Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27812 del 31/10/2018

Cassazione civile sez. trib., 31/10/2018, (ud. 18/09/2018, dep. 31/10/2018), n.27812

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22218-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

M.R. SRL;

– intimato –

Nonchè da:

M.R. SRL in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE XXI APRILE 11,

presso lo studio dell’avvocato CORRADO MORRONE, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato VITO D’AMBRA giusta delega a

margine;

– ricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente all’incidentale –

avverso la sentenza n. 354/2012 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

SALERNO, depositata il 27/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/09/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

udito il. P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO IMMACOLATA che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e incidentale;

udito per il ricorrente l’Avvocato CAMASSA che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato D’AMBRA che si riporta al

controricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Agenzia delle Entrate ha impugnato, con unico motivo, la sentenza n. 354/05/2012, depositata il 27.06.2012 dalla CTR della Campania, Sez. Staccata di Salerno.

Ha riferito che a conclusione della verifica fiscale presso la sede della M. s.r.l. era notificato l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), relativo all’anno d’imposta 2004, con il quale si rideterminava il reddito della società, con consequenziali maggiori tributi a titolo di Ires, Irap e Iva. Risultavano in particolare recuperati a tassazione costi non documentati, costi non inerenti, spese che la società aveva dedotto per intero quali spese di pubblicità, qualificate invece dalla Amministrazione come spese di rappresentanza, solo parzialmente deducibili.

Seguiva il contenzioso. La Commissione Tributaria Provinciale di Salerno, con sentenza n. 435/08/2009, accoglieva la domanda della contribuente relativamente ai costi non riconosciuti dall’Agenzia per mancata esibizione della documentazione richiesta in sede di verifica, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 3 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5. Il ricorso era invece rigettato relativamente al recupero a tassazione dei costi non inerenti e delle spese di rappresentanza.

All’esito del giudizio d’appello la Commissione Tributaria Regionale, con la pronuncia ora impugnata, confermava la sentenza del giudice provinciale.

Con l’unico motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 3, 4 e 5 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l’erronea interpretazione della disciplina regolante l’ipotesi della mancata esibizione della documentazione richiesta. Chiede dunque la cassazione della sentenza con ogni consequenziale statuizione.

Si è costituita la società, che con controricorso ha eccepito l’inammissibilità e nel merito ha contestato il motivo di ricorso, di cui ha chiesto il rigetto; con ricorso incidentale ha inoltre censurato con due motivi la sentenza:

con il primo per violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 108, comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per l’erronea collocazione delle spese sostenute dalla società tra quelle di rappresentanza e non di pubblicità;

con il secondo per la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per aver negato l’inerenza dei costi sostenuti per l’azienda.

L’Agenzia ha risposto con controricorso al ricorso incidentale, del quale ne ha chiesto il rigetto.

All’udienza pubblica del 18 settembre 2018, dopo la discussione, il P.G. e le parti hanno concluso. La causa è stata trattenuta in decisione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Esaminando il motivo di ricorso della Agenzia, deve preliminarmente valutarsi se esso sia inammissibile, come sostiene la contribuente per mancanza di specificità, avendo contestualmente lamentato la violazione e la falsa applicazione delle norme invocate. L’eccezione è infondata. E’ pur vero che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito, sicchè essi devono necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c. (da ultimo cfr. Cass., ord. n. 11603/2018). Il difetto di tassatività e di specificità deve tuttavia riguardare il motivo e non la sola enunciazione della categoria di vizio da cui il ricorrente ritenga affetta la pronuncia. Nel caso di specie il motivo è sufficientemente specifico, sviluppando ragioni con cui si pretende di dimostrare la violazione delle norme invocate.

Esso tuttavia è inammissibile sotto altro profilo.

Va premesso che l’Agenzia non ha riconosciuto la deducibilità di costi per l’importo di Euro 110.007,00 perchè le relative fatture non furono prodotte in sede di verifica ma solo successivamente, sicchè si ritennero inutilizzabili a favore del contribuente in forza delle preclusioni previste dal D.P.R. n. 660 del 1973, art. 32, comma 3 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5.

Il giudice d’appello, nell’accogliere le ragioni della contribuente, dopo aver riportato alcuni passaggi del p.v.c. redatto dalla polizia tributaria, ha affermato che “….nessuna richiesta di documenti risulta essere stata avanzata dalla P.T. in sede di verifica e, conseguentemente, nessun rifiuto ad esibire od occultamento degli stessi risulta essere stato posto in essere dalla società contribuente”. Prosegue pertanto sostenendo che la disciplina invocata dalla Amministrazione “trova applicazione soltanto in presenza di un rifiuto o di un occultamento da parte del contribuente a fronte della specifica richiesta da parte dei verificatori, non essendo sufficiente che il contribuente non abbia esibito ai verbalizzanti i documenti prodotti successivamente o in sede giudiziaria”.

