Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27935 del 07/12/2020

Cassazione civile sez. I, 07/12/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 07/12/2020), n.27935

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 6468/2016 proposto da:

Z.N.; S.P.I.; S.R.;

S.L.M., tutti elett.te domic. presso l’avv. Massimo Panzarani, il

quale li rappres. e difende unitamente agli avv.ti Federico Pergami,

e Cristina Pototschnig, con procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

INTESA SANPAOLO s.p.a (già BANCA INTESA s.p.a., già CARIPLO

s.p.a.), in persona del legale rappres. p.t., elett.te domic. presso

l’avv. Benedetto Gargani, il quale la rappres. e difende, unitamente

all’avv. Teresa Besostri Grimaldi di Bellino, con procura speciale

in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1586/15 emessa dalla Corte d’appello di

Torino, depositata il 21.8.15;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/07/2020 dal Consigliere rel. Dott. CAIAZZO ROSARIO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

Z.N., S.P.I., S.R. e S.L.M. impugnarono la sentenza emessa dal Tribunale di Torino il 13.2.2013 che respinse le domande da loro proposte nei confronti della Intesa San Paolo s.p.a., insistendo nella istanza di nullità del contratto di negoziazione dell’8.8.96, di tre operazioni di acquisto di obbligazioni (OMISSIS), e di restituzione della somma di Euro 217.956,48 oltre interessi, e nella domanda di nullità del contratto di negoziazione del 29.4.92 e di due operazioni d’acquisto degli stessi bond con richiesta restitutoria della somma di Euro 144.283,48 oltre interessi. Tutti gli appellanti, in subordine, insistevano per l’accertamento dei gravi inadempimenti della banca in ordine alle suddette operazioni d’acquisto, e per la condanna risarcitoria.

In particolare, gli attori originari avevano lamentato il grave inadempimento della banca consistito nella violazione degli obblighi informativi imposti dal TUF e dal reg. Consob e nel divieto di porre in essere operazioni inadeguate senza specifico ordine scritto dei clienti. Si costituì la banca resistendo all’impugnazione.

Il Tribunale respinse le domande rilevando che: la domanda di nullità del contratto di negoziazione dell’8.8.96 era infondata poichè sottoscritto dalle parti, allo stesso modo del contratto del 29.4.92, considerando la mancanza di sanzione per l’omesso adeguamento all’art. 30 reg. Consob; per gli ordini d’investimento non era contemplata la forma scritta; era infondata la domanda di risoluzione dei contratti di negoziazione per mancanza di gravità dell’inadempimento considerato il numero delle operazioni contestate rispetto al totale; la mancata profilatura dei clienti era da imputare all’omissione degli stessi clienti e non alla banca; la propensione al rischio degli investitori era comunque desumibile dalla loro pregressa operatività nell’acquisto di titoli e strumenti di alto rischio; all’epoca degli investimenti in questione la situazione dell’Argentina non era tale da consentire di predirne l’insolvenza in quanto il rating era stato ridotto dalle agenzie competenti solo negli anni 2000/2001, rating che non era altamente speculativo con rischio di poco superiore ai titoli di Stato italiani; era altresì da escludere la mancata valutazione del profilo dell’adeguatezza degli investimenti data la piena conoscenza da parte degli attori dell’andamento dei titoli negoziati.

Con sentenza del 21.8.15 la Corte d’appello respinse l’impugnazione, osservando che: nella comparsa conclusionale la banca aveva evidenziato che i titoli in questione erano stati venduti nel luglio del 2014 e, in particolare, per quelli depositati presso una filiale, tenuto conto delle cedole percepite, all’atto della cessione si registrava una minusvalenza di Euro 9302,51, mentre per quelli depositati presso altra filiale si registrava un plusvalenza di Euro 61.106,03; pertanto, limitatamente alle operazioni di S.P.I. e R. era da escludere un interesse alla pronuncia richiesta dato che, alla cessione dei titoli, i suddetti appellanti avevano conseguito un complessivo guadagno; circa le altre operazioni, non era configurabile la nullità del contratto di negoziazione, mentre era infondata la domanda di risoluzione in quanto le lieve minusvalenza registrata a seguito della cessione dei titoli non costituiva un danno effettivo, in quanto conseguenza del rischio connaturale ad ogni investimento.

Ricorrono in cassazione Z.N., S.P.I., R. e M.L., con sei motivi, illustrati con memoria.

Resiste Intesa San Paolo s.p.a. con controricorso, illustrato con memoria.

Diritto

RITENUTO

Che:

Con il primo motivo si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo, in quanto la Corte d’appello, pur avendo riconosciuto l’esistenza di un danno per i ricorrenti di 9.302,51 Euro, non ne abbia fatto derivare alcuna conseguenza a carico della banca, apparendo irragionevole e comunque non adeguatamente motivato il rigetto delle domande risarcitorie, in mancanza dell’indicazione dell’assunto giuridico in base al quale il danno subito dai ricorrenti potesse rientrare, come assume la Corte d’appello, “nell’ambito di quel rischio che caratterizza comunque gli investimenti finanziari”. Il ricorrente si duole altresì che il giudice di secondo grado abbia determinato la differenza, tra il capitale investito e le somme riscosse dagli investitori a fronte dell’investimento, nella somma di soli Euro 9.302,51, anzichè in quella effettiva di Euro 70.235,92, avendo computato tra le seconde anche le cedole incassate, sebbene in un precedente passaggio della sentenza abbia affermato che a tal proposito “il rilievo del percepito dalle cedole è quanto meno discutibile”.

