Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 279 del 10/01/2017

Cassazione civile, sez. I, 10/01/2017, (ud. 03/11/2016, dep.10/01/2017),  n. 279

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAGONESI Vittorio – Presidente –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16210-2012 proposto da:

D.L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO

MIRABELLO 14, presso l’avvocato MARIO MENDICINI, rappresentato e

difeso dall’avvocato MARIO GIANTIN, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TOSCANA

1, presso l’avvocato GIUSEPPE CERULLI IRELLI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE TRAMAROLLO, giusta procura

in calce al controricorso;

VECCHIA MURANO S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F. CONFALONIERI 5,

presso l’avvocato ANDREA MANZI, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MICHELE OMETTO, giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrenti –

contro

FININVEN S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1124/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 09/05/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/11/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato GIOVANNI GIANTIN, con delega,

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per la controricorrente, l’Avvocato EMANUELE COGLITORE, con

delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 17 il 18 maggio 2001 D.L.L. deduceva che nel corso dell’anno 1998 si era accordato con S.G., maestro vetraio di Murano e con la società Le Boulevard s.r.l. per la riproduzione in vetro di un cavallo di grandi dimensioni già eseguito in bronzo, e acclamato dalla critica; rilevava che l’intesa prevedeva la successiva vendita della scultura, con riparto dei ricavi, e precisava che l’accordo assegnava ad esso attore la creazione del modello e la prestazione della necessaria collaborazione durante la lavorazione, a S. l’esecuzione materiale dell’opera e alla società Le Boulevard l’anticipazione dei costi necessari alla realizzazione di questa. Chiariva che il rapporto con Le Boulevard si era successivamente risolto, previo rimborso dei costi affrontati dalla predetta società e che, in seguito, la società Vetreria P.S. di G. S. e C. s.n.c. aveva venduto a VE.RO s.r.l. l’opera al prezzo di L. 180.000.000, ricevendo l’ulteriore somma di 100.000.000 in forza di un atto integrativo sottoscritto in pari data; nell’accordo era inoltre previsto che la società venditrice corrispondesse all’attore quanto allo stesso dovuto al fine di assicurare il pacifico godimento del bene ceduto. D.L. assumeva di non aver percepito alcunchè e conveniva quindi in giudizio sia S.G. che Vetreria P.S. chiedendo la loro condanna al pagamento della somma di L. 100.000.000, pari alla metà dell’utile netto conseguito con la predetta cessione. Lo stesso istante rappresentava poi che VE.RO aveva ceduto l’opera a Vecchia Murano s.r.l. e che per eseguire il trasporto S. aveva operato il distacco della testa del cavallo dal restante corpo della scultura: operazione cui seguiva la ricongiunzione delle due parti; assumendo che detto intervento aveva compromesso la funzionalità e originalità dell’opera, ledendo il suo diritto d’autore, D.L. chiedeva che Vecchia Murano fosse condannata ad esibire in pubblico la statua con una didascalia che precisava non essere quello l’originale, ma una sua interpretazione.

Nel contraddittorio con i diversi convenuti, tutti costituiti, il Tribunale di Venezia condannava Vetreria P.S. al pagamento della somma di Euro 20.658,28, oltre interessi; condannava, altresì, quest’ultima, al pagamento delle spese processuali in favore dell’attore: spese che, per il resto, venivano compensate tra le altre parti del giudizio. Il giudice di prime cure riconosceva l’attore e S. coautori dell’opera a norma dell’art. 10 l. aut. e attribuiva pertanto a D.L. il 50% della differenza tra il ricavato della vendita dell’opera (L. 180.000.000) e il costo della medesima (Euro 100.000.000).

