Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27899 del 04/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 04/12/2020, (ud. 10/11/2020, dep. 04/12/2020), n.27899

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25667-2019 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE E DEL TERRITORIO, (C.F. (OMISSIS)), in persona

Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

N.V., N.G., N.G.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 28, presso lo

studio dell’avvocato GAETANO ALESSI, rappresentati e difesi

dall’avvocato GIANMARCO ABBADESSA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 772/5/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA

REGIONALE della SICILIA SEZIONE DISTACCATA di CATANIA, depositata il

12/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. LORENZO

DELLI PRISCOLI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso proposto dalla parte contribuente avverso cartella di pagamento per IRAP, IVA e IRPEF relativo all’anno d’imposta 2004;

la Commissione Tributaria Regionale rigettava l’appello dell’Agenzia delle entrate osservando che era stato emanato un provvedimento di sgravio per l’IRAP a seguito della sentenza della CTP di Catania n. 154/06/2009 e pertanto, essendo errata la liquidazione a titolo di IRAP dichiara illegittimo l’atto impugnato nella parte in cui ne contesta la debenza per mancanza di motivazione o comunque per erronea liquidazione; inoltre ove l’Agenzia delle entrate avesse inteso chiedere anche il pagamento di quanto dichiarato e non versato da parte del padre degli odierni resistenti, il ruolo sarebbe illegittimo perchè la liquidazione doveva avvenire del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, mentre il ruolo per cui è giudizio è stato emesso ad altro titolo, inidoneo a portare la richiesta di pagamento delle imposte dichiarate e non versate in quanto in tale ipotesi sarebbe stato emesso oltre i termini di legge riguardando l’anno d’imposta 2004;

l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso affidato a due motivi di impugnazione mentre la parte contribuente si costituiva con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che con il primo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’Agenzia delle entrate denuncia nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in quanto la motivazione sarebbe meramente apparente e non idonea a rivelare la ratio decidendi della sentenza;

considerato che con il secondo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle entrate denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2, nonchè dell’art. 1241 c.c., della L. n. 212 del 1990, art. 8, e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, in quanto l’istanza di rimborso della maggiore imposta versata può essere presentata entro due anni dal passaggio in giudicato della sentenza: nella specie la sentenza della CTP di Catania n. 154/06/2009 è passata in giudicato il 15 marzo 2010 onde il termine per presentare l’istanza è spirato il 15 marzo 2012 (due anni dal passaggio in giudicato), cosicchè l’istanza si palesa tardiva in quanto presentata il 31 luglio 2012;

ritenuto che il primo motivo è infondato in quanto, secondo questa Corte:

il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (Cass. 23 luglio 2019, n. 19911; Cass. n. 23940 del 2017; Cass. SU n. 8053 del 2014);

in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass. 23 luglio 2019, n. 19911; Cass. n. 22598 del 2018);

considerato che nel caso di specie la CTR ha raggiunto la soglia del “minimo costituzionale” di motivazione in quanto, nel ritenere meritevole di conferma la sentenza della CTP, ha espresso delle proprie ed autonome argomentazioni prive di vizi logici, senza riportarsi acriticamente alle motivazioni della sentenza di primo grado e ha ragionevolmente spiegato da un lato che dal provvedimento di sgravio e dalla conseguente errata liquidazione a titolo di IRAP è dipesa illegittimo l’atto impugnato e dall’altro che ove l’Agenzia delle entrate abbia inteso chiedere anche il pagamento di quanto dichiarato e non versato da parte del padre degli odierni resistenti, il ruolo sarebbe illegittimo perchè la liquidazione doveva avvenire del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, mentre il ruolo per cui è giudizio è stato emesso ad altro titolo, inidoneo a portare la richiesta di pagamento delle imposte dichiarate e non versate in quanto in tale ipotesi sarebbe stato emesso oltre i termini di legge riguardando l’anno d’imposta 2004;

ritenuto che il secondo motivo di impugnazione è inammissibile in quanto, in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass. n. 19989 del 2017), ossia, nel caso di specie, l’esistenza di uno sgravio effettuato dalla stessa Agenzia delle entrate e dalla non computabilità delle imposte relative al padre defunto delle parti contribuenti mentre nel motivo – in cui si lamenta una violazione di legge – si pongono questioni di merito, come tali insindacabili in sede di legittimità (Cass. n. 5811 del 2019), facendo riferimento a fatti e circostanze estranee alla motivazione e secondo questa Corte, qualora una questione giuridica implicante un accertamento di fatto non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (Cass. n. 32804 del 2019; Cass. n. 2038 del 2019), onere che nel caso di specie non è stato assolto dal ricorrente;

considerato altresì che il ricorrente lamenta la violazione di una serie di norme di cui non si fa menzione nella sentenza impugnata, ed è inammissibile la doglianza mediante la quale gli argomenti addotti dal ricorrente, per difetto, come nel caso di specie, di chiarezza e specificità, non consentano di individuare le norme e i principi di diritto asseritamente trasgrediti, precludendo la delimitazione delle questioni sollevate (Cass. 20 settembre 2017, n. 21819), dato che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, formulata in maniera non idonea la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme che si assumono violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. 29 novembre 2016, n. 24298);

ritenuto pertanto che, infondato il primo motivo di impugnazione e inammissibile il secondo, il ricorso va rigettato; le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 9.000, oltre a rimborso forfettario nella misura del 15% e ad accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2020

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