Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27800 del 20/12/2011

Cassazione civile sez. VI, 20/12/2011, (ud. 25/10/2011, dep. 20/12/2011), n.27800

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – rel. Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 20753/2010 proposto da:

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (OMISSIS) in

persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso

l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli

avvocati LANZETTA Elisabetta, MASSIMILIANO MORELLI, giusta procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

S.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA CASSIODORO 6, presso lo studio degli avvocati LEPORE

Gaetano e LEPORE MARIA CLAUDIA, che la rappresentano e difendono,

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7029/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA del

10.10.08, depositata il 25/08/2009;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

25/10/2011 dal Consigliere Relatore Dott. PIETRO ZAPPIA;

udito per il ricorrente l’Avvocato Clementina Pulli (per delega avv.

Elisabetta Lanzetta) che si riporta ai motivi del ricorso;

udito per la controricorrente l’Avvocato Gaetano Lepore che si

riporta agli scritti.

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. RENATO

FINOCCHI GHERSI che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

IN FATTO ED IN DIRITTO

1. Con ricorso depositato il 1 giugno 2007 l’Inps proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale, giudice del lavoro, di Roma n. 358 in data 9.1.2007, con la quale erano state accolte le domande dell’odierna appellata tendenti ad ottenere la restituzione del contributo di solidarietà trattenutole sulle retribuzioni in applicazione della L. n. 144 del 1999, art. 64, comma 5, sostenendo l’erroneità dell’interpretazione di tale normativa fornita dal Tribunale, dovendosi ritenere, ove esattamente applicati i canoni ermeneutici, che esso dovesse essere applicato anche sulle retribuzioni dei dipendenti ancora in servizio, quale l’appellata, che avessero maturato il diritto alle prestazioni integrative previste dall’art. 22 del Regolamento del Fondo di previdenza integrativa.

2. La Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 10.10.2008 – 25.8.2009, rigettava il gravame.

Avverso detta sentenza l’Inps propone ricorso per cassazione con un motivo, assumendo violazione e falsa applicazione del combinato disposto dei commi 3 e 5, della 17 maggio 1999, n. 144, art. 64 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), ribadendo in buona sostanza, se pur con ulteriori argomenti, la tesi espressa con il proposto gravame.

Resiste con controricorso l’intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 2.

Il Consigliere relatore ha depositato relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., che è stata comunicata al Procuratore Generale e notificata ai difensori costituiti.

3. Il ricorso è fondato.

4. La L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 64, comma 2, ha disposto, a decorrere dal 1 ottobre 1999, la soppressione dei fondi per la previdenza integrativa dell’assicurazione generale obbligatoria per i dipendenti degli enti di cui alla L. 20 marzo 1975, n. 70 (ossia gli enti pubblici come Inps ed Inail, facenti parte del c.d. parastato) con contestuale cessazione delle corrispondenti aliquote contributive previste per il finanziamento dei fondi medesimi.

Il successivo comma 3 ha poi riconosciuto agli iscritti ai fondi soppressi “il diritto all’importo del trattamento pensionistico calcolato sulla base delle normative regolamentari in vigore presso i predetti fondi che restano a tal fine confermate anche ai fini di quiescenza e delle anzianità contributive maturate alla data de 1.10.1999”.

Attraverso questa disposizione, anche coloro che – alla data della soppressione (1 ottobre 1999) – non avevano ancora conseguito i requisiti prescritti dalla normativa del Fondo e quindi non avrebbero avuto alcun diritto nei suoi confronti, finiscono con l’acquisire comunque la prestazione integrativa; in altri termini “tutti” i dipendenti di questi enti “maturano” la pensione integrativa nella misura conseguita al 1 ottobre 1999, ancorchè la sua concreta erogazione competa poi solo a coloro che hanno già acquisito la pensione obbligatoria, secondo la regola ormai generalizzata, L. 27 dicembre 1997, n. 449, ex art. 59, comma 3, per cui la pensione integrativa si consegue solo in presenza dei requisiti e con la decorrenza previsti per l’assicurazione generale obbligatoria di appartenenza.

Inoltre, come previsto nella parte finale del comma 3, gli importi maturati al 1 ottobre 1999, vengono rivalutati annualmente sulla base degli indici Istat, di talchè, al momento del conseguimento della pensione obbligatoria, i dipendenti in servizio avranno diritto alla pensione integrativa nel maturato al 1 ottobre 1999, incrementato della rivalutazione per ciascuno degli anni che li separano dalla pensione.

Infine il quinto comma dell’art. 64 introduce, dalla medesima data del 1 ottobre 1999, un contributo di solidarietà del 2% su dette pensioni integrative, precisamente “sulle prestazioni integrative dell’assicurazione generale obbligatoria erogate o maturate presso i fondi…”.

La questione che si pone è la seguente: se detto contributo di solidarietà del 2% debba gravare solo su coloro che percepiscono la pensione integrativa, oppure anche (attraverso ritenute sulla retribuzione) sui dipendenti in servizio, i quali, pur non ricevendola concretamente, la abbiano già maturata.

