Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27872 del 12/12/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 27872 Anno 2013
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: DE RENZIS ALESSANDRO

SENTENZA
sul ricorso proposto
DA
POSTE ITALIANE S.p.A., in persona del legale rappresentante

pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Po 25 b, presso lo studio

dell’Avv. Roberto Pessi, che la rappresenta e difende per procura a
margine del ricorso
Ricorrente


CONTRO

CAPPUCCELLI GABRIELLA, elettivamente domiciliata in Roma, Via
Flaminia n. 195, preso lo studio dell’Avv. Sergio Vacirca, che la rappresenta
e difende, unitamente e disgiuntamente, con l’Avv. Claudio Lalli per procura

Data pubblicazione: 12/12/2013

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a margine del controricorso
Controricorrente
per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di L’Aquila n.
883/07 del 5.07.2007/11.09.2007 nella causa iscritta al n. 1595 R.G.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21.11.2013
dal Consigliere Dott. Alessandro De Renzis;
udito l’Avv. ANNA BUTTAFOCO, per delega dell’Avv. R0135TO PESSI, per
la ricorrente;
udito l’Avv. SERGIO VACIRCA per la controricorrente;
sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
MARCELLO MATERA, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con ricorso, ritualmente depositato, GABRIELLA CAPPUCCELLI agiva in
giudizio nei confronti della S.p.A. POSTE ITALIANE chiedendo
l’accertamento della nullità del termine apposto al contratto a tempo
stipulato per il periodo 22.12.1999/29.02.1990 ai sensi dell’art. 8 CCNL
1994 e successivi accordi integrati, in relazione ad esigenze eccezionali
conseguenti alla fase di ristrutturazione degli assetti occupazionali in corso
e in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi ed in
attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio
delle risorse umane.
Con sentenza n. 438 del 17.12.2004 l’adito

Tribunale di

L’Aquila

respingeva la domanda.
Tale decisione, appellata dall’originaria ricorrente, è stata riformata dalla

dell’anno 2005.

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Corte di Appello di L’Aquila con sentenza n. 883 del 2007, cha ha accolto
la domanda proposta dalla Cappuccelli dichiarando la nullità della clausola
in

questione , con le conseguenti statuizioni circa la conversione del

contratto a tempo indeterminato, la riammissione in

servizio della

mora dell’11.03.2004.
La Corte territoriale ha ritenuto che la società potesse concludere
validamente i contratti a temine fino al 30 aprile 1998, essendo autorizzata
in tale senso dalle parti collettive, sicché il superamento di tale termine
nella stipulazione del contratto comportava la nullità della clausola relativa
al termine e dell’intero contratto..
La stessa Corte ha ritenuto che il pagamento delle retribuzioni competesse
con decorrenza dall’anzidetta messa in mora dall’11.03.2004, momento dal
quale erano state offerte le prestazioni lavorative.
La S.p.A Poste Italiane ricorre per cassazione con cinque motivi.
La Cappuccelli resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 CPC.
li Collegio autorizza motivazione in forma semplificata.
2. La ricorrente denuncia con il primo motivo violazione e falsa applicazione
degli artt. artt. 1362, 1363 e ss Cod. Civ., nonché vizio di motivazione,
sostenendo che il giudice di appello erroneamente ha ritenuto di individuare
nell’anzidetta data del 30 aprile 1998 il preteso termine ultimo di validità ed
efficacia temporale dell’accordo integrativo 25.09.1997, non considerando
che tale accordo aveva natura ricognitiva di una situazione contingente e
non aveva fissato alcun limite temporale, e ciò anche alla luce del

lavoratrice, la corresponsione delle retribuzioni a decorrere dalla messa in

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comportamento tenuto dalle parti nel senso di escludere l’apposizione di un
temine finale e quindi di dare copertura alle assunzioni a tempo determinato
anche per il periodo successivo all’anzidetta data del 30 aprile 1998.
Il motivo è infondato.

(con riferimento al sistema vigente anteriormente al D.Lgs. n. 368 del 2001)
sulla scia di Cass. S.U. n. 4588 del 2 marzo 2006, è stato precisato che
“l’attribuzione alla contrattazione collettiva ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a
quelli previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del
legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle
necessità del mercato del lavoro per i lavoratori ed efficace salvaguardia
per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale
dei lavoratori da assumere rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato)
e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di
collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni
oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro
di procedere ad assunzioni a tempo determinato (cfr Cass. n. 21063 del 4
agosto 2008, Cass. n. 9245 del 20 aprile 2006). “Ne risulta, quindi, una
sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che
ne sono destinatari, non essendo questi vincolati all’individuazione di
ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo
operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed
inserendosi nel sistema da questa delineato” (cfr tra le altre, Cass. n. 21062

In base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte

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del 4 agosto 2008, Cass. n. 18378 del 23 agosto 2008).
In tale quadro, ove però un limite temporale sia stato previsto dalle parti
collettive, la sua inosservanza determina la nullità della clausola di
apposizione del termine ( cfr fra le altre, Cass. n. 18383 del 23 agosto 2008,

