Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27890 del 04/12/2020

Cassazione civile sez. II, 04/12/2020, (ud. 22/09/2020, dep. 04/12/2020), n.27890

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23045-2019 proposto da:

O.M., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di

Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato STEFANIA SANTILLI

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), domiciliato in ROMA alla VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che lo

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 26/6/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/09/2020 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

O.M. ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, avverso il “decreto” del Tribunale di Milano del 26 giugno 2019, reiettivo della sua domanda volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

In estrema sintesi, quel tribunale ritenne carente di credibilità il suo racconto e, comunque, che i motivi addotti da lui a sostegno delle sue richieste non ne consentissero l’accoglimento.

Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

1) Violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, commi 10 ed 11, in combinato disposto con l’art. 463 della direttiva 2013/32/UE e dell’art. 47 del CFUE a presidio del diritto ad un ricorso effettivo;

2) Violazione e falsa applicazione in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3,4,5,6 e 14, del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, degli artt. 2 e 3 CEDU; violazione dei parametri normativi relativi alla credibilità delle dichiarazioni dei richiedenti fissati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), non avendo compiuto alcun esame comparativo tra le informazioni provenienti dal richiedente stesso e la situazione personale del ricorrente del paese di origine; violazione degli obblighi di cooperazione istruttoria incombenti sull’autorità giurisdizionale.

3) Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g) e art. 14, comma 1, lett. c), nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio perchè il Tribunale avrebbe erroneamente escluso che nel Paese d’origine vi sia una situazione di instabilità tale da comportare minaccia grave alla vita ed alla persona del richiedente;

4) Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 2, art. 10, comma 3; motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima; violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 4, 7,14,16,17, il D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,10 e 32, il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 10 Cost.. Omesso esame di un fatto decisivo in relazione ai presupposti della protezione umanitaria; mancanza o quanto meno apparenza della motivazione e nullità della sentenza per violazione di varie disposizioni – artt. 112 e 132 c.p.c., e art. 156 c.p.c., comma 2 e art. 111 Cost., comma 6.

In via preliminare parte ricorrente chiede alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, conv. nella L. n. 46 del 2017, nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui all’art. 6, comma 1, lett. g), con le quali è stata introdotta la nuova disciplina processuale in materia di protezione internazionale si applichino ai procedimenti giudiziari sorti dopo il centottantesimo giorno dalla data di entrata in vigore del decreto stesso, sebbene le modalità di audizione in sede amministrativa trovino applicazione solo alle domande di protezione introdotte dopo il 180 giorno dall’entrata in vigore del decreto.

Si deduce che nella specie, la domanda di protezione era stata introdotta alla fine del 2015 e l’audizione del ricorrente si è svolta secondo le regole amministrative previgenti (e quindi senza videoregistrazione e trascrizione del colloquio), ma che, essendo il ricorso al giudice successivo al 17 agosto 2017, trovano applicazione le nuove norme processuali.

Ciò comporta che domande proposte in sede giudiziale nella medesima data ed esaminate in sede amministrativa secondo le vecchie regole, a causa dei carichi di lavoro differenti per le varie commissione territoriali, saranno poi esaminate e decise in sede giurisdizionale in base a regole differenti, con l’applicabilità nella fattispecie di un procedimento quasi esclusivamente cartolare e senza possibilità di appellarne l’esito.

Ritiene il Collegio che la questione dedotta sia manifestamente infondata.

Quanto alla questione di legittimità costituzionale delle norme del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13, sollevata in riferimento agli artt. 3,24 e 111 Cost., la medesima è stata già esaminata da questa Corte e ritenuta manifestamente infondata, in virtù dell’osservazione che la disposizione transitoria dettata dal D.L. n. 13 del 2017, art. 21, comma 1, che differisce di centottanta giorni dall’emanazione del decreto l’entrata in vigore del nuovo rito, non si pone in contrasto con i requisiti di straordinaria necessità ed urgenza che presiedono all’emanazione dei decreti legge, essendo connaturata all’esigenza di predisporre un congruo intervallo temporale volto a consentire alla complessa riforma processuale di entrare a regime (Sez. 1- n. 28119 del 05/11/2018, Rv. 651799 – 02; Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01).

