Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27902 del 21/12/2011

Cassazione civile sez. III, 21/12/2011, (ud. 03/11/2011, dep. 21/12/2011), n.27902

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3665/2007 proposto da:

COMUNE DI CAROVIGNO (OMISSIS), in persona del sindaco pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE MARZIO 1,

presso lo studio dell’avvocato MACARIO FRANCESCO, rappresentato e

difeso dagli avvocati D’IPPOLITO Armando, COSTANTINO MICHELE giusta

2011 delega in atti;

– ricorrenti –

contro

D.V.A. (OMISSIS);

– intimato –

sul ricorso 7865/2007 proposto da:

D.V.A., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZA GIOVANNI RANDACCIO 1, presso lo studio dell’avvocato

MUSA LEONARDO, rappresentato e difeso dagli avvocati ORLANDINO

FRANCESCO, MASSARI NICOLA giusta delega in atti;

– ricorrente –

e contro

COM CAROVIGNO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 253/2006 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 04/04/2006; R.G.N. 613/2003.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/11/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibile in subordine rigetto

del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

D.V.A. propose appello avverso la sentenza del Tribunale di Brindisi con la quale era stata rigettata la domanda da lui proposta nei confronti del Comune di Carovigno per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti per la mancata utilizzazione dei terreni di sua proprietà e la mancata conclusione di affari, in ragione del protrarsi ingiustificato del vincolo derivante dall’inserimento delle aree nel piano comunale per gli insediamenti produttivi e conseguente sottrazione delle stesse alla loro destinazione urbanistica, nonchè per l’avvenuto declassamento a zona agricola dei medesimi terreni.

La Corte d’Appello di Lecce, con sentenza non definitiva pubblicata il 4 aprile 2006, ha reputato nuove e quindi inammissibili le questioni attinenti alla mancata conclusione della convenzione di lottizzazione (che, dopo essere stata approvata con delibera comunale del 10 giugno 1976, non era mai stata stipulata, tanto che il D. V. aveva adito il Tribunale di Lecce ed aveva ottenuto, con sentenza dell’11 marzo 1989, la dichiarazione dell’obbligo del Comune di stipulare detta convenzione, cui era seguito un giudizio dinanzi al TAR per ottemperanza al giudicato; senza che poi si fosse ottemperato, per avere il Comune adottato una variante al PdF e quindi localizzato altrove la zona per insediamenti produttivi e declassato le aree di proprietà dell’attore come zona agricola B2) ed al rimborso delle spese sostenute dall’appellante a vario titolo;

ha invece accolto parzialmente l’appello, con riferimento all’illegittima protrazione del vincolo nascente dal P.I.P., approvato con Delib. Giunta Regionale 24 luglio 1979, n. 5475, oltre il limite di legge dei dieci anni, ed, in parziale riforma dell’impugnata sentenza, ha dichiarato la responsabilità del Comune di Carovigno “per gli eventuali danni derivati all’appellante” dal mantenimento del vincolo, da accertarsi con la prosecuzione del giudizio disposta con separata ordinanza; ha altresì confermato il rigetto della domanda risarcitoria collegata alla variazione della destinazione delle aree in questione, a seguito della zonizzazione comunale adottata con variante del 12 marzo 1990 e confermata in data 29 marzo 1995.

Avverso la sentenza d’appello il Comune di Carovigno ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso D.V.A.; quest’ultimo ha proposto ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I ricorsi, proposti contro la stessa sentenza, vanno riuniti.

Entrambi sono soggetti, quanto alla formulazione dei motivi, al regime dell’art. 366 bis c.p.c. (inserito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, ed abrogato dalla L. 18 giugno 2008, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d) applicabile in considerazione della data di pubblicazione della sentenza impugnata (4 aprile 2006).

1.- Il primo motivo del ricorso principale, con il quale si denuncia il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziale con riguardo all’art. 2043 cod. civ., in riferimento all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3, è inammissibile perchè il quesito di diritto non è pertinente alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

Infatti, il quesito è formulato in termini tali (“se possa configurare danno ingiusto ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., il fatto che il Comune di Carovigno, in variante al p.d.f., abbia spostato la zona di insediamenti produttivi in luogo diverso da quello in cui si trovava il bene oggetto della proprietà di colui il quale pretende il risarcimento dei danni (senza darne la prova)”) da presupporre che la Corte d’Appello abbia ritenuto la responsabilità del Comune di Carovigno, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., per i danni provocati ad D.V.A. a seguito della modificazione del piano di insediamenti produttivi, quindi dello spostamento della relativa localizzazione in luogo diverso dai terreni di proprietà dell’attore.