In particolare, quindi, come questa Corte ha più volte precisato, “in materia
di assunzione a temine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25
settembre 1997, attuativo dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994, le parti
hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione
straordinaria,

relativa alla trasformazione giuridica dell’ente e alla

conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti
occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne
consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
intervenute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo
derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile
1962 n. 230 (cfr fra le altre, Cass. n. 20608 del 1° ottobre 2007, Cass. n.
7979 del 27 marzo 2008; Cass. n. 18378/2006 cit.).
La sentenza impugnata ha fornito adeguata e coerente motivazione circa la
scadenza degli accordi collettivi e ha correttamente applicato i principi di
diritto affermati dalla giurisprudenza sul punto ritenendo illegittimo il termine
apposto ai contratti in questione stipulati dopo il 30 aprile 1998.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione dell’art. 1372, comma 1 e 2, Cod. Civ., nonché vizio di
motivazione, sostenendo che l’impugnata sentenza ha respinto non

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Cass. n. 7745 del 14 aprile 2005, Cass. n. 2866 del 14 febbraio 2004).

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correttamente l’eccezione di risoluzione consensuale per mutuo consenso
tacito, regolarmente sollevata dalla dì società nei precedenti gradi di
giudizio, e ciò nonostante la prolungata ed ininterrotta inerzia della
lavoratrice per lungo lasso di tempo, circostanza questa che aveva

della prestazione da parte della lavoratrice.
Il motivo non è fondato..
La giurisprudenza della Corte di Cassazione (cfr ex plurimis Cass. n. 16932
del 2011; Cass. n. 23319 del 2010; Cass. n. 21083 del 2008; Cass. n. 23554
del 2004) ritiene che nel giudizio instaurato per il riconoscimento di un
ubico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto
dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale scaduto, è
configurabile la risoluzione del rapporto per mutuo consenso, qualora sia
accertata- per il tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto,
nonché, per le modalità di tale conclusione, per il comportamento tenuto
dalle parti e per altre eventuali circostanze significative- un a chiara e certa
comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo; la
valutazione del significato e della portata di tali elementi spetta al giudice di
merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non
sussistono vizi logici e/o errori di diritto.
Nel caso di specie il giudice di merito si è attenuto al richiamato principio
osservando che dal semplice decorso del tempo e inerzia dell’interessata
non si poteva dedurre la rinuncia all’esercizio del diritto, non essendo
emersi altri elementi di fatto dai quali trarre il convincimento che l’attesa
prima dell’inizio dell’azione giudiziaria fosse configurabile come rinuncia a

ingenerato ragionevole affidamento circa il venir meno della non continuità

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proseguire il rapporto.
Tale valutazione, sorretta da adeguata e logica motivazione, si sottrae
quindi alle doglianze della ricorrente
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione ed erronea

vizio di motivazione, per avere ritenuto la sentenza impugnata, a fronte
della contestazione mossa dalla lavoratrice in ordine al mancato rispetto
della percentuale del 10 % (c.d. clausola di contingentamento) stabilita dalla

applicazione dell’art. 2697 Cod. Civ. e degli artt. 421 e 437 CPC, nonché

contrattazione collettiva per il ricorso al lavoro a termine, essere onere delle “-‘
Poste Italiane provarne l’adempimento.

c;

In particolare la ricorrente sostiene che incombeva alla lavoratrice ex art. (2
2697 Cod. Civ. la concreta dimostrazione della fondatezza della domanda
fornendo elementi da cui desumere il superamento, da parte dell’azienda,
dei limiti di cui all’anzidetta clausola, tanto più che la medesima società
aveva allegato nei suoi atti difensivi dei prospetti dai quali si evinceva
l’assoluto rispetto da parte sua della prevista quota percentuale nelle
assunzioni a termine.
Il motivo è infondato.
Va in questa sede ribadito in conformità a quanto già affermato da questa
Corte (v. Cass. n. 701 del 2013; Cass. n. 839 del 2010) che nel regime di
cui alla legge n. 56 del 1987 la facoltà delle organizzazioni sindacali di
individuare ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto
di lavoro è subordinata dall’art. 23 alla determinazione delle percentuali di
lavoratori che possono essere assunti con contratto a termine sul totale dei
dipendenti; pertanto non è sufficiente l’indicazione del numero massimo di

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contratti a termine, occorrendo altresì, a garanzia della trasparenza e a
pena di invalidità dell’apposizione a termine nei contratti stipulati in base
all’ipotesi individuata ex art. 23 citato, l’indicazione del numero dei
lavoratori assunti a tempo indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto

