Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27850 del 12/12/2013


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Civile Sent. Sez. U Num. 27850 Anno 2013
Presidente: RORDORF RENATO
Relatore: MAZZACANE VINCENZO

Data pubblicazione: 12/12/2013

SENTENZA

sul ricorso 14013-2013 proposto da:
PERONI GIUSEPPE, elettivamente domiciliato in ROMA,
2013

VIALE DELLE MILIZIE 96, presso lo studio dell’avvocato

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DE CARO FLORA, che lo rappresenta e difende, per delega
a margine del ricorso;
– ricorrente contro

, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA SUPREMA CORTE DI
CASSAZIONE, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI
ROMA;
– intimati –

avverso la sentenza n. 59/2013 del CONSIGLIO NAZIONALE
FORENSE, depositata il 10/04/2013;

udienza del 12/11/2013 dal Consigliere Dott. VINCENZO
MAZZACANE;
udito l’Avvocato Flora DE CARO;
udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott.
PASQUALE PAOLO MARIA CICCOLO, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’avvocato Giuseppe Peroni, pubblico dipendente part – time ed iscritto all’albo degli avvocati di
Roma ai sensi della legge n. 662 del 1996, con successiva delibera del COA di Roma del 16-4-2009
veniva cancellato dall’albo per incompatibilità ex art. 2 n.3 della legge n. 339 del 2003.

ricorso.

Per la cassazione di tale decisione il Peroni ha proposto un ricorso articolato in sette motivi;
nessuna delle parti intimate ha svolto attività difensiva in questa sede.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione dell’art. 111 Cost. oltre che dell’art. 6 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali, sostiene che il CNF non ha,
rispetto alla vicenda oggetto della sua decisione, la natura di giudice terzo ed imparziale, poiché in
argomento si era già pronunciato nella sua funzione di indirizzo e coordinamento dei vari Consigli
dell’ordine territoriali sollecitando, da parte di questi, l’adozione dei provvedimenti di
cancellazione; il CNF, quindi, non ha quei requisiti di terzietà ed imparzialità che anche la Corte
Costituzionale ha in più occasioni ribadito essere una qualità imprescindibile di qualsiasi organo.

Il Peroni inoltre richiama a sostegno del proprio assunto la sentenza della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea nel caso C — 506/04 Wilson contro il Consiglio Nazionale del Lussemburgo,
che ha affermato che le garanzie di indipendenza e di imparzialità richiedono l’adozione di regole,
in particolare per quanto riguarda la composizione del corpo e la nomina, la durata del servizio e le
ragioni dell’astensione, il rifiuto e la revoca dei suoi membri, che siano “atte a respingere ogni
ragionevole dubbio nella mente degli individui quanto alla impenetrabilità dell’organo
1

i(

Proposta impugnazione da parte del Peroni il CNF con decisione del 10-4-2013 ha rigettato il

giurisdizionale da parte di fattori esterni nonché la neutralità rispetto agli interessi che vengono
portati alla sua attenzione e giudizio”; aggiunge che altre sentenze della stessa Corte, in
particolare quella emessa nel caso C — 308/2007 Pkoldo Gorostiaga Atxalandabaso/Parlamento
Europeo, hanno manifestato grave disapprovazione per la cosiddetta giustizia domestica in quanto

Il ricorrente quindi sostiene di avere un fondato motivo per ritenere sussistente in capo al CNF,
composto unicamente di avvocati, un interesse contrario al proprio nonché di sospettare uno
squilibrio di interessi in gioco a cagione della mancanza di neutralità di tale giudice, portatore, in
materia di accesso ed espulsione di determinati soggetti dall’esercizio della professione forense, di
un concreto interesse a non consentire l’ingresso ovvero ad eliminare dal mercato un concorrente.

La censura è infondata.

In proposito occorre rilevare che il Consiglio Nazionale Forense, allorché pronuncia in materia
disciplinare, è un giudice speciale istituito con D. LGS. 23-11-1944 n. 382, e tuttora legittimamente
operante giusta la previsione della sesta disposizione transitoria della Costituzione; le norme che
lo concernono, nel disciplinare rispettivamente la nomina dei componenti del Consiglio Nazionale
ed il procedimento che davanti al medesimo si svolge, assicurano — per il metodo elettivo della
prima e per la prescrizione, quanto al secondo, dell’osservanza delle comuni regole processuali e
dell’intervento del P.M. — il corretto esercizio della funzione giurisdizionale affidata al suddetto
organo in tale materia, con riguardo alla garanzia del diritto di difesa, all’indipendenza del giudice
ed all’imparzialità dei giudizi; infatti l’indipendenza del giudice consiste nella autonoma potestà
decisionale, non condizionata da interferenze dirette ovvero indirette di qualsiasi provenienza.

Pertanto è manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., la questione di
legittimità costituzionale delle disposizioni sul procedimento disciplinare innanzi al predetto
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minata proprio nella sua imparzialità.

