Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27841 del 30/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 30/10/2019, (ud. 10/07/2019, dep. 30/10/2019), n.27841

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27599/2015 R.G. proposto da:

D.B.R., rappresentato e difeso, anche disgiuntamente,

dall’Avv. Ernestina Pollarolo, dall’Avv. Claudio Sacchetto e

dall’Avv. Giuseppe Marini, come da procura speciale in calce al

ricorso, elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo,

in Roma, Via dei Monti Parioli n. 48.

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del

Piemonte, n. 420/36/2015, depositata il 17 aprile 2015.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 luglio

2019 dal Consigliere Dott. D’Orazio Luigi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. D.B.R., socio della Noritalia s.r.l. in liquidazione, costituita il 27-51981 e messa in liquidazione il 22-12-1995 con decorrenza dall’1-1-1996, percepiva nell’anno 2003, a seguito di delibera assembleare del 30-6-2003, la somma di Euro 50.000,00, a titolo di utili, già tassati e accantonati a riserva disponibile, comportanti il diritto di fruire del credito di imposta nella misura del 56,25 %. Il contribuente dichiarava tale reddito nel modello integrativo alla dichiarazione Unico 2004, relativa al 2003, presentato il 28-10-2005, con opzione nel quadro RM, rigo 6, per l’assoggettamento a tassazione separata, con la maturazione di un credito Irpef di Euro 28.125,00 (il 56,25 % di Euro 50.000,00). Dalla liquidazione effettuata dalla Agenzia delle entrate ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis emergeva un residuo credito di Euro 11.859,37. Successivamente in data 16-2-2012 l’Agenzia delle entrate pronunciava il diniego del rimborso Irpef a tassazione separata scaturente dalla liquidazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, essendo stata revocata la liquidazione della società il 29-10-2003, quindi prima della chiusura dell’esercizio 2003, essendo venuto meno il presupposto da cui scaturiva la possibilità di assoggettare a tassazione separata i redditi dei beni assegnati ai soci di società in liquidazione.

2. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale che aveva accolto il ricorso del contribuente, evidenziando che non era obbligatorio che alla delibera di messa in liquidazione seguissero le relative operazioni, ma che la messa in liquidazione non era sinonimo di inattività, sicchè il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, lett. l), quando si riferiva ai cinque anni decorrenti dalla costituzione della società all’inizio della liquidazione, si riferiva ad una liquidazione “dichiarata” ma con “volontà confermata” dal prosieguo degli atti, mentre la società al 1996 sino al 2003 non aveva effettuato alcuna operazione di liquidazione.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.

4. L’Agenzia delle entrate non ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “nullità della sentenza ex art. 101 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 4, per violazione del principio del contraddittorio”, in quanto il giudice di appello aveva adottato una decisione della “terza via”, in violazione dell’art. 101 c.p.c., comma 2, non avendo assegnato alle parti i termini di legge per interloquire sulla questione nuova affrontata d’ufficio. Il giudice di appello ha deciso la controversia ritenendo, d’ufficio, senza che le parti avesse mai indicato tale questione negli scritti difensivi, che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, comma 1, lett. l, laddove consentiva la tassazione separata per i redditi attribuiti ai soci in dipendenza di liquidazione della società, se il periodo di tempo intercorso tra la costituzione della stessa e l’inizio della liquidazione era superiore a cinque anni, si riferiva ad una effettiva liquidazione, quindi ad una delibera societaria seguita da concrete operazioni di liquidazioni dell’attivo e di riparto dello stesso, e non ad una solo formale liquidazione, senza lo svolgimento di alcuna attività effettiva.

1.1. Tale motivo è infondato.

1.2. Invero, la questione affrontata dal giudice di appello, in realtà, non è nuova, in quanto attiene alla interpretazione del disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, comma 1, lett. l, e segnatamente alla parte della norma in cui si fa riferimento alla possibilità di assoggettare a tassazione separata i redditi imputati ai soci in dipendenza della liquidazione della società. Sin dall’inizio della controversia, infatti, si è discusso tra le parti della intervenuta liquidazione formale della società a decorrere dall’1-1-1996, della costituzione della società nel 1981 (27-5-1981) e della revoca della liquidazione in data 2910-2003.