La sentenza era impugnata da S. e dalla società Vetreria P.S., in via principale, e dalle altre parti, in via incidentale. La Corte di appello di Venezia, con sentenza pubblicata il l giugno 2011, in parziale accoglimento dell’appello principale e di quello incidentale proposto da VERO e Vecchia Murano, condannava D.L. al pagamento delle spese di primo grado in favore di queste due ultime società e di S.G.; rigettava, invece, l’appello incidentale dello stesso D.L. e condannava lo stesso alla rifusione delle spese del grado di impugnazione nei confronti di S.G., VE.RO e Vecchia Murano; compensava infine le spese di entrambi i gradi tra D.L. e Vetreria P.S..

Contro tale sentenza D.L.L. ha proposto un ricorso per cassazione basato su quattro motivi; resistono con controricorso S.G. e Vecchia Murano. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente deve darsi atto che, in considerazione dell’estinzione, in data successiva alla pronuncia della sentenza di appello, della società Vetreria P.S. cancellata dal registro delle imprese in data 2 dicembre 2011, come da visura camerale prodotta dal ricorrente – il ricorso è stato notificato a S.G., quale ex-socio della suddetta società, subentrato nella posizione dell’ente a norma dell’art. 2312 c.c., comma 2. Allo stesso modo, il ricorrente, in considerazione della estinzione di VE.RO s.r.l., ha notificato il proprio atto di impugnazione a Fininven s.p.a. (incorporante Ro.Ve.Fin s.p.a., socia di VE.RO, come da documentazione prodotta ex art. 369 c.p.c.).

Con il primo motivo di ricorso è invocato l’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5; le norme richiamate in rubrica sono gli artt. 101, 102, 156, 163, 163 bis, 164, 307 e 350 c.p.c.. Viene contestata la violazione della legge processuale in ordine al mancato e decisivo rilievo della nullità dell’atto introduttivo del giudizio di appello e della mancata adozione dell’atto di rinnovazione dello stesso nei termini e nei modi previsti dalla legge processuale, nonchè la mancata pronuncia di una causa di estinzione del giudizio in derivazione delle omissioni e delle nullità che si erano prodotte, oltre che l’illogica e contraddittoria motivazione assunta con riferimento alla mancata rinnovazione dell’atto nullo. Ricorda il ricorrente che gli appellanti Vetreria P.S. e S.G. avevano notificato l’atto di citazione di appello il 6 aprile 2006, nel mancato rispetto del termine minimo di comparizione, e che all’udienza del 5 giugno 2006 la Corte territoriale aveva fissato nuova udienza al giorno 2 ottobre 2006, assegnando agli appellanti stessi termine fino al 30 giugno 2006 per la notifica dell’ordinanza; il ricorrente aveva poi provveduto alla notifica della copia del verbale di udienza, in cui era contenuta la nominata ordinanza: notificazione che si era perfezionata in data 5 luglio 2006; in data 27 luglio 2006 il ricorrente aveva depositato comparsa di risposta con cui, pur svolgendo le proprie difese nel merito e spiegando appello incidentale, aveva lamentato la mancata rinnovazione dell’atto di citazione, oltre che il mancato rispetto del termine perentorio assegnato dalla Corte agli appellanti per la notificazione, ed eccepito, altresì, l’estinzione del giudizio a norma degli artt. 164 e 307 c.p.c.. L’odierno istante si duole, così, della mancata rinnovazione della citazione di appello (posto che in sua vece era stata disposta la notifica dell’ordinanza di differimento della causa ad altra udienza) e del fatto che nell’espletamento dell’attività notificatoria non era stato osservato nè il termine minimo di 60 giorni, previsto a favore dell’appellato, nè quello individuato dalla Corte di Venezia attraverso l’indicazione della data del 30 giugno 2006. Sottolinea, al riguardo, che la nullità era stata dedotta nella comparsa di risposta e che l’eccezione in tal senso svolta non era stata oggetto di successiva rinuncia.

Con riguardo alle censure svolte la sentenza non merita cassazione.

