Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27813 del 30/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 30/10/2019, (ud. 14/05/2019, dep. 30/10/2019), n.27813

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 9940/2013 proposto da:

F.A.A. rappresentato e difeso dagli avv.ti A. La

Rocca e B. Innocenzi con domicilio eletto in Roma Largo Somalia n.

67 presso lo studio dell’avv. Rita Gradara.

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale

dello Stato con domicilio eletto in Roma via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia n. 17/45/2012 depositata il 27/02/2012.

Udita la relazione del Consigliere Dott. Pandolfi Catello nella

camera di consiglio del 14/05/2019.

Fatto

RILEVATO

che:

Il presente ricorso per cassazione del sig. F.A.A. ha ad oggetto la sentenza della CTR della Lombardia n. 17/45/12 depositata il 27/12/12.

La decisione impugnata aveva dichiarato inammissibile il ricorso del F. per revocazione della sentenza della stessa Commissione n. 64/32710 depositata 21/04/2010.

La vicenda trae origine dalla opposizione del contribuente all’avviso di accertamento, riguardante la società Galpi Ltd, a lui notificato in data 16 novembre 2006 dall’Ufficio di Milano 5 dell’Agenzia delle Entrate, relativo ad imposte IRPEG, IVA e IRAP, oltre sanzioni e interesse per l’anno 1998.

In tale avviso di accertamento il ricorrente era indicato come amministratore di fatto della predetta società. Egli ha allora proposto, in proprio e nel proprio interesse, ricorso alla CTP di Milano e poi alla CTR per la Lombardia chiedendo fosse accertato di non essere l’amministratore di fatto della Galpi Ltd.

I ricorsi non trovavano accoglimento. Pertanto, proponeva ricorso per revocazione della sentenza d’appello n. 64/32/10, sul presupposto che la stessa fosse viziata ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4.

In particolare, lamentava che la decisione fosse stata adottata nei confronti della società Galpi Ltd, come se egli avesse promosso il ricorso in nome della stessa quale suo legale rappresentante e non invece quale attore in proprio e nel proprio interesse. Riteneva perciò che il giudice d’appello fosse incorso in un errore revocatorio.

La CTR quale giudice della revocazione decideva per l’inammissibilità del ricorso per l’assenza delle condizioni di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4 affermando che l’errata indicazione della società, come parte attrice della decisione revocanda, era emendabile con la procedura di cui all’art. 287 c.p.c..

Tale pronuncia è stata impugnata con il ricorso in esame basato su tre motivi. -Il primo, per violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., n. 4 e dell’art. 287 c.p.c., in relaziona all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, avendo la Commissione ritenuto che la procedura per la correzione di errore materiale fosse applicabile al caso di specie.

– Il secondo, in violazione dell’art. 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver il giudice della revocazione omesso di motivare le ragioni per cui aveva ritenuto che l’errore, in cui era incorso il giudice di merito, fosse stato ininfluente sulla decisione di quest’ultimo.

– Il terzo, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64 e dell’art. 395 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto che la presenza dell’errore revocatorio già nella decisione di primo grado imponesse al ricorrente di farlo valere necessariamente con l’appello, essendo inammissibile sollevarlo per la prima volta con la domanda di revocazione.

Resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso. Il ricorrente ha presentato memoria ex art. 380 bis c.p.c..

CONSIDERATO

che:

Il F. aveva proposto ricorso d’appello per censurare la decisione della CTP di Milano relativa alla sua domanda di accertamento negativo di non essere amministratore di fatto della società Galpi Ltd; di non essere rappresentante legale della medesima (carica asseritamente rivestita dal sig. N.L.); di non essere a lui addebitabili le sanzioni irrogate dall’Agenzia delle Entrate alla suindicata società. Infine, “ad abundantiam” (così si legge nel ricorso) chiedeva dichiararsi illegittima la pretesa impositiva avanzata dall’Ufficio.

Quanto al primo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta falsa e erronea applicazione dell’art. 278 c.p.c per avere la decisione impugnata ritenuto che la procedura di correzione di errori materiali fosse applicabile al caso in esame.