Consiglio Nazionale Forense, non potendo incidere sulla legittimità di detta normativa neanche la
circostanza che al Consiglio spettino anche funzioni amministrative in quanto, come evidenziato
anche dalla Corte Costituzionale, non è la mera coesistenza delle due funzioni a menomare
l’indipendenza del giudice, bensì il fatto che le funzioni amministrative siano affidate all’organo

rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni
giurisdizionali (Corte Cost. sent. n. 284 del 1986; Cass. S.U. 3-5-2005 n. 9097).

Né tali conclusioni possono essere infirmate dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea del 19-9-2006 emessa nella causa C — 506/4 Wilson contro CNF Lussemburgo, che al
punto 1) del dispositivo ha dichiarato: “L’art. 9 della direttiva del Parlamento europeo e del
Consiglio 16 febbraio 1998, 98/5/CE, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di
avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, va
interpretato nel senso che osta ad un procedimento di ricorso nel contesto del quale la decisione di
diniego dell’iscrizione di cui all’art. 3 della detta direttiva deve essere contestata, in primo grado,
dinanzi ad un organo composto esclusivamente di avvocati che esercitano con il titolo
professionale dello Stato membro ospitante e, in appello, dinanzi ad un organo composto
prevalentemente di siffatti avvocati, quando il ricorso in cassazione dinanzi al giudice supremo di
tale Stato membro consente un controllo giurisdizionale solo in diritto e non in fatto”; orbene tale
pronuncia, resa nell’ambito di una controversia sorta in seguito al rifiuto, da parte del Consiglio
dell’Ordine degli avvocati del foro del Lussemburgo, di iscrivere un cittadino membro dell’ordine
degli avvocati di Inghilterra e del Galles che esercitava la professione di avvocato nel Lussemburgo
dal 1994, all’albo degli avvocati nell’elenco IV degli avvocati che esercitavano con il loro titolo
professionale d’origine, è diretta a tutelare, nel contesto dell’esercizio della professione forense
da parte di tutti gli avvocati della comunità europea nell’ambito dei diversi paesi della comunità
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giurisdizionale in una posizione gerarchicamente sottordinata, essendo in tale ipotesi immanente il

stessa, il diritto di un avvocato europeo, cui sia stata negata l’iscrizione all’albo degli avvocati di

uno Stato membro diverso da quello di appartenenza del richiedente, ad impugnare tale diniego
_
dinanzi ad organi non composti esclusivamente o prevalentemente da avvocati che esercitino con
il titolo professionale dello Stato membro ospitante (nella fattispecie, infatti, le decisioni di diniego

dell’art. 16 della legge 10-8-1991, erano avvocati iscritti nell’elenco I dell’albo degli avvocati, ossia
nell’elenco degli avvocati che esercitavano con il loro titolo professionale lussemburghese e che
avevano superato l’esame di fine tirocinio – erano soggette in primo grado al controllo di un
organo composto esclusivamente di avvocati iscritti nello stesso elenco, e, in appello, di un organo
composto prevalentemente di tali avvocati di nazionalità lussemburghese, vedi punti 54-55 e 56
della sentenza in oggetto), posto che, in tali condizioni, il suddetto avvocato europeo avrebbe
legittimi motivi di temere che, a seconda dei casi, la totalità o la maggior parte dei membri di tale
organi abbiano un comune interesse contrario al suo, ossia quello di confermare una decisione che
esclude dal mercato un concorrente che ha acquisito la sua qualifica professionale in un altro Stato
membro, nonché di paventare il venir meno dell’equidistanza degli interessi in causa (vedi punto
57 della sentenza in oggetto); è dunque evidente che la questione decisa dalla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea riguarda soltanto la legittimità della composizione dei suddetti organi sotto il
profilo della nazionalità di appartenenza degli avvocati che ne fanno parte (nel senso che non
possono essere composti soltanto da avvocati che esercitino con il titolo professionale dello Stato
membro ospitante allorché debbano decidere su impugnazioni al diniego dell’iscrizione all’albo
degli avvocati di quello Stato da parte di un avvocato di nazionalità diversa), e non già la
questione, oggetto della presente controversia, della legittimità della composizione del CNF sotto i
diversi profili sollevati dal ricorrente.

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dell’iscrizione di un avvocato europeo adottate dal “conseil de l’ordre” — i cui membri, a norma

Quanto poi alla sentenza della stessa Corte emessa nel procedimento C — 308/07, si rileva che in
essa è ribadita l’esigenza che il diritto ad un equo processo comporta necessariamente l’accesso

da parte di chiunque ad un giudice indipendente ed imparziale, ed è specificato che il dovere di
imparzialità deve essere inteso sia sotto il profilo soggettivo (nel senso cioè che nessuno dei

quello oggettivo (essendo il giudice tenuto ad offrire garanzie sufficienti per escludere al riguardo
qualsiasi legittimo dubbio); tuttavia il richiamo a tali indiscutibili principi non offre di per sé
argomenti ulteriori a sostegno della tesi del ricorrente in ordine alla pretesa illegittimità dei criteri
di composizione del CNF.