5. Il combinato disposto di queste norme aveva indotto numerosi giudici di merito ad accogliere la tesi dell’Inps, ritenendo che la formula legislativa “prestazioni integrative dell’assicurazione generale obbligatoria erogate o maturate presso i fondi….” doveva essere intesa con riferimento non solo ai trattamenti integrativi in atto, ma anche con riferimento alla somma maturata – sempre a titolo di trattamento pensionistico integrativo – dai dipendenti in servizio sulla base degli accantonamenti effettuati fino al 30.9.1999, trattenendo la relativa somma sulle retribuzioni. Si privilegiava in tal senso il riferimento fatto dalla legge al “maturato”, e si considerava anche la peculiarità del sistema per cui anche le pensioni “maturate” al 1 ottobre 1999 dai dipendenti in servizio, ma non liquidate, si rivalutavano annualmente in base agli indici Istat (in deroga al principio generale per cui si rivaluta solo la pensione liquidata), di talchè costoro avrebbero percepito il maturato all’ottobre 1999 incrementato dalla rivalutazione annuale a partire da quella data fino al pensionamento (decorrente anche molti anni dopo) senza pagare alcunchè, con la conseguenza che, mentre per i pensionati detta rivalutazione trovava copertura nel contributo di solidarietà, per coloro che erano ancora in servizio, ove ritenuti esenti dal contributo di solidarietà, la rivalutazione non avrebbe trovato alcuna forma di copertura, con conseguente squilibrio finanziario.

6. La giurisprudenza di legittimità era però orientata concordemente (tra le tante Cass. n. 11732 del 2009; n. 12735 del 2009; n. 12905 del 2009) a ritenere che il contributo di solidarietà non dovesse gravare sulle retribuzioni dei dipendenti in servizio, dando preminente rilievo al fatto che la legge lo impone sulle “prestazioni integrative”, cioè sui trattamenti pensionistici contemplati dal Fondo, e non già sulle retribuzioni percepite dai dipendenti ancora in attività di servizio, sebbene anche costoro avessero indubbiamente già “maturato” la pensione integrativa, ed ancorchè la legge lo estendesse non solo a quelle “erogate” ma anche a quelle “maturate”.

7. Con il D.L. 6 luglio 2011, n. 98, convenuto in L. 15 luglio 2011, n. 111, art. 18, comma 19, si è previsto che “le disposizioni di cui alla L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 64, comma 5, si interpretano nel senso che il contributo di solidarietà sulle prestazioni integrative dell’assicurazione generale obbligatoria è dovuto sia dagli ex- dipendenti già collocati a riposo che dai lavoratori ancora in servizio. In questo ultimo caso il contributo è calcolato sul maturato di pensione integrativa alla data del 30 settembre 1999 ed è trattenuto sulla retribuzione percepita in costanza di attività lavorativa”.

8. La verifica della conformità a Costituzione di questa norma va compiuta alla luce dei principi enunciati dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 257/2011 in tema di legge interpretativa, concernente in quel caso la materia pensionistica (si trattava dell’articolo della L. n. 191 del 2009, art. 2, comma 153, che interpretava autenticamente la L. n. 457 del 1972, art. 3, in tema di pensioni degli operai agricoli a tempo determinato).

La Corte Costituzionale – dopo avere ribadito, come nelle sue precedenti pronunzie, non essere decisiva la verifica sul carattere effettivamente interpretativo oppure innovativo con efficacia retroattiva, perchè il divieto di retroattività della legge non è stato elevato a dignità costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25 Cost., per cui il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purchè la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti – ha confermato altresì che la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario.

Ha poi negato la Corte la fondatezza della questione di legittimità costituzionale di quella disposizione interpretativa, sollevata con riferimento all’art. 111 Cost. (interpretato alla luce dell’art. 6 CEDU, in quanto la previsione della sua applicabilità ai giudizi in corso violerebbe il principio del giusto processo, in particolare sotto il profilo della parità delle parti, da ritenere leso a causa di un intervento del legislatore diretto ad imporre una determinata soluzione ad una circoscritta e specifica categoria di controversie) e art. 117 Cost., comma 1 (per violazione degli obblighi internazionali dello Stato e, in particolare, dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo).

La Corte ha così deciso: “In premessa, si deve ricordare che questa Corte, con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117 Cost., comma 1, e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. I principi illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati. Alla luce di essi si deve, dunque, verificare: a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007, citata). Orbene, con riguardo all’art. 6 della CEDU, si deve osservare che la Corte di Strasburgo, pur censurando in numerose occasioni indebite ingerenze del potere legislativo degli Stati sull’amministrazione della giustizia (per una ricognizione dei casi trattati, sentenza di questa Corte n. 311 del 2009), non ha inteso enunciare un divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che in varie occasioni ha ritenuto non contrari al menzionato art. 6 particolari interventi retroattivi dei legislatori nazionali. La regola di diritto, affermata anche di recente con sentenza della seconda sezione in data 7 giugno 2011, in causa Agrati ed altri c/ Italia, è che “se, in linea di principio, il legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo sancito dall’art. 6, ostano, salvo che per ragioni imperative d’interesse generale, all’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la risoluzione di una controversia. L’esigenza della parità delle armi comporta l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un sostanziale svantaggio rispetto alla controparte”.

