Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27910 del 04/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 04/12/2020, (ud. 20/11/2019, dep. 04/12/2020), n.27910

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2789-2015 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA MAZZINI 27, (STUDIO TRIFIRO’ & PARTNERS) rappresentata e

difesa dall’avvocato SALVATORE TRIFIRO’;

– ricorrente –

contro

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PRINCIPE AMEDEO

221, presso lo studio dell’avvocato CONFSAL SEGRETERIA NAZIONALE,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNA COCO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 242/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 10/10/2014 r.g.n. 411/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/11/2019 dal Consigliere Dott. LEO GIUSEPPINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO PAOLA, che ha concluso per l’accoglimento del primo

motivo del ricorso, inammissibilità o rigetto nel resto;

udito l’Avvocato ANNA MARIA CORNA per delega verbale Avvocato

SALVATORE TRIFIRO’.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.S., in servizio presso Poste Italiane S.p.A. dal 2.12.1985 con la qualifica di VI categoria, ha proposto ricorso, in data 9.8.2007, dinanzi al Tribunale di Milano, nei confronti della datrice di lavoro, al fine di sentire dichiarare che la non ottemperanza, da parte di quest’ultima, all’ordine giudiziale contenuto nella sentenza n. 1010/2001, resa il 15.2.2001, di adibire il ricorrente a mansioni di tecnico specialistico di impianti o a mansioni equivalenti, costituisce fatto illecito ex art. 2043 c.c.; che, a partire dall’aprile del 2003, esso ricorrente è stato vittima di una ulteriore dequalificazione professionale, con l’assegnazione in via esclusiva e comunque prevalente di compiti di contenuto manuale, nonchè di un comportamento vessatorio e discriminatorio da parte della società; ed altresì, per ottenere l’accertamento del proprio diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa degli illeciti contrattuali ed extracontrattuali compiuti dalla stessa successivamente all’emanazione della sentenza n. 1010/2001, citata, con la condanna della parte datoriale a corrispondere al medesimo: a) il danno da dequalificazione professionale nella misura di una mensilità globale di fatto per ogni mese di mancata ottemperanza della sentenza n. 1010/2001, dalla data della pronunzia della stessa a quella in cui verranno assegnate al dipendente le mansioni di impiegato tecnico specialista o mansioni equivalenti; b) Euro 42.660,00 a titolo risarcitorio per perdita di chance, per essere stato lo stesso escluso dalle selezioni e promozioni operate dal 2001 ad oggi dalla società; c) Euro 47.500,00 a titolo di danno biologico, oltre ad Euro 29.000,00 per danni morali per la grave inabilità contratta; d) Euro 53.350,00 a titolo di danno esistenziale per grave nocumento alla vita di relazione sociale ed affettiva nell’ambito familiare; e) Euro 1.593,00 a titolo di rimborso delle spese mediche sostenute sino al 30.9.2006.

Il Tribunale, con la sentenza n. 5452/2009, in parziale accoglimento del ricorso, ha accertato il demansionamento subito dal C. a far data dal marzo 2001 ed ha condannato la società alla reintegrazione del lavoratore nelle mansioni di perito addetto alla assistenza tecnica o in altre equivalenti, ed al risarcimento del danno patrimoniale, liquidato in Euro 135.000,00; al risarcimento del danno non patrimoniale pari ad Euro 38.030,37 a titolo di invalidità permanente e ad Euro 39.600,00 a titolo di invalidità temporanea, oltre accessori, ed altresì al rimborso delle spese mediche sostenute, pari ad Euro 716,13; ed ha, inoltre, dichiarato il diritto del C. all’inquadramento nella fascia B del CCNL di categoria del 2003, con decorrenza dall’1.1.2004, condannando la società ad inquadrare il lavoratore in tale livello ed al pagamento delle differenze retributive.

La Corte di Appello di Milano, con sentenza depositata il 10.10.2014, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla società, ha riformato la pronunzia di primo grado relativamente al quantum liquidato, sia a titolo di danno patrimoniale da dequalificazione, che a titolo di danno non patrimoniale per le patologie psico-fisiche dalla stessa derivate, condannando la parte datrice “al risarcimento del danno da demansionamento in favore di C. liquidato in Euro 33.020,09 (danno biologico da invalidità permanente) e in Euro 89.250,00, confermando nel resto l’impugnata sentenza”.

Per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane S.p.A., articolando tre motivi, ulteriormente illustrati da memoria, cui il C. resiste con controricorso.

La causa, inizialmente fissata all’adunanza camerale del 2.4.2019, è stata rinviata a nuovo ruolo – e, successivamente, fissata alla pubblica udienza del 20.11.2019 -, avendo il Collegio ritenuto che non sussistessero i presupposti per la trattazione della stessa in camera di consiglio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denunzia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1227 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c. “con riferimento al preteso danno patrimoniale”, ed, in particolare, si deduce che, “proprio a causa delle molteplici forme che può assumere il danno… si rende indispensabile una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore che deve precisare non solo quale di essi ritenga di aver subito fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione, attraverso i quali possa emergere la prova del danno, sia pure per presunzioni, purchè gravi, precise e concordanti”, e che, erroneamente, la sentenza di secondo grado ha indicato come danno solo un generico “pregiudizio causato dalla ripetitività meccanica di operazioni elementari”, senza indicare alcuno dei concreti elementi necessari per il riconoscimento di un risarcimento danni a seguito di dequalificazione professionale, e, dunque, “la sentenza ha, di fatto, ritenuto il danno in re ipsa, in carenza di una specifica prova dell’art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale…, posto che controparte, nel ricorso introduttivo del giudizio, si è limitata a generiche allegazioni, peraltro neppure risultate confermate in sede istruttoria”.

