Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27841 del 31/10/2018

Cassazione civile sez. trib., 31/10/2018, (ud. 12/09/2018, dep. 31/10/2018), n.27841

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3667-2011 proposto da:

PAFLAN COSTRUZIONI SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIA AREZZO

29, presso lo studio dell’avvocato MARIA CRISTINA PANSARELLA,

rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO PALMIERI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI AVERSA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 258/2010 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI,

depositata il 05/07/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/09/2018 dal Consigliere Dott. ALESSIO SCARCELLA.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza n. 258/50/10, emessa in data 28.06.2010, depositata in data 5.07.2010, la Commissione tributaria regionale della Campania accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei confronti della società contribuente PA.FI.AN. COSTRUZIONI s.r.l., riformando la sentenza emessa dalla CTP di Caserta n. 545/05/2009 e compensando le spese. La controversia ha ad oggetto l’impugnativa di un avviso di accertamento ai fini IRES, IRAP ed IVA anno 2005, emesso nei confronti della società contribuente, esercente lavori di ingegneria, e relativo a presunti maggiori ricavi da cessione di alcuni fabbricati per civile abitazione ubicati nel Comune di Orta di Atella.

2. Al fine di consentire una migliore intelligibilità dell’impugnazione, va premesso in fatto che l’Ufficio, a fronte del valore complessivamente dichiarato di 425.000,00 Euro per le predette cessioni, rettificava il reddito, il valore della produzione e il volume di affari attestandosi sull’ammontare di 808.750,00 Euro, in considerazione di tre elementi: a) i prezzi di vendita degli immobili risultavano differenziati, per quanto si trattasse di unità immobiliari sostanzialmente similari; b) taluni acquirenti avevano ottenuto mutui bancari per importi sensibilmente superiori ai corrispettivi poi indicati nei rogiti; c) i valori al mq, secondo i dati del borsino immobiliare FIAIP risultavano ben più elevati, oscillando tra i 900 Euro ed i 1.100 Euro al mq; dalle predette circostanze l’Ufficio faceva discendere l’inattendibilità dell’impianto contabile e delle conseguenziali risultanze, procedendo alla rideterminazione indiretta dei ricavi dichiarati per l’anno 2005, in forza del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 40,D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e D.Lgs. n. 446 del 1997; la società contribuente proponeva ricorso dinnanzi alla CTP dando preliminarmente atto dell’esito negativo dell’istanza di accertamento con adesione presentata in data 1.07.2008, stigmatizzando in diritto l’adozione da parte dell’Ufficio dei criteri introdotti dal D.L. n. 223 del 2006 quanto all’accertamento di valore degli immobili, in particolare con riferimento alla riconducibilità al valore normale dei corrispettivi di vendita indicati in atti; l’Ufficio, in autotutela, rettificava in diminuzione il valore accertato nella misura di 746.250,00, e, costituendosi in giudizio, contestava quanto argomentato dalla contribuente, in particolare con riferimento agli elementi presuntivi in forza dei quali erano da reputarsi incongrui i corrispettivi indicati nei rogiti, ma non con riferimento ai dettami novellati del D.L. n. 223 del 2006, bensì in forza dei consueti poteri di accertamento discendenti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), soffermandosi ancora sull’entità dei mutui erogati e sulle risultanze FIAIP.

3. La CTP adita accoglieva il ricorso della contribuente, rilevando pregiudizialmente l’assenza di rilievi in merito alle scritture contabili della società; nel merito annullava l’atto impositivo, evidenziando come le argomentazioni della società consentivano di individuare la totale assenza dei presupposti giuridici necessari per la ricostruzione induttiva dei ricavi, ritenendo segnatamente assurdo che per cespiti similari il giudizio di congruità del corrispettivo indicato nei rogiti potesse variare a seconda che la transazione fosse o meno per l’acquirente supportata da mutuo bancario.