Con riferimento infine al profilo di censura espresso riguardo alla giustizia cosiddetta domestica,
deve richiamarsi in senso contrario la pronuncia di questa stessa Corte secondo cui è
manifestamente infondata, alla luce della sentenza n. 262 del 2003 della Corte Costituzionale, la
questione di legittimità costituzionale della intera disciplina del procedimento disciplinare a carico
degli avvocati che, a causa del numero ristretto dei componenti dell’organo disciplinare, può
rendere difficoltoso garantire la terzietà del giudice attraverso un adeguato meccanismo di
incompatibilità, in quanto l’eliminazione dell’inconveniente potrebbe verificarsi non mediante la
correzione di un dettaglio che non alteri il sistema normativo da parte della Corte Costituzionale,
ma solo a mezzo del venir meno di tale giurisdizione speciale e domestica, ovvero con una radicale
modifica dell’intero sistema, di competenza del legislatore e non della Corte Costituzionale (Cass.
S.U. 7-2-2006 n. 2509).

Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione dell’art. 50 del R.D.L. n. 1578/1933,
assume di aver ricevuto la notifica della copia conforme dell’estratto della delibera del COA di
Roma del 16-4-2009 con la quale era stata disposta la sua cancellazione dall’albo degli awocati,
laddove la norma ora citata prescrive espressamente la notifica della delibera in forma integrale;
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membri dell’organo giudicante manifesti opinioni preconcetti o pregiudizi personali) sia sotto

pertanto era stata preclusa all’esponente la possibile deduzione di eventuali nullità del
procedimento e/o del provvedimento che ne era conseguito, con conseguente violazione del
proprio diritto di difesa.

La censura è inammissibile.

estratto del provvedimento impugnato, ha affermato che la notifica per estratto del verbale di
adunanza deve considerarsi mezzo idoneo a portare a conoscenza dell’interessato gli elementi
intrinseci dell’atto, e cioè l’oggetto e le motivazioni del provvedimento che lo riguardano, e che,
ove vi sia interesse alla conoscenza di ulteriori elementi attinenti al procedimento di formazione
dello stesso, è onere della parte farne richiesta; ha aggiunto che la notifica per estratto del verbale
del provvedimento adottato dal consiglio dell’ordine è ammessa purché sia presente la
motivazione, e cioè sia stata riportata per intero la delibera del COA, con la conseguente
possibilità per l’interessato di conoscere nella sua completezza riter” logico e giuridico della
decisione.

Orbene, non avendo il ricorrente censurato neppure in parte tale statuizione, il motivo è
inammissibile in quanto inidoneo in radice a scalfire la “ratio decidendi” della sentenza impugnata.

Con il terzo motivo il Peroni, deducendo nullità dell’art. 16 del DLGT n. 382/1944, premesso che
tra la fase istruttoria, la fase dell’audizione dell’interessato e la fase deliberativa la composizione
del COA era mutata, rileva che la deliberazione impugnata avrebbe dovuto essere considerata
nulla.

La censura è inammissibile.

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In proposito il CNF, nel disattendere l’eccezione di nullità dedotta in relazione alla notifica del solo

La sentenza impugnata ha correttamente ritenuto che il procedimento disciplinare davanti al
locale COA, a differenza di quello che si svolge dinanzi al CNF, ha natura amministrativa e non
giurisdizionale, con la conseguenza che il mutamento della composizione collegiale nel corso di
tale procedimento disciplinare non comporta la invalidità della decisione resa dall’organo

in riferimento ai procedimenti di carattere giurisdizionale; è quindi evidente l’impossibilità
giuridica, oltre che logica, di trasferire al giudizio che si svolge dinanzi al Consiglio locale le regole
dettate dal codice di rito con riguardo alla nullità degli atti del processo (vedi al riguardo in
motivazione Cass. S.U. 28-10-2005 n. 20997); orbene tale statuizione non è stata impugnata,
cosicché il motivo è inammissibile per la stessa ragione per la quale è stato ritenuto inammissibile
il secondo motivo.

Con il quarto motivo il Peroni assume che la legge n. 339 del 2003, avendo reintrodotto un caso di
incompatibilità per il dipendente pubblico part — time precludendogli il diritto all’esercizio della
professione forense, ha violato i principi di uguaglianza e proporzionalità quali delineati nell’art. 5
terzo comma del Trattato istitutivo della Comunità Europea e nella giurisprudenza comunitaria,
con conseguente necessità di disapplicazione della suddetta legge.

Con il quinto motivo il ricorrente assume l’illegittimità della legge n. 339 del 2003 e,
conseguentemente, del provvedimento impugnato, per contrasto con la libertà di prestazione di
servizi e con gli artt. 3 lettera c), 10, 14, 39, 43, 49, 50, 81 e 86 del predetto Trattato, con
conseguente disapplicazione della legge stessa; infatti tale normativa ha chiari ed ingiustificati
effetti restrittivi della concorrenza e limita l’attività di prestazione di servizi in quanto reintroduce
delle incompatibilità all’esercizio della professione di avvocato che erano state abrogate.