2. Con il secondo motivo, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si lamenta “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e che è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento al risarcimento del preteso danno non patrimoniale”, perchè “la sentenza gravata ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, anche per ciò che attiene al risarcimento del danno non patrimoniale, limitandosi a detrarre quanto liquidato dall’INAIL…senza, tuttavia, in alcun modo motivare in relazione alle fondate censure, mosse” dalla società “e dal CTP alla CTU svolta in primo grado e su cui si era basata la sentenza di prime cure”.

3. Con il terzo motivo, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.; artt. 115 e 116 c.p.c. “con riferimento al risarcimento del preteso danno non patrimoniale”, per non avere la Corte di merito valutato che dalla c.t.u. risultavano numerosi fatti da cui potere desumere una situazione psico-fisica pregressa, “sì da non poter imputare ad eziologia professionale l’intera menomazione psico-fisica quantificata dal CTU”.

1.1. Il primo motivo non è fondato; la decisione cui è giunta la Corte di merito appare, infatti, in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, alla stregua del quale, in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 7818/2014; 5237/2011). Pacificamente, infatti, va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario, dunque, individuare un effetto della violazione su di un determinato bene perchè possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del medesimo. Ed in tal senso, questa Suprema Corte ha sottolineato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass. nn. 5590/2016; 691/2012).

Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonchè il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013 citt.; 14158/2011; 29832/2008); onere al quale il ricorrente ha comunque assolto (si veda, pure, in particolare, quanto esposto dal medesimo nel ricorso introduttivo del giudizio riportato alle pagg. 21-23 del controricorso).

Pertanto, non colgono nel segno le doglianze mosse alla sentenza impugnata con il primo mezzo di impugnazione, poichè i giudici di seconda istanza, lungi dal considerare il danno da demansionamento in re ipsa, hanno sottolineato – accertata l’assegnazione del C. a mansioni dequalificanti – che, nella fattispecie, tale danno “attiene alla perdita di potenzialità reddituale che deriva dall’evidente pregiudizio causato dalla ripetitività meccanica di operazioni elementari, sia pure con elevata informatizzazione, protrattasi per un notevole lasso di tempo (105 mesi)…”; dalla qual cosa, si evince che la decisione oggetto del presente giudizio, fondata su una valutazione presuntiva, ancorata a dati concreti (tra i quali, il notevole lasso di tempo, 105 mesi, appunto, durante il quale si è protratto il demansionamento), risulta del tutto conforme agli arresti giurisprudenziali di legittimità, secondo cui “il danno conseguente al demansionamento va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, frustrazione personale) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ingiusto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle motivazioni generali derivanti dall’esperienza delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove” (cfr. Cass., SS.UU. n. 4063/2010).

2.2. Il secondo motivo è inammissibile. Al riguardo, vanno ribaditi gli ormai consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte nella materia, del tutto condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene – ed ai quali, ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c., fa espresso richiamo (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 18358/2017; 3881/2006; 3519/2001) -, alla stregua dei quale, ove il giudice di merito “condivida i risultati della consulenza tecnica di ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze” della stessa “implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l’accettazione del parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità. In tal caso l’obbligo della motivazione è assolto con l’indicazione della fonte dell’apprezzamento espresso, senza la necessità di confutare dettagliatamente le contrarie argomentazioni della parte, che devono considerarsi implicitamente disattese”. Ciò premesso, la parte ricorrente lamenta che nella c.t.u. “pur essendo del tutto carente un’anamnesi del periziando antecedente ai fatti per cui è causa, tuttavia si dia atto di un disturbo di ansia e di attacchi di panico preesistenti”, e che la stessa c.t.u. ed i giudici di merito abbiano riconosciuto la sussistenza del nesso causale tra il demansionamento ed il danno patrimoniale, senza prima valutare gli stati ansiosi verificatisi in epoca antecedente alla dequalificazione. Ebbene, va ancora ribadito che “il vizio denunciabile in sede di legittimità della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in una inammissibile critica del convincimento del giudice” (cfr., ex multis, Cass. nn. 18358/2017, cit.; 4124/2017; 27378/2014; 1652/2012). Al proposito, va, altresì, sottolineato che la società ricorrente ha riportato nel ricorso soltanto poche frasi della c.t.u. di cui si tratta, nonchè “alcune evidenziazioni fatte sulla c.t.u. nell’atto di appello” (v. note pagg. 14-16 del ricorso), dalle quali, peraltro, non risulta neppure certo se le contestazioni siano state sollevate solo in sede di gravame e non in primo grado, nella prima udienza successiva al deposito dell’elaborato peritale; e ciò, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte (ai sensi del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (v., tra le molte, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013).

3.3. Il terzo motivo è inammissibile sotto una pluralità di profili. Per quanto attiene alla violazione del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per la mancata integrale produzione della c.t.u., valgano le considerazioni testè svolte.

Inoltre, le doglianze sollevate, palesemente tese ad ottenere un nuovo esame del merito, non consentito in questa sede, non evidenziano sotto quale profilo le norme censurate sarebbero state incise, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma, altresì, con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009).

Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.

4. Le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

5. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2020

 

 

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