Il motivo è inammissibile, in quanto non vi è attinenza con la ratio della decisione impugnata, la quale non ha riconosciuto l’esistenza di un danno… a carico degli attori, bensì ha escluso che il minor ritorno dell’investimento, per una cifra tanto esigua, costituisse “in senso tecnico un danno”, atteso che – secondo la Corte territoriale – esso invece “rientra ampiamente nell’ambito di quel rischio che caratterizza comunque gli investimenti finanziari del tipo di cui si discute, anche quelli più sicuri…”.

Detto ciò, il ricorrente avrebbe dovuto censurare la qualificazione che è questione di diritto – della differenza in questione come non integrante un danno in senso tecnico, ossia avrebbe dovuto essere formulata e argomentata una censura di violazione di legge, non già una censura di omesso esame di fatto decisivo, la quale peraltro è ammessa solo con riguardo agli accertamenti in fatto, che nella fattispecie non sono contestati.

Inoltre, va osservato che la questione che si prospetta è in realtà, ancora una volta, una questione di diritto: se, cioè, l’importo delle cedole riscosse dall’investitore vada scomputato o meno dall’ammontare del danno derivante dall’investimento (compensatio lucri cum damno). Ciò che conta, trattandosi di questione di diritto, è soltanto la sua soluzione (che può venire corretta da questa Corte ai sensi dell’art. 384 c.p.c.), non già la eventuale contraddittorietà dell’argomentazione del giudice di merito. In ogni caso, la soluzione presupposta dai ricorrenti (nel senso della non scomputabilità) è infondata, secondo quanto questa Corte ha già avuto occasione di chiarire (cfr. Cass. 16088/2018).

Con il secondo motivo si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo, in ordine al rilievo della nullità dei contratti di negoziazione e al loro mancato adeguamento al D.Lgs. n. 58 del 1998.

Il motivo è inammissibile quanto al contratto del 29 aprile 1992, per difetto di attinenza con la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha statuito in proposito il difetto di interesse a far valere la nullità, con i conseguenti obblighi restitutori, atteso il guadagno conseguito dagli investitori nell’affare.

Il motivo è inammissibile anche quanto al contratto dell’8 agosto 1996, perchè in realtà non è dato enucleare dal motivo di ricorso l’individuazione di alcun fatto decisivo che sarebbe stato trascurato dalla Corte d’appello tanto più che, ancora una volta, quest’ultima ha definito in diritto la relativa questione – peraltro in conformità con quanto successivamente chiarito anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. sentenza n. 898 del 2018) – negando che la legge preveda la nullità del contratto in caso di mancata sottoscrizione da parte della banca, mentre il vizio di omesso esame di fatto decisivo si riferisce agli accertamenti di fatto.

Con il terzo motivo si denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo in ordine al rilievo della nullità dei contratti di acquisto dei titoli per la mancanza della forma scritta richiesta dal contratto di negoziazione stipulato tra le parti.

In particolare, si contesta l’accertamento della sufficienza della forma orale in quanto consentita dal contratto-quadro accanto a quella scritta prevista “di norma”, osservando che detta espressione non può essere interpretata come autorizzazione di una indiscriminata libertà di forma, tanto più che il contratto espressamente prevedeva che degli ordini impartiti oralmente doveva essere effettuata la registrazione, nella specie invece mancante.

Tale motivo è inammissibile perchè, sotto il primo profilo, si tratta di censura di merito e, sotto il secondo, si tratta di censura generica, non essendo riportato il contenuto della previsione contrattuale riguardante la necessità della registrazione.

Con il quarto motivo si denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo circa la risoluzione contrattuale per grave inadempimento, per la mancata profilatura dei clienti e degli ulteriori adempimenti a carico della banca.

Al riguardo, si censura la statuizione di assorbimento delle questioni attinenti alla omessa profilatura dei clienti e agli ulteriori inadempimenti da parte dell’intermediaria, le quali invece assumono rilevanza, con riguardo alla domanda di risoluzione per inadempimento, per effetto della fondatezza dei precedenti motivi di ricorso.

Il motivo è inammissibile perchè non costituisce un’autonoma censura, bensì una mera conseguenza delle censure precedenti di cui segue la sorte.

Con il quinto motivo si denunzia la violazione dell’art. 89 c.p.c., non avendo la Corte d’appello accolto l’istanza di cancellazione delle espressioni sconvenienti utilizzate da controparte nella comparsa conclusionale in ordine alle critiche relative alla omessa comunicazione della vendita dei titoli in questione.

Tale motivo è inammissibile perchè la censura riguarda un provvedimento ordinatorio, e non decisorio, come risulta dallo stesso art. 89 c.p.c., il quale prevede appunto che la cancellazione sia disposta con ordinanza, affidando alla sentenza finale la sola decisione sulla eventuale, conseguente pretesa risarcitoria.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida nella somma di Euro 8200,00 di cui 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2020

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