Orbene, la domanda da quest’ultimo avanzata per il risarcimento dei danni che gli sarebbero stati provocati dalla zonizzazione comunale non è stata affatto accolta dalla Corte d’Appello, che, sul punto, ha confermato il rigetto già pronunciato in primo grado (tanto che questo capo di sentenza è stato impugnato col ricorso incidentale).

La Corte di merito ha invece ritenuto fondato il motivo di appello concernente il rigetto in primo grado della domanda risarcitoria per l'”ingiustificato mantenimento oltre il decennio da parte dell’amministrazione comunale del vincolo derivante dall’adozione del PIP, individuante nei terreni di proprietà dell’istante quelli da destinare ad insediamenti produttivi di tipo artigianale e comportante, perchè preordinato all’esproprio, una limitazione di tipo ablatorio del diritto dominicale atta ad incidere specificamente sui terreni interessati dallo stesso piano ed a comportare come effetto pratico uno svuotamento di rilevante entità ed incisività del diritto di proprietà nel suo contenuto essenziale”.

E’ evidente come il quesito di diritto non investa in alcun modo la ratio decidendi della sentenza impugnata (cfr., per la necessaria pertinenza del quesito, tra le altre, Cass. n. 4044/09), nè indichi in alcun modo, ed anzi nemmeno presupponga, la regola iuris adottata nel provvedimento impugnato (cfr., per la necessità di siffatta indicazione, Cass. n. 24339/08).

Esso peraltro neanche corrisponde al contenuto del motivo (cfr., per la necessità di tale corrispondenza, Cass. n. 28280/08), dal momento che nell’illustrazione del motivo viene riportata ed anche criticata la regola iuris adottata dal giudice a quo (tanto che viene trascritto anche il passo di motivazione sopra riprodotto) e questa viene correttamente individuata nell'”illegittimo protrarsi del vincolo da parte dell’amministrazione” (cfr. pag. 9 del ricorso), con riferimento al vincolo imposto con il piano di insediamenti produttivi. Questa ragione della decisione e le critiche ad essa mosse dal ricorrente non trovano tuttavia alcun riscontro nel quesito di diritto, che è riferito invece alla diversa condotta, ascritta all’ente comunale, di modifica della zonizzazione – condotta pure oggetto di controversia, ma, come detto, ritenuta dalla Corte d’Appello “espressione di discrezionalità amministrativa” e quindi non sussumibile nella fattispecie dell’art. 2043 cod. civ..

2.- Col secondo motivo del ricorso principale è denunciato, in riferimento all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, il vizio di omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio con riguardo all’imposizione dei vincoli di destinazione impressi da strumenti urbanistici.

Deduce il Comune ricorrente che la motivazione della sentenza supporrebbe che vi sia un pregiudizio alla proprietà o al proprietario (o a tutti e due) per tutto il tempo dell’imposizione di un vincolo, ma che questo consisterebbe in un danno “giusto”, quindi non risarcibile, che, invece, diverrebbe “ingiusto”, perciò risarcibile ex art. 2043 cod. civ., in caso di protrazione del vincolo oltre i termini di legge. Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello non avrebbe tenuto conto della differenza tra vincoli preordinati all’espropriazione, comportanti l’inedificabilità assoluta, e vincoli di zonizzazione o di destinazione, denominati pure vincoli di in edificabilità generale, espressione del potere conformativo della p.a.; quindi, non avrebbe considerato che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità richiamata in ricorso (seguita alla sentenza della Consulta n. 55 del 29 maggio 1968, pure richiamata dal ricorrente), soltanto i primi comportano l’obbligo di indennizzo e non anche i secondi. Secondo il ricorrente, nel caso di specie, la sentenza ha ritenuto la responsabilità del Comune per avere dato corso ad una “proroga” rectius, ad efficacia oltre il termine di legge) dei vincoli di zona, senza motivare in punto di illiceità del fatto e di produzione di danni ingiusti.