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disciplinare, in quanto il principio della invariabilità del collegio giudicante è posto esclusivamente

Con il sesto motivo il Peroni chiede, nell’ipotesi che si ritenga di non poter disapplicare la suddetta
normativa per contrasto con i principi del Trattato CE, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia
ai sensi dell’art. 234 del Trattato per accertare la sussistenza della incompatibilità tra gli artt. 3
lettera g), 14, 49, 50, 81 e 86 del Trattato stesso e la disciplina di cui alle legge n. 339 del 2003,

deontologia professionale nonché tutte quelle norme che prevedono specifiche incompatibilità
nell’assunzione degli incarichi professionali, nei casi di conflitti di interesse.

Con il settimo motivo il ricorrente, richiamata la sentenza della Corte Costituzionale n. 189 del
2001 in ordine alla piena legittimità, sotto il profilo costituzionale, dell’esercizio della professione
forense da parte degli impiegati pubblici in part — time ridotto, assume che le disposizioni della
legge n. 339 del 2003 debbono ritenersi abrogate dalla successiva della legge n. 148 del 2011 e del
DPR n. 137 del 2012, non potendo essere ricomprese nelle incompatibilità tuttora vigenti o da
individuarsi per motivi di ordine pubblico di interesse generale.

Tutte le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono
infondate.

Con riguardo ad esse, occorre fare riferimento al tessuto normativo che interessa le questioni
sollevate, muovendo dall’art. 1, commi 56-60 della legge 23-12-1996 n. 662 (Misure di
razionalizzazione della finanza pubblica); in particolare il comma 56 stabilisce che “Le disposizioni

di cui all’articolo 58, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29 e successive
modificazioni ed integrazioni, nonché le disposizioni di legge e di regolamento che vietano
l’iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con
rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50% di quella a
tempo pieno”.
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considerato che gli scopi di tale legge sono già adeguatamente perseguiti mediante le norme di

Con la legge n. 339 del 2003 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di
avvocato) il legislatore disciplina nuovamente la materia con una modifica di segno contrario
rispetto a quella di cui alla sopra menzionata normativa; tale legge, che non riguarda la generalità
delle professioni, ma soltanto specificatamente la professione di avvocato, prevede all’art. 1 che

applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al
regio decreto – legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22-11934 n. 36, e successive modificazioni.”; il successivo art. 2 dispone che gli avvocati dipendenti
pubblici a tempo parziale che hanno ottenuto l’iscrizione sulla base della richiamata normativa del
1996 possono optare, nel termine di tre anni, tra il mantenimento del rapporto di pubblico
impiego, che in questo caso ritorna ad essere a tempo pieno (secondo comma), ed il
mantenimento dell’iscrizione all’albo degli avvocati con contestuale cessazione del rapporto di
pubblico impiego (terzo comma); in questa seconda ipotesi il dipendente pubblico part — time
conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno (quarto comma);
inoltre l’art. 2 primo comma dispone che in caso di mancato esercizio dell’opzione tra libera
professione e pubblico impiego entro il termine di trentasei mesi dall’entrata in vigore della legge
stessa, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione d’ufficio dell’iscritto dal
proprio albo.

A tal punto deve essere esaminato l’impatto su tale disciplina della normativa di cui al decreto
legge 13-8-2011 n. 138 convertito in legge 14-9-2011 n. 148; in particolare il titolo secondo
(Liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre misure per favorire lo sviluppo) all’art. 3 primo comma
(Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività
economiche) stabilisce che Comuni, Province, Regioni e Stato entro il 30-9-2012 dovranno

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“Le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 56, 56 bis e 57, della legge n. 662 del 1996 non si

adeguare i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica sono
libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge nei soli casi di:

a) vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali;
b) contrasto con i principi fondamentali della Costituzione;

d) disposizioni indispensabili per la protezione della salute umana, la conservazione delle
specie animali e vegetali, dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio culturale;
e) disposizioni relative alle attività di giochi pubblici ovvero che comunque comportano effetti
sulla finanza pubblica.

Il quinto comma dell’art. 3 poi prevede che gli ordinamenti professionali devono garantire che
l’esercizio dell’attività risponda senza eccezioni al principio di libera concorrenza, alla presenza
diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta
che garantisca l’effettiva possibilità di scelta degli utenti nell’ambito della più ampia informazione
relativamente ai servizi offerti; con decreto del Presidente della Repubblica emanato ai sensi
dell’art. 17 secondo comma della legge 23-8-1988 n. 400 gli ordinamenti professionali dovranno
essere riformati entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del decreto suddetto per recepire
determinati principi ivi enunciati tra i quali è opportuno richiamare quello “sub” a) secondo il
quale l’accesso alla professione è libero ed il suo esercizio è fondato e ordinato sull’autonomia e
sull’indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista; la limitazione, in forza di
una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una certa
professione in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica, è consentita unicamente
laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla
tutela della salute umana, e non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla

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c) danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana e contrasto con l’utilità sociale;

nazionalità o, in caso di esercizio dell’attività in forma societaria, della sede legale della società
professionale.