4. A seguito dell’appello interposto dall’Ufficio – con cui si censurava la sentenza di prime cure per motivazione insufficiente attesa la non accurata valutazione da parte del primo giudice degli elementi in fatto riportati nell’avviso di accertamento, sostenendo che la tenuta delle scritture contabili in modo formalmente regolare non costituiva impedimento alla rettifica delle stesse, insistendo infine per le incongruenze dianzi rilevate, con la specificazione che le eccezioni della società non potevano ritenersi fondate anche in rapporto all’accertamento dei maggiori corrispettivi ai fini IVA per quanto previsto dalla novella del 2006 per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili -, la CTR con la sentenza qui ricorsa riformava la decisione dei giudici di prime cure, osservando: 1) che non vi era dubbio che l’Agenzia avesse operato non in forza dei criteri di cui alla novella del 2006, quanto piuttosto in base ai poteri già concessi dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), (e, per l’IVA, dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54); b) che l’agire dell’Agenzia era legittimo, atteso che non può essersi dubbio che operatori qualificati ed avveduti come le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati, determinando sovente per prudenza uno spread che tenga conto di possibili oscillazioni del mercato immobiliare; c) che anche i dati mercato, desumibili da osservatori e banche dati, come quelli FIAIP, assumono rilievo mai marginale per stabilire la congruità dei prezzi di tali beni; d) che i predetti parametri, dunque, apparivano sufficienti per ritenere fondati gli avvisi di accertamento in punto di an e di quantum, rilevando invece l’inidoneità delle considerazioni espresse dalla società contribuente a scalfire l’operato dell’Ufficio; e) che, infine, la circostanza che l’Ufficio, per i beni acquistati senza mutuo, non abbia proceduto a rettificare il corrispettivo indicato giocherebbe contra se ed a favore del contribuente, poichè quell’impianto di presunzioni avrebbe potuto essere utilizzato anche per quelli, concludendo pertanto per l’accoglimento dell’appello in base al richiamo di una decisione di questa Corte (il riferimento è alla sentenza n. 951 del 2009).

5. L’Ufficio, pel tramite della difesa Erariale, si è costituito nei termini di legge mediante controricorso.

6. All’udienza in camera di consiglio del 12.09.2018, esauritasi la relazione da parte del consigliere designato, il ricorso è stato trattenuto in decisione, non essendo peraltro state rassegnate conclusioni scritte da parte della P.G. presso questa S.C..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

7. Contro la prefata sentenza della Commissione tributaria Regionale ha proposto ricorso la società contribuente, impugnando la decisione con cui deduce due motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

7.1. Deduce, con il primo motivo, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c..

In sintesi, la censura attinge l’impugnata sentenza in quanto, sostiene la ricorrente, la CTR avrebbe violato il disposto dell’art. 115 c.p.c., comma 2, ponendo a fondamento della decisione, in assenza di prova, nozioni di fatto non rientranti nella comune esperienza, con conseguente violazione dell’art. 116 c.p.c., in ordine alla valutazione delle prove; sostiene, in altri termini, la ricorrente che la circostanza secondo cui non poteva essersi dubbio che operatori qualificati ed avveduti come le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati, determinando sovente per prudenza uno spread che tenga conto di possibili oscillazioni del mercato immobiliare – evocata nell’atto impositivo ma di cui nessuna prova sarebbe stata fornita dall’Ufficio – è stata fatta assurgere dal giudice di merito come fatto notorio avendo, dunque, posto la CTR a fondamento della decisione una nozione di fatto che dovrebbe rientrare nella comune esperienza; richiamata giurisprudenza di legittimità a sostegno del proprio assunto, sostiene la società contribuente che, nel caso specifico, la richiamata circostanza non possa ritenersi un fatto acquisito alle conoscenza della collettività e, quindi, non possa essere posta a fondamento della decisione in assenza di prova; la stessa, in ogni caso, sarebbe non fondata non solo perchè non acquisita con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, ma anche perchè implica particolari cognizioni anche tecniche, non rientrando dunque nella categoria del “notorio”; richiamando a tal fine giurisprudenza di questa Corte, sostiene la ricorrente che nella nozione di comune esperienza non possono essere fatti rientrare quegli elementi valutativi che richiedono il preventivo accertamento di particolari dati, come la determinazione del valore corrente degli immobili, trattandosi di valore variabile nel tempo e nello spazio, anche nell’ambito dello stesso territorio, in relazione alle caratteristiche del medesimo bene; essendo censurabile in sede di legittimità la qualificazione giuridica di un fatto come notorio, si insiste per l’accoglimento del motivo.