3.- La Corte d’Appello di Lecce ha distinto tra vincoli di zonizzazione, espressione del potere conformativo della p.a., e vincoli preordinati all’espropriazione o comunque comportanti limitazioni tali del diritto di proprietà da dover essere assimilati ai vincoli ablatori; ha quindi ritenuto che il piano per gli insediamenti produttivi di cui alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 27, in quanto equivalente ad un piano particolareggiato d’esecuzione ai sensi della L. n. 1150 del 1942 e succ. mod., non possa che avere efficacia limitata nel tempo, proprio al fine di delimitare il potere espropriativo della p.a.; ha altresì sottolineando l’equivalenza del P.I.P. alla dichiarazione di pubblica utilità delle opere in esso previste – già affermata da un precedente di questa Corte, richiamato in sentenza – e quindi la strumentante del vincolo rispetto ad una futura espropriazione; ha così ampiamente motivato proprio in punto di appartenenza del vincolo in discorso alla categoria dei vincoli preordinati all’espropriazione od a questi assimilato.

3.1.- Dopo avere svolto le argomentazioni appena riassunte, la Corte d’Appello ha considerato che, proprio in quanto appartenente a tale ultima categoria, il vincolo nascente dal piano di insediamenti produttivi ha, per legge, una durata limitata a dieci anni ed ha concluso affermando che è illecito il comportamento della p.a. che lascia che il vincolo si protragga oltre il termine decennale. Con riferimento al caso di specie, ha preso atto di quanto segue:

– D.V.A. è proprietario di un’area di terreno in Carovigno, alla contrada “(OMISSIS)”, ricadente in origine nella zona D a carattere artigianale del Programma di Fabbricazione (PdF) del Comune di Carovigno, approvato nel 1973;

– con la Delib. 10 giugno 1976, n. 48 e Delib. 10 giugno 1976, n. 49 il Comune di Carovigno adottò il piano quadro della zona D, in variante al PdF, nonchè lo studio di lottizzazione delle aree di proprietà D.V. poste all’interno del piano quadro (con lo schema della relativa convenzione di lottizzazione);

– con Delib. Giunta Regionale 24 settembre 1979, resa esecutiva dal Commissario di Governo con decisione n. 9637 del 13 novembre 1979, venne approvato il piano per insediamenti produttivi di cui alla Delib. Comunale n. 49 del 1976;

– l’inserimento di queste aree nel PIP si protrasse ininterrottamente fino al 12 marzo 1990, quando il Comune adottò una variante al Programma di fabbricazione, localizzando altrove la zona di insediamenti produttivi;

– in data 29 marzo 1995 tale ultimo deliberato venne confermato e le aree di proprietà D.V. vennero tipizzate come zona agricola B2.

La Corte di merito ha perciò concluso nel senso che il vincolo seguito all’adozione ed all’approvazione del piano di insediamenti produttivi si sarebbe protratto oltre il decennio ed ha ritenuto tale situazione imputabile al Comune e potenzialmente produttiva di danni per il privato proprietario dei terreni inseriti nel P.I.P.; ha comunque rimesso ogni accertamento sull’esistenza in concreto di danni risarcibili al prosieguo del giudizio e, quindi, alla emananda sentenza definitiva.

4.- Il motivo, così come proposto con riferimento alla norma dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5 non è meritevole di accoglimento.

Esso infatti denuncia un preteso vizio di motivazione sulla distinzione tra le diverse categorie di vincoli che, per come è dato evincere anche da quanto riportato al precedente punto 3, non sussiste, avendo la Corte d’Appello ampiamente motivato sul punto.

Nè il ricorrente censura – denunciando un error in judicando – la conclusione cui è giunto il giudice di merito circa l’appartenenza del vincolo in questione alla categoria di quelli preordinati all’espropriazione.

Peraltro, trattasi di conclusione ineccepibile dal momento che il piano per gli insediamenti produttivi (P.I.P.) adottato ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 27, una volta approvato dal Presidente della Giunta Regionale comporta la dichiarazione ex lege di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza delle opere in esse previste (cfr., tra le altre, Cons. Stato n. 6631/03) ed abilita il sindaco, nel decennio di efficacia del piano stesso, a disporre l’occupazione d’urgenza e l’espropriazione dei fondi occorrenti (cfr. Cass. n. 1861/99). Pertanto, il relativo vincolo, essendo preordinato all’espropriazione, non ha carattere conformativo della proprietà privata, ma tendenzialmente ablativo, come appunto ritenuto dal giudice a quo.