Trattasi di considerazioni in fatto incidenti sulla interpretazione della disciplina alla luce di arresti giurisprudenziali della Corte di legittimità, secondo cui la normativa trova applicazione soltanto in presenza di una specifica richiesta o ricerca da parte dell’Amministrazione e di un rifiuto o di un occultamento da parte del contribuente, non essendo sufficiente che quest’ultimo non abbia esibito ai verbalizzanti i documenti successivamente prodotti in sede giudiziaria (Cass., sent. n. 9127/2006; 21768/2009; 16536/2010; 453/2013; 11765/2014; 27069/2016; 7011/2018).

L’Agenzia si duole invece che sin dall’accesso del 27.09.2008 al contribuente fu chiesta l’esibizione della documentazione, informandolo che “i documenti di cui sia rifiutata l’esibizione non potranno essere presi in considerazione a favore della Parte ai fini dell’Accertamento in sede amministrativa e contenziosa; per rifiuto d’esibizione s’intendono anche le dichiarazioni di non possedere libri, registri, documenti…”.

Ebbene, se l’Amministrazione si duole della mancata rilevazione da parte della Commissione Regionale della regolare formulazione della richiesta di esibizione della documentazione, denuncia per ciò stesso un errore revocatorio e non una violazione di legge, che si sarebbe dovuto far valere con l’azione prevista dall’art. 395 c.p.c. e non con il ricorso per cassazione.

Il motivo è peraltro inammissibile sotto altro profilo.

La sentenza del giudice tributario, nella valutazione della vicenda mostra di aver ben presente la disciplina e la sua ratio, alla luce della interpretazione giurisprudenziale. Su tali premesse afferma che “Non pare proprio, nel caso di specie, che la società contribuente abbia tenuto un comportamento diretto a sottrarsi alla prova, atteso che, non appena reperite le fatture non esibite in sede di verifica, le quali tuttavia risultavano regolarmente contabilizzate – tant’è che sono state regolarmente individuate ed elencate dalla P.T. nel p.v.c. del 26.10.2006 – le ha immediatamente trasmesse alla competente Agenzia delle Entrate e, successivamente, esibite in allegato anche al ricorso introduttivo”.

Il giudice dunque, dopo aver evidenziato che mancava una richiesta di produzione di documentazione e dunque un rifiuto di esibizione od un occultamento, della condotta della contribuente ha in ogni caso valorizzato due aspetti: 1) che le fatture sono state prodotte non appena reperite, 2) che trattavasi di fatture già specificamente identificate perchè riportate analiticamente nel p.v.c. come documenti regolarmente contabilizzati.

E’ evidente che trattasi di un accertamento in fatto, che se ritenuto illogico o non adeguatamente motivato poteva essere denunciato quale vizio motivazionale, di certo non per violazione di legge.

Infine, per mera completezza argomentativa, anche qualora si trascurassero i profili di inammissibilità evidenziati, la motivazione della sentenza aderisce a quella interpretazione elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui la disciplina che esclude la possibilità di prendere in considerazione a favore del contribuente, in sede amministrativa e contenziosa, i documenti che non siano stati acquisiti durante gli accessi perchè il contribuente ha rifiutato di esibirli o perchè ha dichiarato di non possederli, o perchè li ha comunque sottratti al controllo, costituisce norma facente eccezione a regole generali, che non può essere applicata oltre i casi ed i tempi da essa considerati e deve essere interpretata, in coerenza ed alla luce dei principi affermati dagli artt. 24 e 53 Cost., in modo da non comprimere il diritto alla difesa e di obbligare il contribuente alla effettuazione di pagamenti non dovuti e, quindi, nel senso che, per essere sanzionato con la perdita della facoltà di produrre i libri e le altre scritture, il contribuente stesso deve aver tenuto un comportamento diretto a sottrarsi alla prova e, dunque, capace di far fondatamente dubitare della genuinità di documenti che affiorino soltanto in seguito nel corso di giudizio (cfr. Cass., sent. 16536/2010 cit.; 8539/2014; 15283/2015). La condotta della società, così come emerge dalla sentenza impugnata e dagli atti difensivi delle parti, compreso il ricorso della Agenzia – e cioè che durante la verifica fu esibita una documentazione fiscale molto corposa, che solo alcune fatture non furono esibite, e peraltro erano regolarmente contabilizzate (per cui va allontanato ogni dubbio sulla artificiosa ricostruzione di pezze a sostegno di costi inesistenti), che l’assenza materiale delle stesse era emersa solo due giorni prima della chiusura del p.v.c., che, successivamente rinvenute presso la sede milanese della società, furono prodotte – esclude che sia stata dettata da finalità di rifiuto della consegna o di occultamento di documenti, rientrando invece l’ipotesi nella fattispecie prevista dall’art. 32 cit., comma 4 non potendosi addebitare alcuna responsabilità alla contribuente per la tardiva produzione.