Peraltro, la questione affrontata e risolta dal giudice di appello è di “puro diritto”, sicchè non imponeva alla Commissione regionale di provocare il preventivo contraddittorio tra le parti ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2.

Infatti, ai sensi dell’art. 101 c.p.c., comma 2, come modificato dalla L. n. 69 del 2009, per i procedimenti di primo grado instaurati a decorrere dal 4-72009, “Se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, il giudice riserva la decisione, assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti e non superiore a quaranta giorni dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie concernenti osservazioni sulla medesima questione”.

Tale disposizione, seppure entrata in vigore il 4-7-2009, è espressione di un principio giurisprudenziale consolidato applicabile anche prima dell’entrata in vigore della norma, ma con esclusione delle questioni di puro diritto, ivi comprese quelle processuali.

Invero, per questa Corte (Cass.Civ., 27 novembre 2018, n. 30716), nel sistema anteriore all’introduzione dell’art. 101 c.p.c., comma 2 (a norma del quale il giudice, se ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d’ufficio, deve assegnare alle parti, “a pena di nullità”, un termine “per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione”), operata con la L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 13, il dovere costituzionale di evitare sentenze cosiddette “a sorpresa” o della “terza via”, poichè adottate in violazione del principio della “parità delle armi”, aveva fondamento normativo nell’art. 183 c.p.c., comma 3 (oggi comma 4) faceva carico al giudice di indicare alle parti “le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”, con riferimento, peraltro, alle sole questioni di puro fatto o miste e con esclusione, quindi, di quelle di puro diritto. Si è anche precisato che, qualora il giudice esamini d’ufficio una questione di puro diritto, senza procedere alla sua segnalazione alle parti onde consentire su di essa l’apertura della discussione (cd. terza via), non sussiste la nullità della sentenza, in quanto da tale omissione non deriva la consumazione di vizio processuale diverso dalrerror iuris in iudicando”, ovvero dall’error in iudicando de iure procedendi”, la cui denuncia in sede di legittimità consente la cassazione della sentenza solo se tale errore sia in concreto consumato (Cass. Civ., 18 giugno 2018, n. 16049; Cass.Civ., 8 giugno 2018, n. 15037; Cass., sez. un., 30 settembre 2009, n. 20935).

2.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrete lamenta la “nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – Violazione dell’art. 112 c.p.c. (mancata corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato)”, in quanto il giudice di appello ha deciso su un motivo non enunciato dalle parti, in violazione dell’art. 112 c.p.c..

2.1. Tale motivo è infondato.

Invero, come detto, il giudice di appello si è limitato ad interpretare il contenuto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, comma 1, lett. l, per decidere sulla richiesta di rimborso del contribuente fondata sulla assoggettabilità a tassazione separata degli utili a lui distribuiti nel 2003, nonostante la intervenuta revoca della liquidazione in data 29-10-2003, liquidazione iniziata formalmente con decorrenza dall’1-1-1996. La questione relativa alla liquidazione era, dunque, all’interno del petitum e della causa petendi della controversia, tanto che l’amministrazione, sin dal diniego di rimborso, ha motivato la propria decisione sulla intervenuta revoca della liquidazione, pure iniziata a decorrere dall’1-1-1996.

3.Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “nullità della sentenza per carenza dei requisiti previsti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, dall’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, e dall’art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto la motivazione della sentenza del giudice di appello è meramente apparente e contraddittoria. Infatti, il giudice di appello, da un lato, ha ritenuto che l’assoggettamento a tassazione separata. E quindi agevolata, è possibile solo se vi è stata l’effettuazione concreta di operazioni di liquidazione, ma dall’altro, ha affermato che erano necessarie informazioni sulle difficoltà di realizzazione e chiusura delle poste di bilancio.

3.1.Tale motivo è infondato.

Invero, la Commissione regionale ha reso una articolata motivazione, nella quale ha ritenuto che per l’assoggettabilità degli utili del socio alla tassazione separata, più favorevole, il requisito del decorso del termine di cinque anni dalla costituzione della società sino all’inizio della liquidazione della stessa, doveva essere valutato tenendo conto non dell’inizio solo formale della procedura liquidatorio, ma dei concreti atti posti in essere successivamente alla stessa, come eventuali operazioni di liquidazione dei beni.