4.1.- Piuttosto, non è del tutto coerente con i principi appena richiamati, il corollario (esposto al precedente punto 3.1) che la Corte d’Appello ha tratto in punto di illiceità della ritenuta “proroga” di efficacia del vincolo. Ed invero il piano per insediamenti produttivi (P.I.P.) “ha efficacia per dieci anni dalla data di approvazione ed ha valore di piano particolareggiato d’esecuzione ai sensi della L. 17 agosto 1942, n. 1150 e succ. mod.” (art. 27 cit.). Nessuna norma prevede, alla scadenza, la proroga del suddetto periodo. Trascorsi dieci anni e venuta meno l’efficacia del piano, l’Amministrazione può solo valutare l’opportunità di predisporre un nuovo strumento con conseguente rinnovazione della scelta pianificatoria attuativa rimasta inattuata (Cons. Stato n. 128/95, nonchè Cass. n. 9508/99).

Pertanto, alla scadenza del decennio, venendo meno l’efficacia del piano viene meno anche la dichiarazione di pubblica utilità, con la conseguenza che, come in ogni altra ipotesi di perdita di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, viene meno il potere espropriativo in capo alla pubblica amministrazione (cfr., tra le tante, Cons. Stato n. 4813/03 e n. 1658/05, nonchè Cass. S.U. n. 1343/98 e n. 10024/07, e Cass. n. 644/99 fino a Cass. n. 17491/08).

In conclusione, viene meno il vincolo preordinato all’espropriazione.

La finalità della distinzione tra le due categorie di vincoli risiede, per come affermato dalla Consulta già con la sentenza n. 55 del 1968, nell’indennizzabilità dei vincoli di inedificabilità assoluta od a questi assimilabili; tuttavia, la limitazione temporale di efficacia si pone come alternativa all’indennizzo, nel senso che in tanto il vincolo risulta indennizzabile in quanto è imposto a tempo indeterminato; ancora, si prospetta la necessità del riconoscimento di un indennizzo quando, pur essendo stabilita per legge la durata del vincolo, è prevista la prorogabilità del termine ovvero il vincolo venga comunque reiterato, dopo la scadenza del termine, da parte della p.a. (cfr. Corte Cost. n. 575/89, n. 186/93, n. 179/99, n. 411/01, n. 148/03, per la progressiva elaborazione giurisprudenziale del principio della alternatività tra temporaneità dei vincoli urbanistici preordinati alla espropriazione o sostanzialmente ablativi e obbligo di indennizzo; a questa fa da riscontro normativo la previsione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 39, comma 1, che ha definitivamente sancito l’obbligo di indennità, commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto, in favore del proprietario, in caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo).

Consegue a quanto sopra che, invece, qualora il vincolo venga a scadenza, e non sia reiterato nè prorogato, ogni compressione al diritto di proprietà viene meno ed, a meno che in attuazione del vincolo venuto a scadere la p.a. non abbia emanato ulteriori provvedimenti a carattere ablatorio o posto in essere comportamenti in sè lesivi del diritto di proprietà, non è configurabile alcuna pretesa risarcitoria e/o indennitaria in capo al privato proprietario. Nel caso di specie, la Corte di merito ha invece ritenuto che il diritto al risarcimento fosse configurabile anche soltanto per l'”illegittimo protrarsi del mantenimento del vincolo”.

Tuttavia, il ricorrente non ha censurato siffatta conclusione – denunciando un error in judicando con riferimento alle norme sopra richiamate, in specie alla L. n. 865 del 1971, art. 27, ma si è limitato a dedurre il vizio di motivazione in punto di illiceità ed idoneità del comportamento della p.a. a produrre danni.

Resta pertanto precluso a questa Corte l’esame dell’interpretazione che il giudice di merito ha dato alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 27, essendosi formato un giudicato interno, per mancata impugnazione, sulla statuizione di illegittima operatività oltre il decennio del vincolo nascente dall’inserimento dei terreni di proprietà D.V. nel P.I.P..

5.- Decidendo sul secondo motivo di ricorso, non può che concludersi nel senso che non sussiste vizio di motivazione sull’illiceità del comportamento della p.a.: questa illiceità è stata ritenuta – per come ampiamente detto in motivazione – perchè il Comune avrebbe agito violando la norma del citato art. 27, così come (sia pure non correttamente) interpretata dalla stessa Corte d’Appello.