La stessa questione è stata ritenuta manifestamente infondata in relazione all’art. 111 Cost., in virtù del rilievo che il rito camerale di cui all’artt. 737 e ss. c.p.c., previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di status, è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non venga fissata l’udienza, sia perchè tale eventualità è limitata soltanto alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perchè in assenza della trattazione orale le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte (Sez. 1 -, n. 17717 del 05/07/2018, Rv. 649521 – 01).

Inoltre, l’imposizione del rito camerale non contrasta con i principi costituzionali invocati neppure in relazione alla prevista non reclamabilità del decreto di primo grado, trovando la stessa ragionevole giustificazione nell’esigenza di accelerare la definizione dei giudizi in questione, aventi ad oggetto diritti fondamentali, ed essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore la scelta di escludere l’appellabilità della decisione di primo grado, con riguardo ai giudizi che sollecitano una pronta soluzione, dal momento che la garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito non trova copertura generalizzata a livello costituzionale (Cass. n. 27700/2018; Corte Cost., sent. n. 199 del 2017 e 243 del 2014; ord. n. 42 del 2014).

Tutte le descritte doglianze – pure a volerne sottacere i profili di inammissibilità perchè prospettanti, genericamente e cumulativamente, vizi di natura eterogenea (censure motivazionali ed errores in iudicando), in contrasto con la tassatività dei motivi di impugnazione per cassazione e con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità per cui una simile tecnica espositiva riversa impropriamente sul giudice di legittimità il compito di isolare, all’interno di ciascun motivo, le singole censure (cfr., ex plurimis, Cass. n. 33348 del 2018; Cass. n. 19761, n. 19040, n. 13336 e n. 6690 del 2016; Cass. n. 5964 del 2015; Cass. n. 26018 e n. 22404 del 2014) – sono scrutinabili congiuntamente, perchè evidentemente connesse, e si rivelano complessivamente immeritevoli di accoglimento.

In primo luogo, deve essere disattesa la censura di cui al primo motivo nella parte in cui il Tribunale è pervenuto alla decisione della domanda, disattendendo la richiesta di nuova audizione del ricorrente, sul presupposto della non credibilità delle dichiarazioni in precedenza rese in sede amministrativa.

La decisione gravata, pur dando atto che in assenza della videoregistrazione del colloquio, debba necessariamente fissarsi l’udienza in sede giurisdizionale, ha però rilevato che in tale udienza non si impone altrettanto necessariamente l’audizione del richiedente e ciò anche avuto riguardo alla circostanza che la difesa di quest’ultimo (ad eccezione del riferimento, reputato irrilevante, ai fatti avvenuti in Libia) non aveva introdotto temi di indagine ulteriori rispetto a quelli già oggetto dell’audizione in sede amministrativa.

La decisione impugnata in tal modo ha fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte secondo cui (Cass. n. 33858/2019) in tema di riconoscimento della protezione internazionale, l’intrinseca inattendibilità delle dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, attiene al giudizio di fatto, insindacabile in sede di legittimità, ed osta al compimento di approfondimenti istruttori officiosi, cui il giudice di merito sarebbe tenuto in forza del dovere di cooperazione istruttoria, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori; ne consegue che, in caso di racconto inattendibile e contraddittorio e per di più variato nel tempo, non è nulla la sentenza di merito che – come del resto affermato da Corte di Giustizia U.E., 26 luglio 2017, in causa C-348/16, Moussa Sacko, e da Corte EDU, 12 novembre 2002, Dory c. Svezia rigetti la domanda senza che il giudice abbia proceduto a nuova audizione del richiedente per colmare le lacune della narrazione e chiarire la sua posizione.

Quanto alle restanti censure, nella specie, invero, il tribunale di Milano, con accertamenti evidentemente di natura fattuale, ha considerato “carente di credibilità” la narrazione dell’odierno ricorrente, che aveva sostenuto di aver abbandonato il proprio Paese (Nigeria) a seguito di una relazione omosessuale intrapresa con un amico a partire dal 2016, temendo che la stessa fosse stata scoperta proprio dal padre dell’amico (quel giudice ha rilevato che, come poteva evincersi dalle risultanze del verbale di sua audizione innanzi alla commissione territoriale, tale relazione sarebbe iniziata allorquando il ricorrente aveva già 28 anni, e quindi aveva ragionevolmente maturato un ben determinato orientamento sessuale, suscettibile di mutamento solo a fronte di un percorso di introspezione, aggiungendo altresì che la scoperta della relazione da parte del padre dell’amico era frutto di una mera congettura, stante anche l’assenza di prova di una denuncia nei suoi confronti nel Paese d’origine). In particolare, non avrebbe portata decisiva la certificazione della partecipazione del ricorrente ad attività organizzate dall’Arcigay in Italia, trattandosi di attività alle quali possono accedere anche soggetti con orientamento eterosessuale.

