Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27792 del 04/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 04/12/2020, (ud. 08/09/2020, dep. 04/12/2020), n.27792

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13426-2018 proposto da:

G.L., elettivamente domiciliato in ROMA, Piazza Cavour presso

la cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentato e difeso

dall’avvocato STEFANO BOERO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1632/2017 della COMM.TRIB.REG. della Liguria,

depositata il 27/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/09/2020 dal Consigliere Dott. VALERIA PIRARI.

Per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Liguria n. 1632, depositata in data il 27 novembre

2017.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 8

settembre 2020 dal Relatore Dott.ssa Valeria Pirari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. In data 6/11/2014, l’Agenzia delle entrate notificò a G.L., titolare di una piccola impresa artigiana, avviso di accertamento per l’anno 2010, oggetto di istanza di adesione depositata il 23/12/2014, con cui era stato chiesto il pagamento di maggiori imposte IRPEF, IRAP, IVA e addizionali regionali e comunali, oltre a contributi INPS e sanzioni e interessi, e che era stato fondato su indagini bancarie e in particolare su versamenti e prelevamenti su conto bancario non giustificati ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 e su corrispettivi evasi all’imposizione IVA e versamenti non giustificati a termini del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51.

Nel contenzioso che ne conseguì in seguito ad impugnazione del contribuente, l’Agenzia delle entrate rappresentò di essersi attivata in autotutela parziale, riconoscendo come giustificati alcuni movimenti in uscita e domandando la parziale cessazione della materia del contendere e il rigetto per il resto del ricorso proposto dal contribuente. La Commissione tributaria provinciale di Genova emise la sentenza n. 1905/2016, pubblicata il 22/09/2016, con la quale dichiarò la cessazione parziale della materia del contendere e, dopo avere rideterminato il reddito d’impresa, accolse parzialmente il ricorso, riducendo ulteriormente il reddito accertato, previo giudizio di ragionevolezza di tutti i prelievi eseguiti in contanti e/o mediante bancomat, reputati giustificati, e rigettandolo per il resto. La Commissione tributaria regionale della Liguria, adita dal contribuente, confermò l’impugnata sentenza, compensando le spese del giudizio.

2. Contro la sentenza emessa dal giudice del rinvio, il contribuente propone ricorso per cassazione affidandolo a tre motivi. L’Agenzia delle entrate si costituisce in giudizio con controricorso. Le parti si difendono anche con memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso, il contribuente lamenta la violazione o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, così come modificato dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, art. 7-quater convertito con modificazioni dalla L. 1 dicembre 2016, n. 225, e violazione dei principi in essa contenuti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, assumendo che la C.T.R., nel confermare la pronuncia di primo grado, che aveva ritenuto giustificati soltanto i prelevamenti effettuati in contanti e/o con bancomat dall’unico conto corrente da lui utilizzato sia per lavoro che per esigenze della famiglia, con esclusione di quelli collegati ad assegni o bonifici, avesse violato le nuove disposizioni introdotte nel 2016 a modifica del D.P.R. n. 600 del 1973, citato art. 32, comma 1, a mente delle quali dovevano ritenersi giustificati i prelevamenti per importi non superiori a Euro 1.000,00 giornalieri o a Euro 5.000,00 mensili, tra cui anche quelli riscossi purchè al di sotto delle predette soglie.

2. Con il secondo motivo, il contribuente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e l’omessa decisione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con specifico riguardo all’ambito applicativo della presunzione, stabilita per gli imprenditori, della riconducibilità ad investimenti realizzati nell’ambito dell’attività professionale – a loro volta produttivi di reddito – dei prelievi da conti correnti privi di giustificazione. In proposito, ha affermato che la C.T.R. aveva omesso di motivare sulla dedotta assimilabilità, ai fini della presunzione, delle piccole imprese artigiane ai professionisti, essendo il valore aggiunto dell’attività – e dunque il ricavo – riconducibile alla manodopera dell’artigiano, e sulla conseguente applicabilità anche alle prime del giudizio di irragionevolezza, espresso dalla Corte costituzionale con la decisione n. 228 del 2014, dell’estensione ai lavoratori autonomi della suddetta presunzione o comunque sulla rinviabilità della questione alla Corte costituzionale.