In conclusione il ricorso principale della Agenzia va rigettato.

Esaminando ora i motivi di ricorso incidentale, con il primo la contribuente ha lamentato l’erroneità della sentenza, sotto il profilo della violazione dell’art. 108, comma 2, TUIR, per aver ritenuto che le spese, dedotte nello loro interezza quali spese di pubblicità, rientrassero invece in quelle di rappresentanza, con conseguente deducibilità parziale. Sostiene in particolare che le spese sostenute per acquisto di beni da regalare ai clienti (bottiglie, mozzarelle, articoli di arredo) dovessero considerarsi quali costi di pubblicità.

Premesso che la giurisprudenza ha ripetutamente marcato la distinzione tra costi di pubblicità e di rappresentanza, affermando che il criterio discretivo va individuato negli obiettivi perseguiti, atteso che quelle di rappresentanza sono sostenute per accrescere il prestigio della società, senza una aspettativa di incremento delle vendite, mentre quelle di pubblicità hanno lo scopo preminente di pubblicizzare i prodotti, i marchi o i servizi offerti dall’impresa, con diretta finalità promozionale e di incremento delle vendite (cfr. Cass., sent. 3087/2016; 21977/2015), la censura della contribuente non coglie nel segno, perchè il giudice regionale si è limitato a evidenziare che con l’appello incidentale la società non avesse riferito nulla di più di quanto già sostenuto con il ricorso introduttivo, ritenuto già insufficiente dal giudice di primo grado. La lettura dei passi dell’atto di appello incidentale, riportati nel ricorso incidentale, confermano come gli elementi addotti dalla società fossero del tutto generici, senza alcun elemento teso a provare la finalità di incremento delle vendite dei prodotti lavorati.

Il motivo va pertanto rigettato.

Infondato è anche il secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale la società si duole della violazione dell’art. 109, comma 2, TUIR, per non aver riconosciuto deduzioni per l’importo di Euro 1.886,50 ritenendoli costi non inerenti.

Il motivo sfiora l’inammissibilità perchè si sofferma sui principi generali relativi al concetto di inerenza, senza neppure indicare con analiticità i costi esclusi perchè ritenuti non inerenti. Peraltro anche questa censura non coglie nel segno perchè la sentenza anche in questo caso evidenzia come con l’atto di appello incidentale la società si fosse limitata a reiterare le doglianze già formulate in primo grado, ritenute non sufficienti all’accoglimento delle ragioni della contribuente. I passaggi dell’appello incidentale, riprodotti nel ricorso incidentale, confermano l’inidoneità delle ragioni addotte a dimostrare l’inerenza di quei costi, tra i quali è menzionato quello relativo all’utilizzo di utenze telefoniche e telematiche private, nella titolarità dell’amministratore (nel controricorso della Agenzia si specifica che trattavasi di abbonamenti telematici ed informatici in uso presso l’abitazione privata dell’amministratore), nonchè di pedaggi autostradali relativi ad una autovettura non intestata alla società.

A prescindere dai criteri elaborati nella giurisprudenza sul concetto di inerenza (tra le più recenti cfr. Cass., 14579/2018; 450/2018), si è comunque sostenuto (in tema di iva ma il principio è applicabile a qualunque imposta) che la prova dell’inerenza del costo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione, incombe sul contribuente in quanto soggetto gravato dell’onere di dimostrare l’imponibile maturato (Cass., sent. n. 18904/2018).

Ciò chiarito, nulla a tal fine è stato allegato in sede di appello dalla contribuente per giustificare conclusioni diverse da quelle cui la Commissione Tributaria Regionale è addivenuta.

In conclusione anche questo motivo non trova accoglimento e il ricorso incidentale va rigettato.

La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di causa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale. Rigetta il ricorso incidentale. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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