Il motivo pone tre questioni e, precisamente: a) quale effetto abbia la rinnovazione della citazione ex art. 164 c.c., comma 2 attuata attraverso la notificazione del verbale di udienza, ove tale modalità sia espressamente prescritta dal giudice; b) se possa configurarsi il mancato rispetto del termine assegnato dal giudice per il rinnovo della citazione nell’ipotesi in cui l’atto sia stato avviato per la notifica nel termine assegnato, ma consegnato in data successiva; c) quali siano le conseguenze del mancato rispetto del termine minimo di comparizione di cui all’art. 163 bis c.p.c., nell’ipotesi in cui il giudice abbia assegnato un termine inferiore e il convenuto, pur avendo sollevato eccezione sul punto, si sia costituito spiegando le proprie difese nel merito.

Nella circostanza, è bene ricordare, la Corte di merito, una volta rilevato che la citazione attrorea, per quanto riguardava specificamente D.L., non rispettava il termine minimo di comparizione, ordinò che al detto appellato venisse notificata, entro la data del 30 giugno 2006, l’ordinanza che fissava la nuova udienza al giorno 2 ottobre 2006.

Ciò posto, ritiene anzitutto il Collegio che bene abbia fatto il giudice del gravame ad applicare l’art. 164 c.p.c., comma 2 (seppure il procedimento di rinnovazione della citazione sia stato dallo stesso programmato in modo non conforme al modello legale, come subito si dirà). Infatti, anche in fase di gravame, se tra la notifica dell’atto di appello e l’udienza di comparizione intercorre un termine inferiore a quello di legge, l’atto di citazione è nullo ai sensi dell’art. 164 c.p.c., comma 1, e deve applicarsi il secondo comma di tale norma, secondo cui, in caso di mancata costituzione del convenuto, il giudice, rilevata la nullità della citazione, ne dispone la rinnovazione entro un termine perentorio (Cass. 28 maggio 2010, n. 13128; Cass. 5 maggio 2004, n. 8539).

Gli appellanti si sono attivati osservando le modalità indicate dalla Corte distrettuale, che erano però difformi rispetto a quelle previste dalla legge, dal momento che l’art. 164 c.p.c., comma 2 impone la “rinnovazione” dell’atto introduttivo, e cioè che al convenuto sia notificata una seconda citazione, riproduttiva di quella originaria, emendata dal vizio che questa presenti (nella specie: l’assegnazione di un termine di comparizione inferiore a quello di cui all’art. 163 bis c.p.c.).

Lo schema processuale attraverso cui si è inteso instaurare il contraddittorio con l’odierno ricorrente nel giudizio di appello risulta definito, da un lato, dalla valorizzazione della intervenuta notifica dell’atto di citazione (che però non rispettava, nella vocatio in jus, il termine minimo di comparizione ed era perciò invalido) e, dall’altro, dalla notifica dell’ordinanza con cui è stata disposta la fissazione della nuova udienza (di un atto, cioè, diverso da quello con cui va introdotto il giudizio di gravame). L’evocazione in lite attuata attraverso la combinazione dei due atti diverge all’evidenza dalla prescrizione di legge che esige la rinnovazione della citazione: si è pertanto in presenza della denunciata nullità.

Ora, questa S.C. ha rilevato, di recente, che il giudice di appello, ove abbia ordinato la rinnovazione della notifica del gravame con prescrizioni rivelatesi erronee, non possa dichiarare inammissibile l’impugnazione, ma debba revocare l’ordinanza e concedere nuovo termine di notifica (Cass. 12 maggio 2014, n. 10273). Per il principio del giusto processo, dunque, l’invalidità dell’atto che sia determinata dal provvedimento del giudice non può pregiudicare la parte che abbia prestato osservanza a quest’ultimo.

Nella fattispecie, la necessità di disporre un ulteriore rinnovo della citazione era però esclusa dall’avvenuta costituzione del convenuto. Quest’ultima presentava, infatti, la medesima efficacia sanante che avrebbe rivestito il rinnovo della citazione nell’ipotesi in cui la costituzione fosse mancata. La nullità dell’atto, determinata dalla difformità di esso rispetto al paradigma legale, si è dunque sanata per il raggiungimento dello scopo, a norma dell’art. 156 c.c., comma 3.