Quanto all’asserito vizio di motivazione sull’idoneità della condotta illecita a produrre i danni lamentati dall’attore appellante, odierno resistente, esso non appare nemmeno astrattamente configurabile dal momento che la sentenza impugnata è non definitiva; essa ha rimesso ogni accertamento sull’esistenza in concreto di danni risarcibili alla sentenza definitiva, avendo espressamente fatto riferimento al “danno potenzialmente cagionato” (in motivazione) e ad “eventuali danni” (in dispositivo). In conclusione, la sentenza non ha motivato sull’esistenza e sull’entità dei danni proprio perchè non hanno formato oggetto di decisione.

6.- Col terzo motivo del ricorso principale è denunciata violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale con riguardo al danno evitabile ex art. 1227 cod. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 3. Sostiene il ricorrente che il giudice di merito non avrebbe tenuto in alcun conto il comportamento del danneggiato D.V., in particolare non avrebbe considerato l’inerzia di quest’ultimo alla scadenza del decennio di efficacia del vincolo; secondo il Comune, non essendosi il proprietario adoperato per porre rimedio, anche “con gli ordinari strumenti giudiziali”, allo stato di incertezza seguito a detta scadenza, si sarebbero prodotti “danni che l’attore avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza”; il risarcimento di questi danni non sarebbe ammissibile.

6.1.- Il motivo è inammissibile.

L’illustrazione non chiarisce se, con la generica indicazione dell’art. 1227 cod. civ., contenuta nel titolo, il ricorrente abbia inteso fare riferimento al primo ovvero al comma 2 della norma.

Infatti, i richiami ai danni evitabili dal danneggiato con l’ordinaria diligenza indurrebbero a riferire il motivo all’ipotesi del secondo comma, mentre i cenni all’idoneità del comportamento del danneggiato ad essere, a sua volta, “fonte” di danni ingiusti (come detto anche nel quesito di diritto), in concorso con la condotta del danneggiante, farebbero propendere per la conclusione opposta.

Sebbene si tratti di ipotesi da tenere nettamente distinte, sia quanto alla disciplina sostanziale che quanto a quella processuale (cfr., da ultimo, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte, Cass. n. 12714/10, nel senso che l’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso – di cui all’art. 1227 cod. civ., comma 1 – va distinta da quella – disciplinata dal comma 2 della medesima norma – riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza contribuire alla sua causazione, giacchè – mentre nel primo caso il giudice deve procedere d’ufficio all’indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso – la seconda di tali situazioni forma oggetto di un’eccezione in senso stretto, in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede), il motivo non si sottrae all’inammissibilità, qualunque sia il comma cui si intenda riferito ed anche se riferito ad entrambi.

6.2.- In punto di rilevabilità d’ufficio del concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 cod. civ., comma 1 (richiamato dall’art. 2056 cod. civ.), va data conferma della giurisprudenza di questa Corte, per la quale trattasi di oggetto di indagine da compiersi d’ufficio (cfr., oltre a Cass. 4799/2001, tra le più recenti, n. 23734/09). Tuttavia, è altrettanto costante nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione, che qui si ribadisce, per la quale è onere della parte convenuta quale responsabile del danno di porre espressamente la questione del concorso del fatto colposo del danneggiato ex art. 1227 cod. civ., comma 1 (cfr. Cass. n. 24080/08), prospettando gli elementi di fatto dai quali sarebbe ricavabile detto concorso, in presenza dei quali soltanto è possibile la delibazione ex officio. Pertanto, anche in considerazione del fatto che la sentenza impugnata nulla dice al riguardo, sarebbe stato onere del Comune ricorrente, dedurre e dimostrare, così rispettando anche il disposto dell’art. 366 cod. proc. civ., n. 6, di avere posto la questione nei precedenti gradi di merito, indicando gli atti di parte contenenti l’enunciazione degli elementi di fatto su cui il giudice a quo si sarebbe dovuto pronunciare anche ex art. 1227 cod. civ., comma 1.

6.3.- A maggior ragione tale conclusione va raggiunta con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 1227 cod. civ., comma 2, che da luogo ad un’eccezione in senso stretto; eccezione, quindi, che la parte ricorrente avrebbe dovuto dichiarare di avere sollevato nei precedenti gradi di merito, riportando in ricorso, anche in sintesi, il contenuto degli atti di parte, al fine di consentire a questa Corte di controllare la veridicità dell’assunto, prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr. Cass. n. 20518/08 ed altre); in mancanza, l’eccezione in parola è da reputarsi non proposta in sede di merito e quindi oggetto di questione inammissibile dinanzi a questa Corte (cfr. Cass. n. 15422/05).