Non si rinviene la contraddittorietà della motivazione paventata dalla ricorrente.

4.Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “Violazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3- Violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, comma 1, lett. l)”, in quanto l’unico requisito rilevante ai fini dell’assoggettabilità degli utili imputati al socio a tassazione separata, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, è costituito dal decorso del termine di cinque anni tra la costituzione della società e l’inizio formale della liquidazione, a prescindere dai concreti atti di liquidazione successivamente intervenuti, non richiedendosi la prova della realizzazione delle attività e del pagamento delle passività. Nè si richiede che la liquidazione sia portata a termine con lo scioglimento della società o che la stessa non sia revocata. Del resto, la delibera di distribuzione degli utili è avvenuta il 30-6-2003, quindi in pendenza della liquidazione, revocata solo con delibera del 2910-2003.

4.Tale motivo è infondato, anche se per ragioni diverse da quelle indicate dal giudice di appello in motivazione.

Invero, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, comma 1, lett. l prevede l’assoggettamento a tassazione separata dei “redditi imputati ai soci in dipendenza di liquidazione, anche concorsuale, delle società stesse, se il periodo di tempo intercorso tra la costituzione della società e la comunicazione del recesso o dell’esclusione, la deliberazione di riduzione del capitale, la morte del socio o l’inizio della liquidazione è superiore a cinque anni”.

Ciò che rileva, quindi, per consentire al socio di assoggettare a tassazione separata, più favorevole, i redditi a lui distribuiti dalla società è il decorso del termine di cinque anni dalla costituzione della società, avvenuta il 27-5-1981, e l’inizio formale della liquidazione, disposto con delibera del 22-12-1995, a decorrere dall’1-1-1996.

La norma, invero, non richiede che l’inizio della liquidazione sia poi seguito dal concreto svolgersi della stessa, attraverso la liquidazione dei singoli cespiti, la riscossione dei crediti ed il pagamento delle passività. Nè tale disposizione richiede che, in assenza di effettivi atti di liquidazione, il contribuente debba informare il fisco delle difficoltà incontrate nella realizzazione delle poste di bilancio.

Tuttavia, la fattispecie in esame è del tutto peculiare in quanto subito dopo la delibera di distribuzione degli utili in data 30-6-2003, è stata adottata dalla società la revoca della liquidazione sempre nell’anno 2003, in data 29-102003. L’art. 2487 ter c.c., però, dispone che la società può in ogni momento revocare lo stato di liquidazione e che la revoca ha effetto solo dopo sessanta giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della relativa deliberazione, salvo che consti il consenso dei creditori della società o il pagamento dei creditori che non hanno dato il consenso. Entro il termine di sessanta giorni, quindi, i creditori possono presentare opposizione alla delibera di revoca della liquidazione. Pertanto, la delibera di revoca ha avuto, comunque, efficacia nell’anno di imposta 2003.

Non era consentito, allora, al socio, che ha presentato la dichiarazione dei redditi nel 2004 con successiva dichiarazione integrativa nel 2005, optare per l’assoggettabilità dei redditi a lui distribuiti a tassazione separata, essendo venuto meno nell’anno 2003 proprio il presupposto essenziale per usufruire di tale agevolazione, con la revoca della liquidazione.

5.Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis e art. 43”, in quanto l’Agenzia delle entrate ha proceduto al controllo automatico della dichiarazione dei redditi del 2004 ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, senza sollevare alcuna contestazione al credito di imposta vantato dal socio, essendo, quindi, decorso il termine di decadenza per procedere all’accertamento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43. Pertanto, l’istanza di rimborso non poteva essere rigettata nel 2012 dalla Agenzia delle entrate. 5.1.Tale motivo è infondato.

Invero, per questa Corte, in tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum” (Cass., sez.un., 15 marzo 2016, n. 5069).

E’ stato, quindi, superato il precedente orientamento di cui alla sentenza di legittimità n. 9339 del 2012, indicato dalla società nel ricorso per cassazione.

6. Non deve provvedersi sulle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività processuale svolta dalla Agenzia delle entrate.

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2019

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