Quanto al mancato rispetto del termine di comparizione, avendo specificamente riguardo a quello fissato dalla Corte di appello, deve rilevarsi quanto segue. Per mancata esecuzione dell’ordine di rinnovazione della citazione ex art. 164 c.c., comma 3 cui segue la cancellazione della causa dal ruolo, con estinzione del giudizio -, deve intendersi la mancata consegna all’ufficiale giudiziario da parte del soggetto che richiede la notificazione, nel termine stabilito dal giudice, dell’atto da notificare in esecuzione dell’ordine di rinnovazione: pertanto la cancellazione della causa dal ruolo e l’estinzione del giudizio possono essere disposte dal giudice solo se nel termine dallo stesso stabilito la parte richiedente la notificazione non abbia consegnato all’ufficiale giudiziario l’atto da notificare (si veda, sul tema della rinnovazione della notificazione della citazione, Cass. 7 febbraio 2006, n. 2593). Nella fattispecie, la Corte territoriale ha accertato che l’atto fu consegnato all’ufficiale giudiziario l’ultimo giorno utile (e cioè tempestivamente rispetto al termine del 30 giugno 2006), sicchè le indicate conseguenze processuali non possono essersi prodotte.

In termini generali, però, tale circostanza non vale ad escludere la nullità dell’atto ove, fermo restando il dato del tempestivo attivarsi del procedimento notificatorio, questo non sia stato portato a termine nel rispetto del termine minimo di comparizione di cui all’art. 163 bis c.p.c..

Nel caso in esame la notificazione, nei confronti del convenuto, oggi ricorrente, ha avuto luogo senza osservare il termine predetto. L’evenienza non è tuttavia decisiva.

Va infatti osservato che l’art. 164 c.c., comma 3, con riferimento all’inosservanza del termine di comparizione, esclude che la nullità sia sanata dalla costituzione del convenuto ove egli, come nella fattispecie è accaduto, la eccepisca; in tal caso il giudice dovrà fissare una nuova udienza nel rispetto dei termini (art. 164 c.p.c., comma 3). Tale disciplina presuppone, tuttavia, che il convenuto, nel costituirsi, si limiti alla sola deduzione della nullità, senza svolgere difese: contegno, quest’ultimo, che integra sanatoria della nullità della citazione. In altri termini, come precisato dal questa Corte, il legislatore ha inteso ricollegare il dovere di fissazione della nuova udienza a una costituzione finalizzata alla sola formulazione dell’eccezione e non anche ad una costituzione che alla formulazione dell’eccezione accompagni lo svolgimento delle difese (Cass. 16 ottobre 2014, n. 21910, secondo cui “essendo la fissazione di una nuova udienza finalizzata ad assicurare che l’esercizio del diritto di difesa fruisca del termine a comparire o dell’avvertimento siccome ritenuto astrattamente necessari dal legislatore al rispetto del diritto di difesa, consentire al convenuto di costituirsi e svolgere l’eccezione e nel contempo le sue difese significa rimettere a lui lo spostamento dell’udienza, in chiara contraddizione con il fatto che, nonostante la nullità, ha svolto le sue difese, pur potendolo non fare”). Nel caso in esame, l’odierno ricorrente ebbe a spiegare le proprie deduzioni, proponendo addirittura appello incidentale (cfr. lo stesso ricorso, a pag. 15): l’effetto sanante si è quindi sicuramente prodotto, indipendentemente dalla mancata assegnazione di un differimento dell’udienza finalizzato al rispetto del termine minimo di comparizione.