7.2. Deduce, con il secondo motivo, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), art. 2727 c.c., art. 2729c.c., art. 1322 c.c..

In sintesi, la censura attinge l’impugnata sentenza in quanto, si duole la ricorrente per aver l’Ufficio provveduto ad una rideterminazione indiretta dei ricavi ex art. 39 citato rinvenendo, segnatamente, le presunzioni semplici cui si riferisce la norma in esame, da un lato, nel fatto che le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati e, dall’altro, nel fatto che per stabilire la congruità dei prezzi sono determinanti i dati di mercato, desumibili anche da banche dati quali la FIAIP; detta tesi sarebbe erronea, anzitutto perchè l’assunto secondo cui le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati, oltre a non costituire un fatto notorio (come già esposto nel primo motivo), costituirebbe un’affermazione contraria all’art. 1322 c.c. che regola l’autonomia negoziale delle parti, atteso che nulla vietava alle banche, nell’anno 2005, di erogare mutui di importo superiore al valore del bene ipotecato, anche per soddisfare esigenze ulteriori rispetto all’acquisto del bene stesso; si osserva che solo con l’entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006, art. 35, comma 23-bis, è stato introdotto uno specifico criterio di determinazione del valore normale ai fini IVA nella cessione dei beni immobili basato sull’ammontare del finanziamento, ma tale criterio è applicabile solo per gli atti formati solo il 4 luglio 2006; in ogni caso, anche in epoca successiva al 2006, l’Amministrazione finanziaria (il riferimento è a due risoluzioni, la n. 122/E del 1.06.2007 e la n. 248/E del 17.06.2008) ha ammesso l’erogazione di mutui di importo superiore al corrispettivo indicato nell’atto di compravendita al fine di sostenere anche altre spese relative all’acquisto dell’immobile, con la conseguenza che la circostanza valorizzata dall’Ufficio secondo cui le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati, non corrisponde al vero e non costituisce un elemento grave, preciso e concordante in favore dell’Ufficio; quanto al secondo elemento valorizzato dai giudici di appello, osserva la ricorrente, nel periodo in esame il valore normale del bene quale potrebbe essere quello determinato dai dati di mercato, non potrebbe avere valore presuntivo in ordine al corrispettivo negoziale effettivamente corrisposto; conclusivamente, sostiene la ricorrente, non ricorrerebbero le condizioni ed i presupposti per la rettificazione del reddito di impresa, come indirettamente confermato dal fatto che l’Ufficio, contraddittoriamente, per i cespiti 2, 5 e 6 avrebbe lasciato inviarti gli importi dichiarati; seguono, fine, alcune considerazioni in fatto relative ai cespiti nn.ri 3, 4 e 5, esposte alle pagg. 16/17 del ricorso, qui da intendersi integralmente richiamate.

8. L’Ufficio, pel tramite della difesa Erariale, in sede di controricorso, ha chiesto respingersi il ricorso, deducendo quanto segue sui motivi di cui all’impugnazione.

8.1. Anzitutto, ha rilevato che è notorio che le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati, costituendo tale affermazione regola di comune esperienza, cui il giudice può far riferimento per argomentare le proprie decisioni; inoltre, l’uso di tale fatto notorio non costituisce regola giuridica la cui erronea applicazione è suscettibile di sindacato in sede di legittimità; la contribuente, infine, non avrebbe proceduto a contestare nel merito della comune esperienza che tale modo non uniforme di comportamento possa essere non seguito in altre ipotesi, ossia che le banche siano solite concedere mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati, senza considerare che tale comportamento potrebbe costituire comportamento palesemente antieconomico da cui dedurre eventuali comportamenti volti ad elusione fiscale.