La doglianza è infondata.

Questa Corte ha affermato che il “procedimento di correzione degli errori materiali o di calcolo, previsto dagli artt. 287 e 288 c.p.c., è esperibile non solo per ovviare ad un difetto di corrispondenza tra l’ideazione del giudice e la sua materiale rappresentazione grafica, chiaramente rilevabile dal testo del provvedimento e, come tale, rilevabile “ictu oculi”, ma anche in funzione integrativa, in ragione della necessità di introdurre nel provvedimento una statuizione obbligatoria consequenziale a contenuto predeterminato…” (Sez. 3, Ord. n. 4319/2019). Il limite al ricorso a tale procedura discende dalla necessità che la correzione non conferisca alla decisione un contenuto concettuale e sostanziale diverso dalla precedente stesura, come nel caso in cui il giudice intenda sostituire la parte motiva e/o il dispositivo. (Sez. 2, Sent. n. 12035/2011).

Nella specie la “correzione” non sarebbe nè aggiuntiva, nè modificativa tanto della motivazione quanto del dispositivo. L’indicazione, nel testo della pronuncia d’appello, del nominativo del sig. F.A.A. quale ricorrente in proprio, in luogo del nominativo dello stesso quale rappresentante della Galpi Ltd, non ha alcun riflesso sul contenuto concettuale e sostanziale della decisione che, come si dirà, pur in presenza dell’errore materiale, ha esaminato null’altro che le domande poste dalla parte.

Con il secondo motivo, il ricorrente ha denunciato motivazione apparente laddove la sentenza ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per revocazione senza rendere comprensibile l’iter logico giuridico seguito per giungere alla decisione.

Anche tale motivo non appare fondato.

La sentenza infatti ha dato conto delle ragioni per cui la Commissione ha giudicato l’insussistenza delle condizioni per l’applicazione di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, ritenendo che il giudice d’appello non fosse incorso in un errore percettivo, in quanto l’indicazione come parte attrice della società in persona del F. quale legale rappresentante e non del F. in proprio, non aveva influito “sulla corretta ricostruzione di merito fatta dai collegi giudicanti di primo e secondo grado nelle rispettive sentenze tenuto conto delle eccezioni formulate dal F. nel non ritenere a lui riconducibile la rappresentanza di fatto della società Galpi Ltd come sostenuto dall’Ufficio e conseguentemente a lui non ascrivibili le sanzioni irrogate alla predetta società”.

Questa Corte ha più volte affermato che “in tema di revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, deve ritenersi affetta da errore di fatto la pronuncia che, in modo evidente e immediatamente rilevabile, si fondi su una svista percettiva di carattere decisivo sull’intero oggetto del contendere “(Sez. 5, Ord. n. 7617/2018). in altri termini “l’istanza di revocazione implica un errore di fatto che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato. (Sez. 5 -, Sent. n. 442/2018).

Nel caso in esame la decisione sull’inammissibilità della domanda di revocazione è da ritenersi corretta dal momento che la decisione del giudice d’appello non si è basata su di una svista percettiva, ma su di una valutazione delle contrastanti prospettazioni delle parti.

Il ricorrente, sempre in seno al secondo motivo, ha, in particolare, censurato la valutazione del giudice della revocazione secondo cui l’errore, in cui era incorso la CTR in appello, non aveva influito sulla corretta ricostruzione nel merito della vicenda, senza illustrare le ragioni del suo convincimento.

La doglianza non è condivisibile.

La CTR, con la sentenza d’appello n. 64/32/10, ha respinto il ricorso affermando che le risultanze processuali comprovavano “..l’effettiva riconducibilità delle gestione operativa e decisionale al sig. F….” e che “..la Galpi, della quale…il F. (era) amministratore di fatto, non era una società di diritto straniero.., bensì una società da considerare a tutti gli effetti di diritto italiano”. La sentenza quindi, al di là della errata indicazione circa la veste in cui il F. aveva agito, aveva chiaramente respinto la sua domanda di accertamento negativo, mirante alla dichiarazione che egli non fosse l’amministratore di fatto della società, affermando invece che lo fosse, a conferma di quanto ritenuto dall’Ufficio.