Col secondo motivo sono lamentati i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5; le censure sono raccordate alle previsioni di cui agli artt. 1173, 1218, 1362 ss., 2291 e 2304 c.c., artt. 112, 115, 116, 91 e 92 c.p.c.. Si denuncia violazione di legge per non aver ritenuto corresponsabile in via solidale con la società Vetreria P.S., S.G., che aveva agito, anche in nome proprio, nell’ambito dei rapporti contrattuali obbligatori intervenuti tra le parti e che, comunque, era amministratore e socio illimitatamente responsabile della società di persone obbligata verso il ricorrente; viene altresì lamentata la “violazione delle norme sull’accertamento giudiziale cognitivo” circa la corresponsabilità del socio illimitatamente responsabile, oltre che l’omessa e contraddittoria motivazione sul punto inerente alla mancata condanna della predetta persona fisica quale socio di società in nome collettivo. La censura investe la decisione resa dalla Corte distrettuale con riferimento alla posizione di S.G., socio della Vetreria P.S. s.n.c.: profilo, questo, su cui la Corte di merito era stata chiamata a pronunciarsi per effetto dell’appello incidentale dello stesso D.L.. Osserva il ricorrente che il predetto S. risultava direttamente coinvolto nella vicenda per cui è causa, a lui essendo riferibili distinte posizioni obbligatorie: ciò che emergeva da plurimi elementi processuali. Deduce, altresì, che il principio della illimitata responsabilità dei soci della società in nome collettivo doveva indurre il giudice del gravame a pronunciare condanna anche nei confronti del detto soggetto, posto che il beneficio della preventiva escussione opera soltanto nella fase esecutiva e non in sede di accertamento dell’obbligazione.

Sfugge al sindacato di legittimità, in quanto si risolve nella censura di un accertamento di fatto, la verifica circa l’assunzione, da parte del predetto S.G., di obbligazioni personali nei confronti dell’odierno ricorrente. In proposito è sufficiente dunque osservare come secondo la Corte di appello la scrittura privata del 2 giugno 2000 preveda “chiaramente che l’obbligo di pagamento di quanto dovuto è stato assunto dalla società in nome collettivo P.S. e non dal medesimo in proprio”; mette conto pure di rilevare come lo stesso giudice del gravame abbia poi osservato che D.L. non avesse specificato, nella precedente fase di merito, quali fossero gli elementi probatori atti a corroborare la propria tesi.

Errata è, di contro, l’affermazione della Corte di Venezia secondo cui, ai fini della pronuncia di condanna di S.G., non rivestiva rilievo il fatto che questi fosse socio illimitatamente responsabile di Vetreria P.S..

Afferma in proposito la Corte di merito che tale qualità avvantaggiava D.L., attribuendogli la possibilità di aggredire anche il patrimonio personale del socio, ma non consentiva di “confondere i profili di responsabilità diretta con quella sussidiaria”.

In tal modo, la sentenza impugnata si è discostata dal costante insegnamento di questa Corte, secondo cui il beneficium excussionis concesso ai soci illimitatamente responsabili di una società di persone, in base al quale il creditore sociale non può pretendere il pagamento da un singolo socio se non dopo l’escussione del patrimonio sociale, opera esclusivamente in sede esecutiva, nel senso che il creditore sociale non può procedere coattivamente a carico del socio se non dopo aver agito infruttuosamente sui beni della società, ma non impedisce al predetto creditore di agire in sede di cognizione, per munirsi di uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio, sia per poter iscrivere ipoteca giudiziale sui beni immobili di questi, sia per poter prontamente agire in via esecutiva contro il medesimo, ove il patrimonio sociale risulti incapiente (per tutte: Cass. 15 luglio 2005, n. 15036; Cass. 12 agosto 2004, n. 15713; Cass. 8 novembre 2002, n. 15700; Cass. 3 giugno 1998, n. 5434). Come di recente sottolineato dalle Sezioni Unite, la responsabilità del socio illimitatamente responsabile di una società di persone per le obbligazioni sociali si configura come personale e diretta, anche se con carattere di sussidiarietà in relazione al preventivo obbligo di escussione del patrimonio sociale: tale soggetto “non può, quindi, essere considerato terzo rispetto all’obbligazione sociale, ma debitore al pari della società per il solo fatto di essere socio tenuto a rispondere senza limitazioni” (Cass. S.U. 16 febbraio 2015, n. 3022). La sussidiarietà, come rilevato, opera solo nella fase esecutiva – nel senso che deve essere prima escusso il patrimonio della società – e nulla osta a che il socio predetto sia condannato in solido con la società per le obbligazioni cui questa è tenuta.