Il comma 5 “bis” dell’art. 3 dispone poi che le norme vigenti sugli ordinamenti professionali in
contrasto con i principi di cui al comma 5, lettere da a) a g), sono abrogate con effetto dalla data di

Il comma 5 “ter” inoltre prevede che il Governo entro il 31-12-2012 provvederà a raccogliere le
disposizioni aventi forza di legge che non risultano abrogate per effetto del comma 5 “bis” in un
testo unico da emanare ai sensi dell’art. 17 “bis” della legge 23-8-1988 n. 400.

Successivamente è stato emanato il D. P. R. 7-8-2012 n. 137 (Regolamento recante riforma degli
ordinamenti professionali a norma dell’articolo 3 comma 5 del decreto legge 13-8-2011 n. 138
convertito con modificazioni dalla legge 14-9-2011 n. 148) il cui articolo 2 (Accesso ed esercizio
dell’attività professionale) prevede:

“1. Ferma la disciplina dell’esame di Stato, quale prevista in attuazione dei principi di cui
all’articolo 33 della Costituzione, e salvo quanto previsto dal presente articolo, l’accesso alle
professioni regolamentate è libero. Sono vietate limitazioni alle iscrizioni agli albi professionali che
non sono fondate su espresse previsioni inerenti al possesso o al riconoscimento dei titoli previsti
dalla legge per la qualifica e l’esercizio professionale, ovvero alla mancanza di condanne penali o
disciplinari irrevocabili o ad altri motivi imperativi di interesse generale.

2. L’esercizio della professione è libero e fondato sull’autonomia e indipendenza di giudizio,
intellettuale e tecnico. La formazione di albi speciali, legittimanti specifici esercizi dell’attività
professionale, fondati su specializzazioni ovvero titoli o esami ulteriori, è ammessa solo su
previsione espressa di legge.

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entrata in vigore del regolamento governativo di cui al comma 5 e, in ogni caso, dal 13-8-2012.

3. Non sono ammesse limitazioni, in qualsiasi forma, anche attraverso previsioni deontologiche, del
numero di persone titolate a esercitare la professione, con attività anche abituale e prevalente, su
tutto o parte del territorio dello Stato, salve deroghe espresse fondate su ragioni di pubblico
interesse, quale la tutela della salute. E’ fatta salva l’applicazione delle disposizioni sull’esercizio

4. Sono in ogni caso vietate limitazioni discriminatorie, anche indirette, all’accesso e all’esercizio
della professione, fondate sulla nazionalità del professionista o sulla sede legale dell’associazione
professionale o della società tra professionisti”.

Il successivo art. 12, dopo aver previsto al primo comma che le disposizioni di cui al decreto si
applicano dal giorno successivo alla data di entrata in vigore dello stesso, al secondo comma
sancisce che “Sono abrogate tutte le disposizioni regolamentari e legislative incompatibili con le

previsioni di cui al presente decreto, fermo quanto previsto dall’art. 3, comma 5 — bis, del decreto
— legge 13-8-2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14-9-2011, n. 148, e successive
modificazioni, e fatto salvo quanto previsto da disposizioni attuative di direttive di settore emanate
dall’Unione europea”.

Si rileva poi che non risulta essere stato finora emanato il testo unico previsto dall’ art. 3 comma 5

uter”del sopra richiamato Decreto Legge 13 8-2011 n. 138 convertito in Legge 14-9-2011 n. 148.

Tanto premesso, occorre accertare se per effetto di tale normativa sia intervenuta una
abrogazione tacita della legge n. 339/2003 quanto alla incompatibilità ivi sancita tra l’esercizio
della professione di avvocato e l’impiego pubblico part —time.

In tale prospettiva, in particolare, con riferimento all’art. 2 comma 3 del D.P.R. n. 137/2012,
laddove si prevede che non sono ammesse limitazioni all’esercizio delle libere professioni

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“con

delle funzioni notarili.

attività anche abituale e prevalente”, potrebbe porsi il quesito se tale disposizione, sancendo
l’ammissibilità di esercitare anche la professione di avvocato in misura non abituale o prevalente,
possa incidere sulla normativa di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003.

Nello stessa prospettiva è legittimo chiedersi se l’esigenza di scongiurare il rischio di

possa o meno configurarsi quale “motivo imperativo di interesse generale” (art. 2 n. 1 D.P.R. n.
137/2012) tale da giustificare la permanenza della suddetta incompatibilità.

Ancora potrebbe dubitarsi se una abrogazione tacita delle disposizioni sopra richiamate della legge
n. 339/2003 non sia comunque sopravvenuta alla data del 13-8-2012 per contrasto con l’art. 3
comma 5 “bis” del Decreto Legge n. 138/2011 che ha introdotto un principio di generale
liberalizzazione dei servizi professionali.