Inoltre a pagg. 6, con la citazione di specifiche fonti di conoscenza COI, il decreto ha evidenziato come l’Edo State da cui proviene il ricorrente, collocato nel sud della Nigeria, non è interessato dalla presenza di Bo. Ha., ma da conflitti legati all’estrazione del petrolio che vede sì coinvolti numerosi gruppi armati, ma senza che possa reputarsi sussistente un conflitto armato interno generatore di una situazione di violenza tanto diffusa ed indiscriminata da interessare qualsiasi persona ivi abitualmente dimorante. Ha parimenti negato, alla stregua delle medesime fonti, la sussistenza dei profili di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).

Questa Suprema Corte, poi, ha ancora recentemente (cfr. Cass. n. 18446 del 2019) chiarito che: i) la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve ponderare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr., nel medesimo senso, Cass. n. 3340 del 2019). Deve, peraltro, rimarcarsi, da un lato, che, nella specie, la semplice lettura del decreto oggi impugnato, nella parte in cui ha negato l’attendibilità del racconto dell’odierno ricorrente presenta una motivazione ampiamente in linea con il minimo costituzionale sancito da Cass. SU, n. 8053 del 2014; dall’altro, che, quanto alle censure proposte ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nemmeno risultano osservati gli specifici oneri di allegazione previsti, in proposito, dall’appena citata decisione delle Sezioni Unite di questa Corte; il) in tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, il principio secondo il quale, una volta che le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori investe le domande formulate ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b), del predetto decreto (cfr. Cass. n. 15794 del 2019; Cass. n. 4892 del 2019), mentre, quanto a quella proposta giusta la lett. c) del medesimo decreto, si è già riferito che il provvedimento oggi impugnato ha comunque esaminato la situazione fattuale ed operato la ricostruzione della realtà socio-politica del Paese di provenienza del richiedente, onde la corrispondente doglianza di quest’ultimo è insuscettibile di accoglimento, in quanto, sostanzialmente, volta ad ottenere la ripetizione del giudizio di fatto, attività qui preclusa in virtù della funzione di legittimità.

A tanto deve soltanto aggiungersi, da un lato, che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo, per contro, addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte (cfr. Cass. n. 30105 del 2018); dall’altro, che, nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide (cfr. Cass. n. 31676 del 2018).

In relazione alla invocata protezione umanitaria (alla stregua della disciplina, da ritenersi applicabile ratione temporis – cfr. Cass., SU, nn. 29459-29461 del 2019 – di cui al D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6), inoltre, la censura non deduce alcuna situazione di vulnerabilità non rilevata dal giudice di merito: vulnerabilità che deve riguardare la vicenda personale del richiedente, diversamente, infatti, verrebbe in rilievo non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma, piuttosto, quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti.

Il provvedimento gravato ha poi rilevato, con valutazione evidentemente in fatto, che in Italia si era limitato a prendere parte ad un corso di apprendimento della lingua italiana ad un livello elementare e con esiti appena sufficienti, non emergendo peraltro nè lo svolgimento in maniera stabile di attività lavorativa nè il godimento di autonomia abitativa il che impedisce di riscontrare l’esistenza di una vita privata e familiare nel paese di arrivo, dovendosi per converso ritenere, attesa la padronanza della lingua locale, che potrebbe viceversa trovare un’adeguata collocazione lavorativa nel paese di provenienza, avendo peraltro mantenuto anche legami familiari in Nigeria (come testimoniato dalle telefonate che si scambia ancora con la sorella).

In definitiva, quanto oggi esposto da O.M., argomentando le censure in esame, si risolve, sostanzialmente – benchè formalmente prospettate come vizio di motivazionale e/o di violazione di legge – in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo, cui il primo intenderebbe opporre una diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie utilizzate dal già menzionato tribunale: ciò non è ammesso, però, nel giudizio di legittimità, che non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonchè la più recente Cass. n. 8758 del 2017).

Il ricorso va, dunque, respinto, con condanna del ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente, e dandosi atto, altresì, – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore del Ministero dell’Interno che liquida in complessivi Euro 2.100,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2020

 

 

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