L’erronea motivazione in diritto della sentenza non vale però a determinarne la cassazione, giusta l’art. 384 c.p.c., comma 4.

Infatti, il socio di una società in nome collettivo, che pur risponde solidalmente ed illimitatamente delle obbligazioni sociali, è carente di legittimazione passiva laddove, per il pagamento di debiti della società, venga convenuto in giudizio non nella qualità di socio ma in proprio, non potendo in tal caso far valere in sede esecutiva il beneficio della previa escussione del patrimonio sociale (Cass. 16 agosto 2010, n. 18718; Cass. 18 aprile 2006, n. 8956). Ebbene, parte ricorrente non deduce, in ricorso, di aver evocato in giudizio S.G. nella sua qualità di socio illimitatamente responsabile della società Vetreria P.S., nè comunque trascrive, in ossequio al principio di autosufficienza, la parte dell’atto di citazione in primo grado in cui sarebbe stata prospettata la legittimazione del convenuto nella nominata qualità di socio. Discende da ciò che, fermo l’errore in cui è incorsa la Corte distrettuale, la pronuncia impugnata, nella parte in cui esclude la condanna di S.G. in quanto socio illimitatamente responsabile di Vetreria P.S., è conforme al diritto.

Il terzo motivo censura la sentenza impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, con riferimento agli artt. 91, 92, 99, 100, 102, 112 e 347 c.p.c.. Lamenta il ricorrente la violazione ed errata applicazione delle norme disciplinanti il regolamento delle spese tra le parti, con illegittima imputazione delle stesse alla parte totalmente vittoriosa in grado di appello, l’inammissibile riforma del capo delle spese della sentenza di primo grado in difetto di impugnazione specifica, l’ingiusto addebito di spese con riguardo alla parte difesa da un unico difensore per l’ipotesi di identità di posizioni, deduzioni e attività processuali, il fatto che le spese del giudizio di secondo grado fossero state riversate su parti verso cui non era stata rivolta domanda, nonchè la motivazione totalmente erronea e omissiva sulle ragioni circa la modifica della regolamentazione delle spese di primo e di secondo grado, con loro addebito al ricorrente. In sintesi, il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia compensato le spese non solo del primo grado ma anche della fase di gravame tra la Vetreria P.S. ed esso istante sulla base di una non motivata soccombenza reciproca dei contendenti; si duole, altresì, dell’accoglimento dell’appello, proposto da S. in proprio, circa il rimborso delle spese: accoglimento disposto sulla base dell’affermato “integrale rigetto nei suoi confronti delle domande del D.L. riproposta in via di appello incidentale”; denuncia poi l’accoglimento dell’appello principale di VERO e Vecchia Murano con conseguente addebito delle spese, sia del primo che del secondo grado, ad esso istante, nonostante che nessuna domanda fosse stata rivolta dal ricorrente nei confronti dei predetti soggetti; lamenta, altresì, che quest’ultima determinazione della Corte di merito era stata assunta affermandosi, inspiegabilmente, che l’evocazione delle due società nella fase di gravame era dipesa dall’iniziativa dello stesso D.L..

Occorre premettere che la denuncia della violazione dell’art. 91 c.p.c. ha natura processuale (Cass. 13 febbraio 2006, n. 3083), sicchè la relativa censura consente l’esame degli atti di causa.

Con riguardo alla posizione di S.G., la sua soccombenza giustifica senz’altro la pronuncia di condanna: nè rileva che lo stesso e la società Vetreria P.S. fossero congiuntamente difesi dallo stesso avvocato, giacchè tale evenienza non esonerava di certo il giudice del merito dal fare applicazione della regola di cui all’art. 91 c.p.c..