8.2. In secondo luogo, ha rilevato che il richiamo in sentenza alle nozioni di comune esperienza ed ai prezzi di mercato costituiscono canoni di giudizio che si risolvono in valutazioni di fatto non contestabili nè contestati nemmeno sotto il profilo della motivazione insufficiente o contraddittoria, sicchè il motivo dovrebbe essere dichiarato inammissibile o insufficiente; a ciò, infine, va aggiunto che infondata è la censura relativa alla violazione delle regole di accertamento induttivo, avendo infatti l’atto impugnato ripreso a tassazione ricavi non contabilizzati, in base alle previsioni del più volte richiamato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

9. Il ricorso è infondato.

10. Quanto al primo motivo, secondo cui la CTR avrebbe errato nel porre a fondamento della decisione, in assenza di prova, nozioni di fatto non rientranti nella comune esperienza (segnatamente il “notorio” che le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati), deve premettersi che il fatto notorio può essere inteso quale fatto, non abbisognevole di prova, sintomatico di esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo secondo indici di univocità e criteri di notorietà (art. 115 c.p.c., comma 2). Esso costituisce una deroga all’art. 115 c.p.c., comma 1 secondo cui “salvi casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonchè i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”, e opera nel processo tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 1, comma 2.

Vi è, di conseguenza, anche una deroga al principio dell’onere della prova.

Questa Corte, nel delimitare l’ambito applicativo della deroga prevista dall’art. 115 c.p.c., comma 2 ha affermato che il fatto notorio “dev’essere inteso in senso rigoroso e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività, nei suoi elementi rilevanti per il giudizio, con un grado di certezza da apparire incontestabile” (Cass. 23.7.92 n. 8894; cfr. anche Cass. 25.11.2005 n. 24959; Cass. 20.6.2014 n. 14063). Non rientrano, pertanto, nella nozione di fatto notorio le situazioni soltanto probabili, gli elementi valutativi che implichino cognizioni particolari, la pratica di determinate situazioni, nè quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice (cfr. Cass. 20.6.2014 n. 14063 e Cass. 18.5.2016 n. 10204).

Plurime sono le fattispecie nelle quali questa Corte e le Commissioni tributarie, in subiecta materia, hanno ritenuto espressione di fatto notorio: a) la C.T. Prov. Treviso 1.9.2016 n. 323/1/16 ha ritenuto che la crisi finanziaria, comportante riduzione dei consumi e la chiusura di locali notturni, può giustificare la diminuzione del reddito di una ballerina nei locali notturni; b) questa Corte (Cass. 30.12.2010 n. 26403; Cass. 12.4.2017 n. 9475) ha ritenuto che il fenomeno inflattivo può essere allegato in merito alla richiesta di svalutazione monetaria, unitamente ad altri elementi; c) questa Corte (Cass. 5.3.2001 n. 3165), ancora, ha ritenuto tale la conoscenza relativa alla quantità di carne e di pesce necessaria per la preparazione delle pietanze in un ristorante; d) ancora questa Corte ha ritenuto (Cass. 22.1.2007 n. 1294) che il possesso di auto storiche o d’epoca implica esborsi ingenti di denaro per la loro manutenzione; e) infine, la C.T. Prov. Roma 9.9.2015 n. 17934/11/15, ha ritenuto ammissibile il ricorso al fatto notorio in un’ipotesi di rivalutazione degli immobili in microzone.

11. Tanto premesso, deve osservarsi come il fatto notorio su cui il giudice di appello ha fondato – unitamente alle altre due incongruenze rilevate (v. supra, punto 2) – il proprio giudizio, accogliendo la prospettazione dell’Ufficio, costituito dal fatto che le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati, costituisce senza alcun dubbio una nozione di comune esperienza nota alla globalità delle persone, la quale, dunque, non necessita di alcuna valutazione tecnica e/o settoriale. Il Collegio è ben consapevole della propria giurisprudenza che fa divieto di ricorrere a tale istituto nel caso di valutazioni immobiliari “ad uso fiscale” (in quanto tra le nozioni di comune esperienza non possono essere compresi concetti puntuali di carattere tecnico, necessari per valutare un bene immobile, in particolar modo laddove gli stessi siano utilizzati per determinare la base imponibile di un tributo: cfr., tra le tante, Cass. 25.11.2005 n. 24960), ma, nel caso di specie, il ricorso al notorio ha riguardato un fatto diverso da quello relativo alla determinazione del valore dell’immobile, ossia la circostanza, appunto rientrante nella nozione di comune esperienza, che le banche non erogano mutui per un valore superiore a quello del cespite immobiliare su cui viene accesa ipoteca, rivestendo nel contempo natura di presunzione semplice, su cui il giudice ben può fondare il proprio giudizio in rettifica.

