Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27816 del 04/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 04/12/2020, (ud. 23/09/2020, dep. 04/12/2020), n.27816

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6364-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 265/2013 della COMM. TRIB. REG. di PALERMO,

depositata il 14/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. RAFFAELE ROSSI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

D.E., esercente attività di produzione di pasticceria fresca, propose ricorso avverso l’avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Agrigento, facendo applicazione dei pertinenti studi di settore, aveva rideterminato per l’anno 2004 un maggior reddito di impresa imponibile ai fini IRPEF, un maggior valore della produzione a fini IRAP nonchè la relativa IVA non corrisposta e, per l’effetto, aveva recuperato a tassazione le imposte non versate, maggiorate di sanzioni ed accessori.

L’impugnativa del contribuente venne accolta dalla Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento con decisione poi confermata, a seguito di gravame dell’Ufficio finanziario, dalla sentenza n. 265/01/13 resa in data 14 novembre 2013 dalla Commissione Tributaria Regionale di Palermo (in appresso, per brevità: C.T.R.).

Ricorre per cassazione l’Agenzia delle Entrate, affidandosi a due motivi; alcuna attività processuale svolge la parte intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il ricorrente, riportando diffusi stralci dell’atto di appello, lamenta la mancata disamina degli elementi offerti a sostegno dell’accertamento dell’Ufficio (in specie, delle circostanze concrete afferenti l’attività oggetto di verifica idonee a suffragare la produzione di ricavi maggiori di quelli dichiarati) e denuncia altresì un palese travisamento dei fatti nella sentenza impugnata, nella parte in cui afferma che in sede di contraddittorio extraprocessuale (mai in realtà svolto, per mancata adesione al relativo invito) il contribuente ha chiarito le ragioni dello scostamento dei ricavi dagli indici ufficiali.

La contestazione è inammissibile.

In ragione dell’epoca della pronuncia (novembre 2013) il paradigma di riferimento per la denuncia in sede di legittimità di vizi motivazionali è rappresentato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134: il sindacato della Corte di Cassazione, per tale ragione di impugnazione, è consentito soltanto in presenza di un’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, e che si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (sul punto, basti il richiamo a Cass., Sez. U, 22/09/2014, n. 19881 e a Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

L’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, poi, non è integrato dalla mancata valutazione di elementi istruttori, se la circostanza fattuale, rilevante in causa, sia stata comunque presa in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (da ultimo, ex plurimis, Cass. 13/08/2018, n. 20718; Cass. 29/10/2018, n. 27415; Cass. 08/11/2019, n. 28887; Cass., Sez. U, 27/12/2019, n. 34476).

Nella vicenda de qua, la motivazione della pronuncia gravata è ben lungi dall’essere apodittica o meramente apparente.

La sentenza reca infatti un chiaro apprezzamento di inidoneità (“scarsi se non proprio controproducenti”) degli indizi di maggiore produttività dell’attività oggetto di accertamento addotti dall’A.F., riferendo detta valutazione ad una congerie di elementi fattuali dettagliatamente indicati (“le due polizze vita contratte dal commerciante, il prestito bancario per circa cento milioni (…), la scarsa potenza elettrica impegnata e le relative ore retribuite a personale dipendente nell’anno solare”) e ritenendo invece la maggiore plausibilità delle circostanze esposte dal contribuente (anch’esse analiticamente riportate: “consistenti nell’aver avviato l’attività di commercio all’ingrosso di pasticceria fresca solo l’anno precedente quello della verifica, negli elevati costi di gestione iniziali e nell’ubicazione decentrata dell’esercizio in Agrigento”) per sostenere la difformità dei ricavi dai dati evincibili dagli studi di settore.

Si versa, in definitiva, in una tipica valutazione riservata al giudice di merito, della quale inaccettabilmente il ricorrente richiede a questa Corte il nuovo compimento, invocando un riesame delle emergenze istruttorie, del tutto estraneo alla natura del giudizio di legittimità.

Del pari esulante dalla cognizione propria del presente mezzo di impugnazione è l’ulteriore doglianza del ricorrente, con cui, in buona sostanza, si prospetta un errore di percezione commesso dalla C.T.R., consistente nell’aver ritenuto formulate dal contribuente in sede di “contraddittorio extraprocessuale” deduzioni afferenti l’inapplicabilità degli studi di settore, in realtà formulate soltanto con il ricorso introduttivo del giudizio innanzi la Commissione tributaria.

2. Con il secondo motivo, per violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si asserisce la erronea applicazione dei canoni di distribuzione dell’onere della prova in caso di accertamento compiuto mediante applicazione dei parametri o studi di settore: in particolare si sostiene che il contribuente non abbia “addotto nè provato” (com’era invece suo onere) circostanze ostative all’operatività dello studio di settore.

Il motivo è inammissibile e comunque infondato.

Inammissibile perchè si risolve (e, ad un tempo, si esaurisce) nel domandare a questa Corte un nuovo apprezzamento di attendibilità e concludenza delle circostanze fattuali già (come visto) valutate dal giudice di merito e della (favorevolmente ritenuta) idoneità delle stesse a superare la valenza presuntiva degli studi di settore.

Infondato perchè, non senza alcune sbavature terminologiche, la sentenza impugnata ha fatto corretta attuazione dei principi di diritto elaborati in materia dal giudice della nomofilachia.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte, infatti, il calcolo del reddito effettuato mediante lo studio di settore, a seguito dell’instaurazione del contraddittorio con il contribuente, è idoneo ad integrare presunzioni legali che sono, anche da sole, sufficienti ad assicurare valido fondamento all’accertamento tributario, ferma restando la possibilità, per l’accertato, di fornire la prova contraria, in fase predibattimentale ed anche in sede contenziosa (da ultimo, Cass., 18/11/2019, n. 23252).

Segnatamente, nella decisione testè citata si è analiticamente chiarito che: “i parametri o studi di settore previsti dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, commi da 181 a 187, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, in quella contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (….). La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente” (nello stesso ordine di idee, Cass. 20/02/2015, n. 3415; Cass. 30/11/2018, n. 27617; Cass., 20/09/2017 n. 21754).

In linea con l’insegnamento ora richiamato, la C.T.R. – con apprezzamento qui non sindacabile – ha ravvisato fondata la contestazione del contribuente sulla operatività degli studi di settori ed asseverata la sussistenza di circostanze concrete giustificanti lo scostamento della propria posizione reddituale dai parametri di riferimento, e, per l’effetto, non ricorrenti le gravi incongruenze che devono necessariamente fondare, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), l’accertamento analitico-induttivo, anche in relazione agli avvisi di accertamento notificati dopo il 1 gennaio 2007 (Cass. 29/03/2019, n. 8854).

3. Dichiarata l’inammissibilità del ricorso, non vi è luogo a provvedere sulle spese di lite, per il mancato svolgimento di attività processuale ad opera della parte intimata.

Non trova infine applicazione il disposto del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17): il provvedimento che dichiara la parte impugnante tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato non può infatti essere pronunciato nei confronti di quelle parti della fase o del giudizio di impugnazione, come le Amministrazioni dello Stato, che siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (così Cass. 29/01/2016, n. 1778; Cass. 14/03/2014, n. 5955).

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2020

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