La sentenza impugnata non merita poi cassazione nella parte in cui ha riformato la pronuncia di primo grado con riguardo alla regolamentazione delle spese processuali tra D.L. e la società Vetreria P.S.. Come ricordato dalla Corte di merito (pag. 4 della pronuncia impugnata), il gravame della società

investiva anche la decisione inerente alla regolamentazione delle spese di primo grado, e, più in particolare, la statuizione con cui si era fatto “carico integrale” di dette spese a Vetreria P.S.. E’ qui appena il caso di ricordare che la mancata riproduzione, nella parte dell’atto di appello a ciò destinata, delle conclusioni relative ad uno specifico motivo di gravame non può per ciò solo equivalere a difetto di impugnazione, ovvero essere causa di nullità della stessa, se dal contesto complessivo dell’atto risulti, sia pur in termini non formali, una univoca manifestazione di volontà di proporre impugnazione per quello specifico motivo (Cass. 15 novembre 2013, n. 25751; Cass. 15 maggio 2003, n. 7585).

Con particolare riguardo al fondamento giustificativo della pronuncia di compensazione delle spese, che la Corte di Venezia ha individuato nella “soccombenza reciproca” dei contendenti, occorre osservare che con tale espressione il giudice di appello ha inteso evidentemente chiarire che le domande proposte da D.L. non erano state integralmente accolte. Infatti, la reciproca soccombenza va ravvisata sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, tanto allorchè quest’ultima sia stata articolata in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento (Cass. 22 febbraio 2016, n. 3438; Cass. 23 settembre 2013, n. 21684; Cass. 21 ottobre 2009, n. 22381). Poichè, poi, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, esula dai limiti commessi all’accertamento di legittimità e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, e ciò sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca, sia nell’ipotesi di concorso di altri giusti motivi (per tutte: Cass. 19 giugno 2013, n. 15317; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20145). Erra, infine, il ricorrente nel lamentare che l’impugnazione proposta dalla società Vetreria P.S. era stata integralmente respinta (con la conseguenza che era precluso alla Corte di merito di disporre la compensazione delle spese di appello sulla base della asserita reciproca soccombenza delle parti in fase di gravame): infatti, come si è prima affermato, l’impugnazione della Vetreria era stato accolta proprio sul punto della regolamentazione delle spese di primo grado.

Passando all’esame delle censure sollevate con riguardo alla pronuncia di accoglimento dell’appello incidentale di VERO e di Vecchia Murano, sempre in punto di spese, si osserva che la Corte distrettuale ha basato la riforma della sentenza di prime cure (che ne aveva operato la compensazione) sul rilievo per cui D.L. aveva visto respinte sia la domanda di accertamento del maggior prezzo (che la Corte ha affermato essere stata spiegata nei confronti di VE.RO), sia quella di risarcimento per il danneggiamento della scultura (che lo stesso giudice distrettuale ha asserito essere stata introdotta nei confronti di Vecchia Murano). Tale riforma era stata domandata dalle due società con la “comparsa di costituzione e risposta con appello incidentale” depositata il 16 maggio 2006, in cui erano rassegnate le seguenti conclusioni: “rigettarsi l’appello ed in riforma della sentenza di primo grado condannarsi le controparti al pagamento delle spese del primo grado”. A nulla rileva, poi, che nella suddetta comparsa VERO e Vecchia Murano abbiano richiesto di adottarsi i necessari provvedimenti necessitati dal mancato rispetto, da parte degli appellanti S. e Vetreria P.S., del termine minimo di comparizione: infatti, detta circostanza non precludeva di certo agli appellati di proporre, da subito, il gravame incidentale.

L’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, per cui non assumeva rilievo il fatto che D.L. “non abbia svolto in appello domande nei confronti dei due enti”, giacchè “l’evocazione in giudizio delle due società nella fase di gravame dipende dalla sua iniziativa” è evidentemente da intendere nel senso che fu l’attore a evocare in causa, in primo grado, VE.RO e Vetreria Murano: evenienza, questa, che determinò anche la partecipazione delle due società al giudizio di appello (visto che, come sopra rilevato, le odierne controricorrenti intesero impugnare in via incidentale la statuizione di compensazione delle spese resa dal Tribunale).