Avendo acclarato, il giudice dell’appello, il ruolo svolto dalla parte, ha correttamente proceduto, come richiesto dalla parte medesima, ad esaminare anche la fondatezza nel merito della pretesa impositiva, dal momento che il F. aveva interesse a tale accertamento anche in proprio, giacchè temeva che il ruolo svolto (ribadito dalla sentenza) lo esponesse alle conseguenze sanzionatorie dell’accertamento tributario nei confronti della società.

Il contenuto della decisione del giudice di appello, malgrado l’errore, è quindi del tutto coerente con il petitum posto dal ricorrente, in quanto corrisponde ai profili di diretto e personale interesse dedotti dallo stesso.

La CTR, infatti, si è pronunciata su quanto richiesto dal F., sia pure con esito opposto a quello da lui propugnato, affermando che era stato l’amministratore di fatto della Galpi Ltd, che il sig. Nessi, pur figurando come rappresentante legale della società, non aveva mai presentato alcuna dichiarazione fiscale per conto della stessa e, infine, che la pretesa impositiva oggetto dell’avviso di accertamento era legittima.

Ha cioè ricalcato gli aspetti sottoposti dal F. al vaglio dei giudici di merito, tal che, come correttamente ritenuto dal giudice della revocazione, l’errore in cui è incorsa la CTR in appello non ha inciso nè sulla esatta individuazione dell’oggetto della cognizione, nè sulla coerenza logica tra il petitum e la decisione.

Con il terzo motivo il ricorrente ha lamentato l’errata e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64 e dell’art. 395 c.p.c., n. 4 per avere, la sentenza impugnata, affermato che, essendo l’errore, sulla veste in cui il F. aveva agito, già presente nella decisione di primo grado, il ricorrente avrebbe dovuto farlo valere con l’appello. Poichè non lo aveva sollevato con il gravame, non vi era la possibilità di rilevarlo per la prima volta con la domanda di revocazione, ormai inammissibile.

Sostiene il ricorrente che tale preclusione non trova riscontro nè del disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64, nè in quello dell’art. 395 c.p.c., n. 4.

La doglianza non è condivisibile.

La rilevabilità dell’errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa si inserisce nell’assetto ordinamentale previsto per le impugnazioni, nel senso che tutti i motivi emersi nel giudizio di primo grado, che abbiano inciso sulla decisione alterandola o viziandola, sono suscettibili d’essere oggetto d’appello. E’ questa cioè l’unica sede prevista dall’ordinamento per rilevarli e porre rimedio all’ingiustizia della decisione. Salvo si tratti dei casi di revocazione c.d. straordinaria di cui all’art. 396 c.p.c..

Pertanto, nel caso in cui l’errore revocatorio, già presente negli atti e documenti del giudizio di primo grado, non sia stato appellato, e sussista anche nel giudizio d’appello promosso per altri motivi, non è ammissibile, avverso la sentenza di secondo grado, promuovere il ricorso per revocazione basato su quello stesso errore già impugnabile con l’appello.

Diversamente opinando, si attribuirebbe alla parte interessata, la possibilità di scegliere a sua discrezione se far valere il vizio, già presente nel giudizio di primo grado e in quello successivo, mediante l’appello ovvero mediante la domanda di revocazione della sentenza di secondo grado. Tale soluzione non appare sorretta da alcuna ragionevole motivazione ed è in contrasto con l’esigenza di evitare l’inutile dispendio di attività processuale che inevitabilmente prolungherebbe i tempi di definizione, in contrasto con il principio di ragionevole durata del processo. Principio da assumere come prevalente criterio interpretativo, secondo l’orientamento di questa Corte ribadito anche con la recente sentenza n. 14365 del 27/05/2019.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità oltre che al pagamento di quelle prenotate a debito.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente ai pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 8.000,00 oltre al pagamento delle spese prenotate a debito.

Si dà atto della sussistenza, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2000, art. 13, comma 1-quater, dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2019.

Depositato in cancelleria il 30 ottobre 2019

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