3. Con il terzo motivo, infine, il contribuente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e l’omessa decisione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. omesso di considerare le doglianze relative alla mancata deduzione dei costi sostenuti, come già evidenziato nel ricorso introduttivo del procedimento e ribadito in grado d’appello, oltrechè affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza del 8/6/2005, n. 255.

4. Va innanzitutto premessa l’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio, sollevata dall’Agenzia delle entrate, sul presupposto che il ricorso fosse stato notificato presso l’Avvocatura generale dello Stato, benchè questa non avesse alcuna attinenza con il domicilio eletto nei pregressi giudizi di merito, nei quali l’Agenzia si era difesa da sè, venendo la stessa in rilievo soltanto dal momento dell’affidamento ad essa del mandato difensivo.

Le sezioni unite di questa Corte si sono, infatti, già pronunciate in merito alla validità della notifica eseguita presso l’Avvocatura generale non ancora investita del mandato difensivo, esprimendo il principio di diritto secondo cui “in tema di contenzioso tributario, qualora nel giudizio di merito l’Agenzia delle entrate non sia stata rappresentata dall’Avvocatura dello Stato, è nulla, e non inesistente, la notifica del ricorso per cassazione effettuata presso l’Avvocatura dello Stato, non potendosi escludere l’esistenza di un astratto collegamento tra il luogo di esecuzione della notifica ed il destinatario della stessa, in considerazione delle facoltà, concesse all’Agenzia dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 72 di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura. Tale nullità, inoltre, può essere sanata sia nel caso in cui l’Agenzia si costituisca, sia per effetto di rinnovazione della notifica, ai sensi dell’art. 291 c.p.c.” (vedi Cass. Sez. u., 29/10/2007, n. 22641).

Alla luce di tale principio, può perciò escludersi la dedotta inammissibilità del ricorso, in quanto la nullità derivante dalla notifica effettuata presso quest’ultima prima del conferimento del mandato difensivo ad essa è rimasta sanata per effetto della avvenuta costituzione dell’Agenzia delle entrate col patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato.

5. Il primo motivo del ricorso è infondato.

Il contribuente lamenta, come si è detto, il fatto che, a fronte di prelevamenti totali per l’importo di Euro 28.090,00, la C.T.R. avesse reputato giustificati soltanto quelli per contanti e/o con bancomat per l’importo giornaliero di Euro 250,00 e complessivo annuo di Euro 6.790,00, siccome giustificati dall’uso personale, e non anche i prelevamenti collegati esclusivamente ad assegni o bonifici (asseritamente quantificati dalla tabella contenuta nelle controdeduzioni dell’Agenzia in complessivi Euro 4.652,40), ritenuti dai giudici correttamente imputabili a ricavi, così violandosi, a suo avviso, la modifica del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), introdotta dal citato D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, convertito, con modificazioni, dalla L. 1 dicembre 2016, n. 225, che ha limitato la presunzione di maggiori ricavi ai soli prelevamenti o importi riscossi in misura superiore a Euro 1.000,00 giornalieri e 5.000,00 mensili, e ha invece escluso l’operatività della presunzione per quelli non superiori a tali valori, ivi compresi gli importi riscossi, indicati normativamente come distinti rispetto a quelli prelevati.

5.1 Orbene, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), nella versione ratione temporis vigente, prevede che per l’adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono “invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti, anche relativamente ai rapporti ed alle operazioni, i cui dati, notizie e documenti siano stati acquisiti a norma del numero 7), ovvero rilevati a norma dell’art. 33, commi 2 e 3, o acquisiti ai sensi del D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, art. 18, comma 3, lett. b)” e che “i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma dell’art. 33, comma 2, n. 7) e comma 3, o acquisiti ai sensi del D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, art. 18, comma 3, lett. b), sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi (o compensi) a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni. Le richieste fatte e le risposte ricevute devono risultare da verbale sottoscritto anche dal contribuente o dal suo rappresentante; in mancanza deve essere indicato il motivo della mancata sottoscrizione. Il contribuente ha diritto ad avere copia del verbale”.