Prive di consistenza sono, poi, le ulteriori deduzioni del ricorrente, secondo cui, per un verso, egli non avrebbe svolto alcuna domanda risarcitoria nei confronti di Vecchia Murano e, per altro verso, la domanda di accertamento del maggior prezzo spiegata nei confronti di VE.RO non sarebbe stata oggetto di alcuna contestazione. Anzitutto è la stessa Corte di appello a rammentare (a pag. 3 della sentenza) come l’odierno ricorrente avesse richiesto giudizialmente che Vecchia Murano fosse obbligata ad apporre sulla statua esibita in pubblico una didascalia: è a tale domanda che il giudice del gravame chiaramente allude allorquando parla di una domanda risarcitoria (essendo intuitivo, oltretutto, che una pretesa siffatta ben possa essere qualificata come domanda di risarcimento in forma specifica, a norma dell’art. 2058 c.c., artt. 158 e 168 l. aut.). Quanto alla posizione assunta da VERO con riferimento alla domanda contro di essa proposta, essa non vale ad escludere la soccombenza dell’attrice: tale soccombenza, infatti, trova il suo unico fondamento nel rigetto della domanda stessa. Vero è, semmai, che una condotta non oppositiva può essere valorizzata dal giudice del merito ai fini della compensazione delle spese per giusti motivi ex art. 92 c.p.c.. Ma la questione sfugge al sindacato di questa Corte, dal momento che la valutazione della opportunità della compensazione totale o parziale delle stesse rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, potendo essere denunciate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza (consistente nel divieto di condanna alle spese della parte che risulti totalmente vittoriosa), o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali (ex plurimis: Cass. 4 luglio 2011, n. 14542; Cass. 2 febbraio 2001, n. 1485; Cass. 14 aprile 2000, n. 4818; Cass. 29 aprile 1999, n. 4347).

Il quarto motivo prospetta i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 in relazione all’art. 2945 c.c. e artt. 75, 82, 99, 100 e 112 c.p.c. e ruota intorno all’avvenuta estinzione e cancellazione dal registro delle imprese della società VE.RO nelle more del giudizio di secondo grado (il 26 gennaio 2009):

evenienza, questa, cui è correlata la ritenuta illegittimità della pronuncia giudiziale, siccome resa nei confronti di soggetto non più esistente al momento della decisione.

Il motivo è privo di fondamento.

Si è visto che il giudizio di legittimità è stato instaurato nei confronti dei soggetti subentrati nei confronti delle estinte VERO e Vetreria P.S..

Nessuna questione può porsi con riferimento alla interferenza tra la cancellazione dal registro delle imprese della società Vetreria P.S. e la sentenza impugnata, visto che tale cancellazione ha avuto luogo dopo la pubblicazione della pronuncia della Corte veneta.

Per quel che concerne la posizione di VE.RO, invece, occorre osservare che la cancellazione della società dal registro delle imprese dà luogo ad un fenomeno estintivo che priva la società stessa della capacità di stare in giudizio, determinando così qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte costituita – un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 c.p.c. e ss.: l’omessa dichiarazione o notificazione di tale evento, ad opera del procuratore, comporta, in applicazione della regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte, risultando così stabilizzata la sua posizione giuridica (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonchè in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione (Cass. 31 ottobre 2014, n. 23141, che richiama l’intervento nomofilattico di Cass. S.U. 4 luglio 2014, n. 15295 sul principio della ultrattività del mandato al difensore).

Essendo dunque mancata la dichiarazione o notificazione della cancellazione della società ex art. 300 c.p.c., comma 1, il procedimento è proseguito regolarmente, senza che l’impugnata sentenza risulti inficiata da alcun vizio.

In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e oneri accessori, nei confronti dei due controricorrenti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 1 Sezione Civile, il 3 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2017

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