte dalla Corte distrettuale, specialmente alle pagine da 4 a 6
dell’impugnata sentenza, laddove in particolare è stata tra l’altro rilevata la mancanza di
prova nello specifico di accordi o di contratti collettivi stipulati in sede sindacale, tali da
prevedere l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con
contratti a termine nell’ambito di apposite graduatorie, di guisa che era

infondata la tesi

secondo cui sarebbe stato applicabile il limite delle sei mensilità, posto dal sesto comma
dall’art. 32. Di conseguenza, la Corte territoriale, in relazione ai criteri stabiliti dall’art. 8 L.
n. 604/66, tenuto conto delle dimensioni nazionali della società, della connotazione
essenzialmente pretestuosa dell’apposizione del termine finale al contratto in questione,
bilanciate dalla limitata anzianità di servizio della lavoratrice, riteneva equo determinare
l’indennità comprensiva in parola in prossimità del termine medio di otto mensilità,
nell’assenza di deduzioni specifiche, tali da giustificare una liquidazione superiore o
inferiore);
che quanto, invece, alla decorrenza degli accessori va ricordato (cfr. Cass. lav. n. 3027 11/02/2014) che le somme spettanti a titolo di risarcìmento danni per la violazione di
obblighi datoriali hanno natura retributiva solo quando derivino da un inadempimento che,
pur non riguardando direttamente l’obbligazione retributiva, incida immediatamente su di
essa determinando la mancata corresponsione di compensi dovuti al dipendente. Ne
consegue che l’indennità di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183,
spettante al lavoratore a titolo di risarcimento del danno per l’illegittima apposizione del
termine al rapporto di lavoro, non ha natura retributiva e su tale indennità non spettano né
la rivalutazione monetaria né gli interessi legali, se non dalla data della pronuncia giudiziaria
dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro
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I:1X;

sono inammissibili in ordine al quantum dello stimato dovuto indennizzo, ciò involgendo

c.c. 20-06-17 / r.g. n. 10383-12

subordinato (conformi Cass. Sez. 6 – L, ordinanza n. 641 del 15/01/2016, nonché Sez. L,
sentenza n. 3062 del 17/02/2016);
che, pertanto, rigettati i primi due motivi e parte del terzo, in accoglimento della residua
censura, la sentenza di appello va cassata per quanto di ragione, sicché, non essendo,
evidentemente, necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., può
procedersi a decisione di merito, dichiarando che la rivalutazione monetaria e gli interessi
sono dovuti a decorrere dalla pronunzia di secondo grado (non già, quindi, dal contratto di

che le spese del giudizio di legittimità, ferma restando l’attribuzione di quelle del giudizio di
merito, debbono essere poste a carico della società ricorrente, tenuto conto del fatto che la
stessa è rimasta sostanzialmente quasi per intero soccombente all’esito del processo, fatta
eccezione per la marginale questione inerente alla sola decorrenza degli accessori relativi al
pur azionata pretesa risarcitoria.
Per Questi Motivi

La Corte così provvede: accoglie in parte il terzo e ultimo motivo di ricorso, rigettato nel
resto unitamente ai primi due. Cassa la sentenza n. 34/2012, per quanto di ragione,
limitatamente alla parte della censura accolta, e decidendo nel merito, dichiara che gli
accessori sull’indennità di cui all’art. 32 L. n. 183/2010, riconosciuta con la sentenza n.
34/2012, sono dovuti dall’otto aprile 2011. Conferma nel resto.
Condanna la società ricorrente ai pagamento delle spese di questo giudizio, che liquida,
a favore della controricorrente, in euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi
professionali ed in euro #200,00# per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e
c.p.a. come per legge.

lavoro), perciò dal dispositivo della sentenza non definitiva in data 8 aprile 2011;

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