7.- Con l’unico motivo del ricorso incidentale, D.V.A. deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto sostanziale con riguardo all’art. 2043 c.c. ed art. 97 Cost., per avere la Corte d’Appello rigettato la domanda di risarcimento dei danni che sarebbero stati prodotti dall’inserimento dei terreni di sua proprietà, già inseriti nel P.I.P., in zona agricola di tipo B2; inserimento dovuto alla Delib. Comune Carovigno 29 marzo 1995, n. 22, con la quale il Comune, confermando altro precedente deliberato n. 123 del 12 marzo 1990 (col quale aveva adottato una variante al programma di fabbricazione, localizzando la zona per gli insediamenti produttivi in aree diverse da quelle di proprietà D.V.), aveva appunto “declassato” i terreni del D.V. facendoli ricadere nella zona agricola piuttosto che in quella artigianale.

7.1.- La Corte d’Appello di Lecce ha ritenuto che la variazione della zonizzazione comunale sia espressione di discrezionalità amministrativa, a fronte della quale non sussisterebbe una posizione soggettiva del privato la cui lesione possa comportare il diritto al risarcimento ex art. 2043 cod. civ..

8.- Il motivo è infondato.

La decisione impugnata va condivisa anche quanto alle ragioni del rigetto della domanda risarcitoria, a cui vanno aggiunte le seguenti precisazioni.

Va ribadita la giurisprudenza richiamata dal ricorrente incidentale per la quale l’attività della pubblica amministrazione anche nel campo della pura discrezionalità deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge ma anche dalla norma primaria del neminem laedere, sicchè anche la pubblica amministrazione è tenuta a subire le conseguenze dell’art. 2043 cod. civ., ponendosi i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione dettati dall’art. 97 Cost., come limiti esterni alla discrezionalità amministrativa (cfr.

Cass. S.U. n. 7339/98, nonchè Cass. n. 3132/01 e n. 1191/03, e da ultimo Cass. n. 5120/11). Va tuttavia ricordato che, anche alla stregua dei precedenti appena richiamati, il sindacato dell’attività discrezionale è precluso al giudice ordinario.

Va altresì ribadito che per configurare la responsabilità della pubblica amministrazione ex art. 2043 cod. civ. è necessario ma non sufficiente dedurre dinanzi al giudice ordinario (con riferimento ai giudizi che, come il presente, siano stati introdotti prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 80 del 1998) l’illegittimità dell’esercizio della funzione amministrativa e/o dei relativi provvedimenti, dovendosi altresì allegare la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano, da riferirsi alla pubblica amministrazione in quanto tale (cfr. già Cass. n. 500/99 e n. 3726/00, nonchè Cass. n. 15686/05, n. 20358/05, n. 6005/07, n. 21850/07).

Nel caso di specie, il ricorrente incidentale si è limitato a contestare l’adozione da parte del Comune di Carovigno delle delibere di zonizzazione su menzionate, senza nemmeno dedurre il superamento dei limiti esterni alla discrezionalità amministrativa di cui all’art. 97 Cost. e, quindi, senza indicare ragioni di illegittimità dei provvedimenti e, men che meno, allegare elementi atti a comprovare il dolo o la colpa della p.a.. Con siffatta condotta processuale ha finito sostanzialmente per richiedere la verifica dell’attività discrezionale della pubblica amministrazione, che, come rilevato anche dalla Corte d’Appello di Lecce, è insindacabile da parte del giudice ordinario. La “riduzione del valore di mercato dei suoli”, che il D.V. ha allegato come danno ingiusto altro non è che l’effetto dell’esercizio dell’attività amministrativa discrezionale di zonizzazione; esso non può reputarsi conseguenza di un illecito, dal momento che il ricorrente incidentale ha completamente omesso di dedurre in giudizio gli elementi fondamentali della fattispecie costitutiva dell’art. 2043 cod. civ., nei confronti della p.a. (imputabilità dell’evento assunto come dannoso a responsabilità della p.a. basata su atti o comportamenti illegittimi ed adottati con dolo o colpa).

Il ricorso incidentale va perciò rigettato.

9.- Il rigetto di entrambi i ricorsi rende di giustizia la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta; compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 3 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2011

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