Il Collegio ritiene di dover escludere una abrogazione tacita delle disposizioni della legge n.
339/2003 per effetto della normativa sopravvenuta e sopra richiamata per il rilievo decisivo ed
assorbente di ogni altra considerazione che l’incompatibilità tra impiego pubblico part — time ed
esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate
proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono
scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente; la legge n.
339/2003 è finalizzata infatti a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il
buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e l’indipendenza della professione forense onde
garantire l’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.); in particolare la suddetta disciplina mira ad
evitare il sorgere di possibile contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse
della P.A., ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con
quelli del cliente; inoltre il principio di cui all’art. 98 della Costituzione (obbligo di fedeltà del
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compromissione dell’indipendenza dell’avvocato che sia anche dipendente pubblico part — time

pubblico dipendente alla Nazione) non è poi facilmente conciliabile con la professione forense, che
ha il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni;
pertanto tale “ratio”, tendente a realizzare l’interesse generale sia al corretto esercizio della
professione forense sia alla fedeltà dei pubblici dipendenti, esclude che con la normativa in

modalità restrittive della organizzazione di tale attività.

Al riguardo giova anche richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 21-11-2006 n. 390
che, investita delle questioni di legittimità della nuova normativa (sostanzialmente ripristinatoria
del divieto di esercizio della professione forense a carico dei dipendenti pubblici ancorché part —
time), ha ritenuto non manifestamente irragionevole tale opzione legislativa, non potendo
ritenersi priva di qualsiasi razionalità una valutazione, da parte del legislatore, di maggiore
pericolosità e frequenza dei possibili inconvenienti derivanti dalla commistione tra pubblico
impiego e libera professione quando detta commistione riguardi la professione forense; in
proposito la Corte Costituzionale alla luce dell’art. 3 Cost. ha rilevato che il divieto ripristinato dalla
legge n. 339/2003 è coerente con la caratteristica peculiare della professione forense
dell’incompatibilità con qualsiasi “impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di

opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario” (art. 3 del
R. D. L. 27-11-1933 n. 1578 recante Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore).

Pertanto deve escludersi che la disciplina introdotta dalla legge n. 339/2003, sancendo
l’incompatibilità tra impiego pubblico ed una professione avente una natura ed una funzione
peculiari quale quella forense, possa essere stata abrogata per effetto delle sopra richiamate
norme sopravvenute, che introducono i principi ispiratori delle attività economiche private
(Decreto Legge 13-8-2011 n. 138 convertito in Legge 14-9-2011 n. 148) e delle attività
professionali regolamentate il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in ordini o
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oggetto si sia inteso introdurre dei limiti all’esercizio della professione forense o comunque delle

collegi subordinatamente al possesso di qualifiche professionali o all’accertamento delle specifiche
professionalità (D. P. R. 7-8-2012 n. 137); invero l’incompatibilità tra le nuove disposizioni e quelle
precedenti si verifica solo quando tra le norme considerate vi sia una contraddizione tale da
renderne impossibile la contemporanea applicazione, cosicché dalla applicazione ed osservanza

21-2-2001 n. 2502; Cass. 1-10-2002 n. 14129), ipotesi non ricorrente nella specie alla luce delle
argomentazioni sopra svolte.

Deve inoltre aggiungersi che la successiva legge 31-12-2012 n. 247 (Nuova disciplina
dell’ordinamento della professione forense), ancorché non suscettibile di efficacia immediata
(invero l’art. 1 terzo comma prevede che “All’attuazione della presente legge si provvede mediante
regolamenti adottati con decreto del Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 17, comma 3,
della legge 23 agosto, n. 400, entro due anni dalla data della sua entrata in vigore…”), conferma
l’operatività delle disposizioni che sanciscono l’incompatibilità tra impiego pubblico e professione
forense; infatti, considerato che l’art. 65 (Disposizioni transitorie) primo comma sancisce che “Fino
alla data di entrata in vigore dei regolamenti previsti nella presente legge, si applicano se
necessario e in quanto compatibili le disposizioni vigenti non abrogate, anche se non richiamate”, e
che l’art. 18 lettera d) prevede espressamente l’incompatibilità della professione di avvocato
anche “con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”, ne
consegue logicamente che non sono stati certamente abrogati dalla legge in esame gli artt. 3 del
R.D.L. 27-11-1933 n. 1578 ed 1 e 2 della legge 25-11-2003 n. 339, che anzi sono riconducibili agli
stessi principi informatori di cui all’art. 18 citato.

Tanto premesso sulla vigenza della L. n. 339/2003, si osserva che tutte le censure sollevate dal
ricorrente riguardano da un lato i dubbi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge
suddetta con riferimento in particolare ai principi di uguaglianza, affidamento, libera prestazione
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della nuova legge non possono non derivare la disapplicazione o l’inosservanza dell’altra ( Cass.

di servizi, ragionevolezza, sicurezza giuridica, e dall’altro la prospettata incompatibilità tra detta
disciplina ed i principi del diritto comunitario in materia di tutela della concorrenza e della libertà
di stabilimento.