Anche secondo la detta regola, dunque, sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.). Diversamente, se ogni intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo scopo d’influenzare la risoluzione di una controversia, la regola stessa sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione priva di significato concreto”.

9. Nel caso in esame – sulla base di questi principi – il D.L. n. 98 del 2011, art. 18, comma 19, convertito in L. n. 111 del 2011, sopra riportato, non suscita dubbi di contrarietà alla Costituzione, perchè esso ha enucleato una delle possibili opzioni ermeneutiche dell’originario testo normativo; ha superato una situazione di oggettiva incertezza derivante dal suo ambiguo tenore, evidenziata dai diversi indirizzi interpretativi (siccome emerge dal contrasto tra la giurisprudenza di merito e quella di legittimità, di cui sopra si è detto); non ha inciso su situazioni giuridiche definitivamente acquisite, non ravvisabili in mancanza di una consolidata giurisprudenza dei giudici nazionali.

Non è sostentile, dunque, che la disposizione de qua abbia inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la risoluzione di controversie. Essa, in realtà, ha fatto propria una soluzione già adottata da molti giudici di merito nell’esercizio di un potere discrezionale in via di principio spettante al legislatore e nel quale non è dato ravvisare profili di irragionevolezza. La finalità di superare un conclamato contrasto di giurisprudenza, destinato peraltro a riproporsi in un gran numero di giudizi, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse generale qual è la certezza del diritto, è configurabile come ragione idonea a giustificare l’intervento interpretativo del legislatore.

Nè tale conclusione appare in contrasto con il principio fissato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 24 del 30.1.2009 secondo cui “l’intervento legislativo diretto a regolare situazioni pregresse è legittimo a condizione che vengano rispettati i canoni costituzionali di ragionevolezza ed i principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche (sentenze n. 74 del 2008 e n. 376 del 1995), anche al fine di assegnare a determinate disposizioni un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (sentenze n. 234 del 2007 e n. 224 del 2006). La norma successiva non può, però, tradire l’affidamento del privato sull’avvenuto consolidamento di situazioni sostanziali (sentenze n. 156 del 2007 e n. 416 del 1999)”.

Ed invero nel caso di specie l’intervento normativo non presenta alcun carattere di irragionevolezza, essendo venuto a regolare una situazione pregressa che, lungi dall’essersi consolidata sotto il profilo dell’interpretazione giurisprudenziale, aveva registrato un cospicuo contrasto interpretativo fra la giurisprudenza di merito e quella di legittimità, di talchè la disposizione interpretativa della norma di cui all’art. 18, comma 19, del predetto D.L. n. 98 del 2011, aveva in buona sostanza assegnato alla norma interpretata un significato già in essa contenuto, e riconoscibile come una delle possibili letture testo originario.

Si appalesa infine inconferente il richiamo alla sentenza 10.4.1987 n. 123 della Corte Costituzionale concernente i rapporti fra lo ius supeveniens e la chiusura del contenzioso. Tale sentenza invero, premesso che la norma (L. 6 agosto 1984, n. 425, art. 10) sottoposta – nella fattispecie suddetta – a scrutinio di legittimità costituzionale, attribuendosi la natura di norma interpretativa autentica, aveva di fatto contraddetto la costante giurisprudenza amministrativa e ordinaria formatasi sui punti controversi, e rilevato che l’art. 10, comma 1, di tale legge era stato impugnato nella parte in cui disponeva l’estinzione d’ufficio, con compensazione delle spese, dei giudizi pendenti aventi ad oggetto le relative controversie, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto L. n. 425 del 1984, art. 10, comma 1, nella parte in cui precludeva al giudice la decisione di merito imponendogli di dichiarare d’ufficio l’estinzione dei giudizi pendenti, in qualsiasi stato e grado si trovassero alla data di entrata in vigore della legge sopravvenuta, con ciò violando, stante il palese contrasto con l’art. 24 Cost., il valore costituzionale del diritto di agire, in quanto implicante il diritto del cittadino ad ottenere una decisione di merito senza onerose reiterazioni.

Trattasi, per come evidente, di ipotesi del tutto differente da quella oggetto della presente controversia in cui lo ius superveniens, finalizzato alla interpretazione della normativa esistente in materia, non detta peraltro alcuna disposizione in ordine all’esito dei giudizi in corso e tanto meno prevede la estinzione degli stessi con un particolare regolamento delle spese.

10. Si impone pertanto, in accoglimento del suddetto motivo di gravame, la cassazione dell’impugnata sentenza.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito a norma dell’art. 384 c.p.c., commi 1 e 2, con il rigetto della domanda proposta dalla S.; il contrasto giurisprudenziale in precedenza descritto testimonia l’incertezza interpretativa della norma in questione che ha reso plausibile l’intervento del legislatore e, al tempo stesso, giustifica la compensazione fra le parti delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta dall’originaria ricorrente; compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, il 25 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2011

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