dell’osservanza di tale rapporto è a carico del datore di lavoro in base alle
regole della legge n. 230 del 1962, art. 3, secondo cui incombe sul datore di
lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano
l’apposizione di un termine nel contratto di lavoro.
Legittimamente quindi la Corte di merito ha ritenuto che la semplice
contestazione da parte della lavoratrice del mancato rispetto del limite del
10 % fosse sufficiente a far scattare l’onere della prova esistente a carico
del datore di lavoro, che nella specie non è stata assolta dalla società.
Del tutto generica e priva di autosufficienza è inoltre la censura con
riferimento ad allegati prospetti, semplicemente richiamati e non trascritti.
Priva di pregio è, infine, l’ulteriore contestazione della sentenza impugnata,
per non avere il giudice di merito provveduto a disporre una consulenza
tecnica di ufficio o a provvedere ex officio agli opportuni atti istruttori per
superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti rivendicati dalla
lavoratrice, atteso che l’ammissione degli invocati mezzi istruttori rientra
nella discrezionalità dello stesso giudice e l’esercizio di tale facoltà non è
censurabile in sede di legittimità.
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione
di norme di diritto e vizio di motivazione, sostenendo che la sentenza
impugnata non ha correttamente statuito in ordine al danno riconosciuto a

percentuale tra lavoratoti stabili e quelli a termine. L’onere della prova

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favore della lavoratrice, la quale non ha fornito la prova delle retribuzioni

perdute per la mancata esecuzione delle prestazioni lavorative.
Il motivo è corredato dal seguente quesito di diritto: “Dica la Corte se in
caso di domanda di risarcimento danni da “scioglimento del rapporto di

lavoratore, in qualità di attore, l’onere di allegare e di provare il danno da
farsi equivalere alle retribuzioni perdute a causa della mancata esecuzione
delle prestazioni lavorative, ma presuppone che le prestazioni lavorative
siano state offerte dal lavoratore e che il datore di lavoro le abbia
illegittimamente rifiutate”.

Il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366 bis CPC, introdotto con
l’art. 6 del D.Lgs. n. 40 del 2006, perché il detto quesito di diritto non
presenta una adeguata ed appropriata formulazione, tale da consentire di
individuare lo specifico contenuto dell’impugnazione e il profilo logicogiuridico risolutivo della questione introdotta, né censura in modo specifico
e chiaro il ragionamento attraverso il quale il giudice del gravame è giunto a
determinare le conseguenze patrimoniali derivanti dall’accertamento della
nullità del contratto dalla data della messa in mora.
Al riguardo si richiama indirizzo di questa Corte (in particolare Cass. n.
10758 del 2013 e altre precedenti decisioni), secondo cui il quesito di
diritto ex art. 366 bis C.P.C. deve essere completo ed idoneo, in modo tale
da porre il giudice di legittimità di comprendere, attraverso la sua sola
lettura, quale sia l’errore commesso dal giudice di merito.
5. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione
dell’art. 210 CPC. dell’art. 421 CPC, dell’art. 2697 Cod. Civ., nonché vizio di

lavoro fondato su clausola risolutiva nulla”, rimane a carico dello stesso

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motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo
che il giudice di appello ha disatteso erroneamente l’eccezione,
tempestivamente sollevata,

dell’aliunde perceptum,

con l’argomentazione

secondo cui l’onere della prova sul punto rimane a carico del datore di

qualsivoglia decisione in merito alla richiesta formulata in entrambi i gradi
ex art. 210 CPC volta ad ottenere l’esibizione della documentazione per
consentire una corretta determinazione degli eventuali corrispettivi percepiti
dalla lavoratrice per attività svolte alle dipendenze e/o nell’interesse di
terzi.
La censura è inammissibile, sia perchè generica, sia perché è in contrasto
con quanto più volte ritenuto da questa Corte di legittimità circa la non
ammissibilità della richiesta, perché meramente esplorativa, come nel caso
di specie, dell’istanza di esibizione ex art. 210 CPC.
D’altro canto la sentenza impugnata

ha esaminato la questione e ha

osservato (cfr pag. 7) che “nel caso in giudizio non vi è prova dei guadagni
sostitutivi”, statuizione che non risulta investita direttamente con specifica
censura da parte delle Poste Italiane.
6. La ricorrente società con la memoria ex art. 378 CPC deduce in via
subordinata la violazione dello ius superveniens, costituito dall’art. 32-5°
comma- della legge n. 183 del 2010, disciplina applicabile al presente
giudizio, secondo la quale l’indennità risarcitoria deve essere determinata
nella misura minima, pari a 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto.
La censura è inammissibile, in quanto si riferisce al profilo delle
conseguenze di carattere patrimoniale, derivanti dall’accertamento della

lavoro. Le Poste Italiane aggiungono che lo stesso giudice ha omesso

nullità del contratto in questione, profilo sollevato sia con il quarto motivo
del ricorso e ritenuto, come detto, inammissibile, stante la genericità e non
adeguatezza del relativo quesito di diritto, sia con il quinto motivo
riguardante l’aliunde pereceptum , parimenti ritenuto inammissibile.

applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto,
con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il
fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alla questione
oggetto di censura, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui
perimetro è limitato dagli specifici e rituali motivi di ricorso (Cass. 30
settembre 2013 n. 2319; Cass. 8 maggio 206 n. 10547; Cas. 27 febbraio
2004 n. 4070).
7. In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano
come da dispositivo.

PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese, che liquida in
€ 100,00 per esborsi e in € 3500,00 per compensi , oltre accessori.
Così deciso in Roma addì 21 novembre 2013
Il Cons. rel. est.

Il Presidente

Ed invero va evidenziato che costituisce condizione necessaria per poter

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