Sotto il primo profilo occorre richiamare la sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n.

6-6-2010, che avevano sollevato questioni di legittimità costituzionale, sia in relazione agli articoli
3-4-35 e 41 Cost., sia in riferimento al parametro della ragionevolezza intrinseca di cui all’art. 3
secondo comma Cost., degli articoli 1 e 2 della legge 25-11-2003 n. 339, ha dichiarato non fondate
tali questioni.

Tale sentenza ha esaminato preliminarmente la questione sollevata da alcune parti private
secondo la quale l’art. 2 della legge n. 339 del 2003 non avrebbe dovuto essere applicato in
quanto, diversamente dagli avvocati italiani, i legali ustabilitro “integrati”, pur non potendo
lavorare in Italia, neppure part — time, alle dipendenze ovvero in veste di titolari d’impiego o
ufficio retribuito a carico dello Stato italiano perché tenuti a rispettare l’art. 3 del R.D.L. 27-111933 n. 1578, potrebbero nondimeno rimanere dipendenti delle corrispondenti istituzioni
pubbliche dello Stato membro di acquisizione della qualifica professionale; in tal modo si
verificherebbe una discriminazione “al contrario” in tema di incompatibilità non più ammissibile
nei confronti degli avvocati italiani ai sensi dell’art. 14 bis della legge 4-2-2005 n. 11 (Norme
generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione Europea e sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari).

In proposito la suddetta sentenza ha richiamato la già menzionata precedente pronuncia della
stessa Corte Costituzionale del 21-11-2006 n. 390, che ha ritenuto che la normativa nazionale di
recepimento della direttiva intesa ad agevolare l’esercizio permanente della professione di
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166 che, a seguito di due ordinanze di identico contenuto di questa Corte, Sezioni Unite Civili, del

avvocato in uno stato membro diverso da quello di acquisizione della qualifica professionale
prevede espressamente che tutte le norme sulle incompatibilità si applicano anche all’avvocato
“stabilito”o “integrato”, ivi comprese, riguardo ai contratti di lavoro con enti corrispondenti nello

Stato di origine, le eccezioni di cui all’art. 3 quarto comma del R.D.L. n. 1578 del 1933 (art. 5

facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno stato membro diverso da
quello in cui è stata acquisita la qualifica professionale”); la sentenza in oggetto ha poi evidenziato

che tale soluzione era inevitabile, atteso che la disciplina delle incompatibilità in tema di
ordinamento professionale forense — secondo il diritto vivente che ne risulta dalla giurisprudenza
di legittimità — deve essere interpretata con estremo rigore, in coerenza con la “ratio” di garantire
l’autonomo ed indipendente svolgimento del mandato professionale.

Del resto anche la stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea con sentenza del 2-12-2010 ha
escluso che la legge n. 339/2003 si applichi esclusivamente agli avvocati di origine italiana e
produca in tal modo una discriminazione alla rovescia.

La sentenza della Corte Costituzionale del 27-6-2012 n. 166 ha poi escluso una interpretazione
costituzionalmente orientata della normativa censurata, osservando che il significato letterale e
sistematico della novella non consente altra ricostruzione esegetica che quella — coerente con il
reintrodotto divieto di svolgimento contemporaneo delle due attività — dell’imposizione di una
scelta per l’una o per l’altra, da esprimere entro un determinato periodo, a quanti si fossero
trovati nella condizione, ora non più consentita, di pubblici dipendenti part —time e di avvocati; in
effetti il dato normativo è assolutamente chiaro nel prescrivere l’esercizio di un’opzione tra
l’esercizio esclusivo della professione forense e la prestazione di lavoro pubblico a tempo pieno a
tutti coloro i quali avessero ottenuto nella posizione di dipendenti pubblici part – time l’iscrizione

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secondo comma del D. LGS. 2-2-2001 n. 96 recante “Attuazione della direttiva 98/5/CE volta a

all’albo degli avvocati, con il beneficio di una fase di transizione per una migliore ponderazione
della scelta definitiva.

Tanto premesso, la sentenza in esame ha rilevato che già la precedente sentenza del 25-11-2006
n. 390 aveva dato risposta negativa ai dubbi di legittimità costituzionale della normativa in oggetto

l’attuazione, quanto ai tempi ed ai modi, alla discrezionalità del legislatore, che nella specie non
aveva esercitato malamente il suo potere; anche in relazione all’asserito contrasto con l’art. 41
Cost., era stato escluso che i dipendenti pubblici svolgessero servizi configuranti una attività
economica, cosicché la loro attività non poteva essere considerata come quella di un’impresa.;
pertanto la legge n. 339 del 2003 incide non tanto sulle modalità di organizzazione della
professione forense in termini rispettosi dei principi di concorrenza, quanto sul modo di svolgere il
servizio presso enti pubblici, ai fini del soddisfacimento dell’interesse generale all’esecuzione della
prestazione di lavoro pubblico secondo canoni di imparzialità e buon andamento, oltre che ad un
corretto esercizio della professione legale.