Tale disposizione prevedeva e prevede tuttora, sia pure con alcuni limiti, come si vedrà, una presunzione legale in base alla quale le operazioni su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi, sicchè spetta al contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, dando analitica giustificazione di tali impieghi e dimostrando che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, se vuole impedire che i corrispondenti importi vengano considerati ex lege come redditi da assoggettare ad imposta (cfr., con riferimento alle imposte dirette: Cass. sez. 5, 21/3/2008, n. 7766; Cass., sez. 5, 26/2/2009, n. 4589; Cass., sez. 5, 4/8/2010 n. 18081, secondo cui il contribuente “deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuale sia estranea a falli imponibili”, Cass., sez. 5, 12/12/2012, N. 15217). Tale prova deve dunque essere sottoposta ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purchè grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative (Cass., Sez. 6-5, del 05/05/2017 n. 11102; Cass., sez. 5, 04/04/2018, n. 8266).

5.2 Con la modifica al penultimo capoverso del citato art. 32, comma 1, n. 2), introdotta dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, art. 7-quater convertito con modificazioni dalla L. 1 dicembre 2016, n. 225, ed entrata in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, ossia a decorrere dal 3 dicembre 2016, come disposto dall’art. 1, la presunzione in questione è stata circoscritta ai soli prelevamenti o importi riscossi “per importi superiori a Euro 1.000 giornalieri e, comunque, a Euro 5.000 mensili”.

Questa Corte ha sul punto già avuto modo di affermare (vedi, in termini, Cass., sez. 6-T, 21/10/2019, n. 26683, non massimata) l’efficacia irretroattiva della disposizione in esame, arguendola non soltanto dall’assenza di precise specificazioni al riguardo, come chiesto dagli artt. 10 e 11 delle disp. gen. (Corte Cost. 21/06/2017, n. 193; nello stesso senso Corte Cost. 25/10/2017, n. 257; Cass., sez. 5, 23/02/2018, n. 4407; Cass., sez. L., 06/10/2017, n. 23424; Cass., sez. 5, 30/05/2017, n. 3597), ma anche dalla natura sostanziale-procedimentale e non processuale della novella, propria in generale della materia delle presunzioni, abitualmente collocate nel codice civile (si veda in proposito, Cass., sez. 5, 31/10/2018, n. 27845, con riferimento alla modifica dell’art. 32 cit., intervenuta con la L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a, n. 1, punto 1.2, oggetto di parziale declaratoria di legittimità costituzionale per effetto della sentenza del 6/10/2014, n. 228, che si è pronunciata in tema di indagini bancarie in relazione alla presunzione legale relativa in favore dell’Amministrazione con riguardo ai versamenti effettuati su un conto corrente anche dai professionisti e dai lavoratori autonomi), oltrechè dalla sua portata spiccatamente innovativa, non potendosi attribuire alla stessa natura interpretativa, nè il senso di possibile variante di significato della norma precedente, stante l’assenza di pregressi limiti quantitativi e la chiarezza di quelli introdotti successivamente, e dall’assenza di adeguati motivi di interesse generale o di ragioni imperative che potrebbero giustificare, in assenza di previsioni, la sua portata retroattiva, non essendo i limiti introdotti favorevoli alle ragioni del Fisco e dunque della collettività.

Tali considerazioni sono state la conseguenza della disamina, operata da questa Corte con la citata pronuncia, dei principi sanciti in materia di irretroattività delle norme dalla Corte di giustizia (Grande Sezione, 06/09/2011, C-108/10, Ivana Scattolon, p. 83), dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (che riconduce il principio all’art. 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; vedi Corte EDU, 09/12/1994, Raffineries greques Stran et Stratis Andreadis c. Grecia, p. 37-50; Corte EDU, 22/10/1997, Papageorgiou c. Grecia, p.37; Corte EDU, 08/11/1997, Agrati c. Italia, p.11, secondo cui la retroattività di una norma è giustificabile soltanto quando obbedisca a ragioni imperative di interesse generale) e dalla Corte Cost., la quale si è ripetutamente espressa nel senso che il divieto di retroattività, pur non elevato al rango di dignità costituzionale, costituisce fondamentale valore di civiltà giuridica, sicchè la retroattività di una norma non soltanto deve essere espressamente prevista, ma, al fine di superare il vaglio di costituzionalità, deve altresì trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza ed essere sostenuta da adeguati motivi di interesse generale (vedi Cass., sez. 2, 11/01/2016, n. 232; Cass., sez. u., 03/12/2014, n. 69, e Cass., sez. 5, 20/01/2012, n. 264), e che “va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo” (Cass., sez. 3, 08/01/2016, n. 132, e Cass., sez. L., 15/01/1993, n. 424), potendo il legislatore “adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore” (ex plurimis: Cass., sez. 2, 11/01/2016, n. 232, Cass., sez. 6-1, 08/01/2013, n. 314; Cass., sez. 5, 12/01/2012, n. 15; Cass., sez. 1, 07/01/2011, n. 271).