Nè rileva la circostanza che all’epoca del fatto le banche, secondo quanto asseritamente argomentato in fatto dalla ricorrente senza alcun supporto probatorio, gli istituti di credito fossero solite erogare mutui di importo superiore al valore del bene dichiarato. Non deve, invero, essere dimenticato che in tema di accertamento induttivo, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, come modificati dalla L. n. 88 del 2009, art. 24, hanno effetto retroattivo, in considerazione della finalità della citata L. n. 88 di adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario, sicchè, venuta meno “ex tunc” la presunzione legale relativa di corrispondenza del corrispettivo effettivo al valore normale del bene, introdotta nei menzionati D.L. n. 223 del 2006, artt. 39 e 54, conv., con modif., dalla L. n. 248 del 2006, la prova dell’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti (v. da ultimo: Sez. 5, n. 6736 del 15/03/2017, Rv. 643594 – 01).

Nè, infine, sempre in relazione al primo motivo, può ritenersi fondata la censura relativa alla violazione dell’art. 2697 cod. civ., avendo infatti questa Corte già chiarito che in tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa, l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla cessione di beni immobili può essere fondato anche soltanto sull’esistenza di uno scostamento tra il minor prezzo indicato nell’atto di compravendita e l’importo del mutuo erogato all’acquirente, ciò non comportando alcuna violazione delle norme in materia di onere della prova (Sez. 5, ordinanza n. 14388 del 09/06/2017, Rv. 644429 – 01).

12. Infondato è anche il secondo motivo, con cui si censurano asserite violazioni di legge al fine di sostenere, da un lato, che la circostanza valorizzata dall’Ufficio secondo cui le banche non concedono mutui per importi superiori a quelli dei cespiti ipotecati, non corrisponde al vero e non costituisce un elemento grave, preciso e concordante in favore dell’Ufficio e, dall’altro, che, nel periodo in esame il valore normale del bene quale potrebbe essere quello determinato dai dati di mercato, non può avere valore presuntivo in ordine al corrispettivo negoziale effettivamente corrisposto.

Ed invero, come ben eccepito dalla difesa Erariale, la censura, lungi dal prospettare effettive violazioni di legge, in realtà si risolve in doglianze puramente contestative che attingono l’utilizzo di nozioni di comune esperienza e di prezzi di mercato (riferimento ai valori FIAIP), quali canoni di giudizio utilizzati dalla CTR che si risolvono in valutazione di fatto non suscettibili di sindacato dinanzi a questa Corte, non essendo stata tale valutazione oggetto di contestazione sotto il profilo del vizio di motivazione. Quanto, poi, alla asserita violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), non può ritenersi sussistente alcuna violazione delle regole di accertamento induttivo essendo stato l’atto impositivo emesso in base alla previsione, ratione temporis vigente, che appunto prevedeva come “l’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti”.

13. Per le motivazioni suesposte ed ogni altra eccezione disattesa restando assorbita da quanto prefato, il ricorso dev’essere respinto, con conseguente conferma integrale dell’impugnata sentenza.

14. Alla soccombenza deve seguire la condanna della società contribuente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che vengono liquidate come da dispositivo, in base ai parametri disciplinati dal D.M. n. 55 del 2014, recante “Determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi della L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 13, comma 6”, nella misura di Euro 5.600,00 per compensi in ragione del valore della causa (pari ad Euro 141.987,00), oltre spese prenotate a debito.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente PA.FI.AN. COSTRUZIONI s.r.l. al pagamento delle spese, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella sede della S.C. di Cassazione, il 12 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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