La Corte Costituzionale ha poi escluso una lesione da parte della disciplina in esame
dell’affidamento in riferimento all’art. 3 Cost., per quanto riguardava i dipendenti pubblici part —
time i quali, sulla base delle regole “permissive” del 1996, avevano affiancato al rapporto di lavoro
pubblico l’impegno professionale forense; invero in base alla giurisprudenza della stessa Corte il
valore del legittimo affidamento trova copertura costituzionale in tale articolo non in termini
assoluti ed inderogabili, non essendo interdetta al legislatore l’emanazione di disposizioni le quali
vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata,
anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, unica condizione essendo
che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale.

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riguardo agli artt. 4 e 35 Cost., ritenendo che essi, nel garantire il diritto al lavoro, ne rimettono

Orbene la disciplina in esame, avendo concesso ai dipendenti pubblici part — time già iscritti
all’albo degli awocati un primo periodo di durata triennale onde esercitare l’opzione per l’uno o
per l’altro percorso professionale e poi, ancora, un altro di durata quinquennale — in caso di
espressa scelta in prima battuta della professione forense — ai fini dell’eventuale richiesta di

carattere inderogabilmente ostativo sottesa alla legge n. 339 del 2003; pertanto la Corte
Costituzionale ha concluso che tale disciplina, lungi dal tradursi in un regolamento irrazionale
lesivo dell’affidamento maturato dai titolari di situazioni sostanziali legittimamente sorte sotto
l’impero della normativa previgente, era assolutamente adeguata a contemperare la doverosa
applicazione del divieto generalizzato reintrodotto dal legislatore per l’awenire (con effetto altresì

rientro in servizio, soddisfa pienamente i requisiti di non irragionevolezza della scelta normativa di

sui rapporti di durata in corso) con le esigenze organizzative di lavoro e di vita dei dipendenti ‘
pubblici a tempo parziale già ammessi dalle legge dell’epoca all’esercizio della professione legale;
diversamente opinando, infatti, si otterrebbe il risultato, certamente irragionevole, di conservare
ad esaurimento una riserva di lavoratori pubblici part — time, contemporaneamente avvocati,
all’interno di un sistema radicalmente contrario alla coesistenza delle due figure lavorative nella
stessa persona.

Con riferimento poi al prospettato contrasto della normativa in oggetto con i principi comunitari, è
anzitutto opportuno rilevare che la legge in esame ha inciso sulle modalità di svolgimento del
servizio presso enti pubblici e non sul modo di organizzazione della professione forense, con
conseguente estraneità dei principi di concorrenza tra imprese al tema della libera circolazione
degli avvocati nell’Unione Europea; i dipendenti pubblici, d’altra parte, non svolgono servizi
configurabili come una attività economica, e la loro attività non può essere considerata come
quella di una impresa.

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In ogni caso gli eventuali effetti anticoncorrenziali della normativa in oggetto trovano la loro
giustificazione alla luce del rilievo che essi costituiscono l’inevitabile conseguenza della prioritaria
esigenza di soddisfare l’interesse pubblico a difendere i valori fondamentali della professione di
avvocato, quali i principi di indipendenza e di integrità.

2009, che aveva rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione pregiudiziale
relativa al possibile contrasto della legge n. 339 del 2003 ( nella parte in cui reintroduce il divieto di
svolgimento della professione forense per i pubblici dipendenti part — time) con i principi
comunitari in tema di tutela della concorrenza, libertà di stabilimento, legittimo affidamento e
protezione dei diritti quesiti alla luce delle direttive 77/249/CE e 98/5/CE, la suddetta Corte di
Giustizia dell’Unione europea con la già richiamata sentenza del 2-12-2010 ha ritenuto che gli artt.
3 n. 1 lett. g) CE, 4 CE, 10 CE, 81 CE e 98 CE non ostano ad una normativa nazionale che neghi ai
dipendenti pubblici impiegati in una relazione di lavoro a tempo parziale l’esercizio della
professione di avvocato, anche qualora siano in possesso dell’apposita abilitazione, disponendo la
loro cancellazione dall’albo degli avvocati.

In definitiva il ricorso deve essere rigettato; non occorre procedere ad alcuna statuizione in ordine
alle spese di giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensiva in questa sede.

Risultando poi il ricorso esente dal contributo unificato, non si fa luogo all’applicazione dell’art. 13
comma 1—”quater” del D.P.R. 30-5-2002 n. 115 come introdotto dall’art. 1 comma 17 della legge
24-12-2012 n. 228.

P.Q.M.

La Corte

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E’ comunque decisivo rilevare che, a seguito di ordinanza del Giudice di Pace di Cortona del 19-6-

Rigetta il ricorso.
9 7)
ll,Presidenteir

Così deciso in Roma il 12-11-2013

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