5.3 Questo orientamento, cui questa Corte intende dare continuità, consente di reputare infondato il motivo di doglianza che vorrebbe applicabile alla fattispecie in esame le nuove disposizioni e i limiti all’applicabilità della presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2), cit. in esse previsti, ove si consideri che l’avviso, riferito peraltro all’anno 2010, è stato notificato il 6 novembre 2014, ben prima che entrasse in vigore la disposizione di cui alla legge di conversione del D.L. n. 193 del 2016, il 3 dicembre 2016, ossia il giorno dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale.

E’ dunque evidente che, nella vigenza della pregressa disciplina, il contribuente avrebbe dovuto fornire analitica giustificazione per ogni operazione bancaria eseguita e non soltanto per quelle di importo superiore rispetto ai limiti introdotti nel 2016.

Orbene, il ricorrente, nel censurare la pronuncia della C.T.R. in quanto aveva ritenuto che dovessero essere conteggiati nel reddito di impresa i prelevamento collegati a bonifici o assegni, siccome in contrasto con l’art. 32, comma 1, nella parte in cui si riferisce anche agli “importi riscossi”, non si confronta con quanto espressamente evidenziato nella parte motiva dai giudici di merito, i quali hanno affermato che “le residue operazioni di prelievo dal conto corrente, al netto delle decurtazioni operate dai giudici di prime cure” erano “riferite solo a prelevamenti collegati esclusivamente ad assegni o bonifici”, da imputare a ricavi non in ragione delle modalità del prelievo, come sostenuto in ricorso, ma in quanto il contribuente non aveva dimostrato che gli stessi si riferivano “a operazioni non imponibili” o di cui aveva “tenuto conto in dichiarazione” e dunque per non avere assolto l’onere probatorio su di lui gravante.

Per quanto detto, il motivo deve reputarsi infondato.

6. Il secondo motivo è inammissibile.

La questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l’applicazione della norma medesima, non può, infatti, costituire oggetto di un’autonoma istanza rispetto alla quale, in difetto di esame, sia configurabile un vizio di omessa pronuncia, nè tantomeno, come avvenuto nella specie, un vizio di motivazione denunciabile con il ricorso per cassazione (cfr. Cass., sez. 5, 19/01/2018, n. 1311). Il vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in particolare, attenendo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, in quanto, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., sez. u., 07/04/2014, n. 8053), può essere proposto esclusivamente con riferimento all’accertamento ed alla valutazione dei fatti operati dal giudice di merito, ma non anche con riguardo ad una questione di legittimità costituzionale, costituendo questa questione di diritto, la quale può essere sollevata d’ufficio dalla Corte di cassazione se non sia ritenuta manifestamente infondata, indipendentemente dai difetti formali nei quali sia incorso il giudice di merito nella sua argomentazione (vedi Cass., sez. L., 22/07/2010, n. 17224).

E poichè nella specie il ricorrente si è limitato a lamentare l’omessa estensione al piccolo imprenditore artigiano della disciplina riguardante, in materia, i professionisti e a sollecitare comunque la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale sul punto, è evidente che il motivo di doglianza, la cui riconducibilità all’art. 360 c.p.c., n. 5 per come articolato, è indubbia, indipendentemente dalla qualificazione, peraltro nei medesimi termini, ad esso attribuita (cfr. Cass., sez. 5, 10/09/2020, n. 18770), nulla ha a che vedere con il mancato esame di un fatto storico che avrebbe indirizzato diversamente il giudizio finale della C.T.R..

Da ciò discende l’inammissibilità del motivo.

7. Il terzo motivo è parimenti inammissibile.

Nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, (applicabile, ai sensi del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (per tutte, Cass., sez. 1, 22/12/2016, n. 26774; Cass., sez. L., 06/08/2019, n. 20994).

Il ricorrente non si attenuto al predetto principio, essendosi limitato a lamentare l’avvenuta mancata valutazione, da parte del giudice di secondo grado, dei costi sostenuti.

Per questo motivo, va dichiarata l’inammissibilità della censura.

8. Le spese di causa, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 8 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2020

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