Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27791 del 04/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 04/12/2020, (ud. 08/09/2020, dep. 04/12/2020), n.27791

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27320-2016 proposto da:

R.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ARIODANTE

FABRETTI 8, presso lo studio dell’avvocato DESIDERIA BOGGETTI, che

lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIUSEPPE CARRETTO,

ALESSANDRA RICCIARDI, ANTONIO LERICI, ALESSANDRO LEPROUX;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 611/2016 della COMM.TRIB.REG. di GENOVA,

depositata il 20/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/09/2020 dal Consigliere Dott. VALERIA PIRARI.

Per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale di Genova, sez. 2, n. 611, depositata in data il 20 aprile

2016.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 8

settembre 2020 dal Relatore Dott.ssa Valeria Pirari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La società Gheghe s.r.l., di cui il ricorrente era socio minoritario per la quota pari al 28% del capitale sociale dalla data della sua costituzione fino alla sua cancellazione, avvenuta il 1/2/2010 (previa delibera di scioglimento del 15/05/2008), aveva ad oggetto l’attività di ristorazione, somministrazione di bevande e di intrattenimento danzante ed era anche titolare di tre distinti rami aziendali, da tempo concessi in affitto a terzi, che erano stati oggetto di due distinti atti di cessione, in data 27/04/2007, quanto alla ristorazione, e in data 9/5/2008, quanto alla somministrazione di alimenti e bevande, per i corrispettivi dichiarati rispettivamente di Euro 15.000,00 e 20.000,00. Tali valori furono rettificati dall’Ufficio 1 di Genova ai fini della determinazione dell’imposta di registro, stante la notevole differenza esistente tra il valore di locazione e quello attribuito in sede di cessione, attraverso il ricalcolo al rialzo del valore di avviamento, senza che gli avvisi di rettifica, notificati al liquidatore della società, venissero impugnati, e, di seguito, valutati dalla Direzione provinciale di Genova al fine della tassazione delle plusvalenze realizzate. Fissata la data per l’instaurazione del contraddittorio senza che l’ex amministratore unico e poi liquidatore e i due soci si presentassero, l’Agenzia delle entrate, dopo avere proceduto alla ricostruzione della plusvalenza realizzata con le due cessioni, al ricalcolo del valore normale delle due aziende e alla rettifica del reddito d’impresa, notificò, in data 25/6/2012, all’ex amministratore e poi liquidatore e ai due soci, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 siccome risultavano avere occultato attività sociali anche mediante omissioni nelle scritture contabili, due avvisi di accertamento ai fini Ires per l’anno 2007 e n. per l’anno 2008, nonchè due atti impositivi per il reddito di partecipazione per il 2007 e per il 2008.

Impugnati dal contribuente gli avvisi di accertamento notificatigli ai fini Ires a carico della società e gli avvisi di accertamento ai fini Irpef, la Commissione tributaria provinciale di Genova, respinse i ricorsi proposti con quattro distinte sentenze, che furono confermate dalla Commissione tributaria regionale di Genova, adita dal medesimo, previa riunione dei ricorsi.

2. Contro la sentenza emessa dal giudice d’appello, il contribuente propone ricorso per cassazione affidandolo a quattro motivi. L’Agenzia delle entrate si costituisce in giudizio con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso, il contribuente lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2495 c.c., comma 2, e D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 36, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere il giudice d’appello ritenuto esistenti e dunque legittimi gli avvisi di accertamento emessi a carico della società, benchè la relativa notificazione fosse avvenuta nei confronti degli ex soci, quali successori ex lege nei rapporti giuridici della non più esistente società, ormai estinta. Ad avviso del contribuente, invero, la cancellazione della società, cui consegue ex art. 2495 c.c. l’estinzione della stessa, non dà luogo ad un fenomeno successorio, ma ad un indebito arricchimento del socio che abbia ricevuto, nei due anni antecedenti la messa in liquidazione, valori che non avrebbe dovuto ricevere se la società avesse pagato le imposte dovute, e fa altresì sorgere, in capo ai creditori, una nuova azione contro gli ex soci, i liquidatori e gli amministratori, diversa da quella proposta o proponibile da terzi e creditori verso la società, facendone derivare la carenza di legittimazione passiva dell’ex socio, in quanto non successore nelle obbligazioni sociali.

2. Con il secondo motivo, subordinato al primo, il contribuente lamenta l’omessa pronuncia sulla “carenza di legittimazione passiva del sig. R.M.”, eccepita (sia per l’annualità 2007 che per il 2008) in entrambi i gradi del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e la conseguente violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2495 c.c., comma 2, e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 36, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e all’art. 2697 cod. proc., in quanto la C.T.R., in relazione a rapporti sociali riguardanti la società cancellata e dunque estinta, si era limitata a ricostruire il fenomeno della responsabilità del socio in termini di successione universale ex lege, ma non aveva affrontato le questioni sollevate in entrambi i gradi del giudizio circa il difetto di legittimazione passiva in capo all’ex socio sotto il profilo del presupposto soggettivo richiesto per l’applicazione del citato art. 36. La C.T.R. aveva infatti trascurato il fatto che per i debiti rimasti insoddisfatti l’Amministrazione, dopo la cancellazione della società, può rivolgersi nei confronti dei soci soltanto nella misura in cui questi abbiano riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione e aveva omesso perciò di verificare la sussistenza dei presupposti soggettivi fondanti la propria legittimazione passiva (ossia l’avere ricevuto beni sociali o denari in assegnazione dall’amministratore nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione o beni in assegnazione dal liquidatore durante il tempo della liquidazione, sulla base del bilancio finale di liquidazione redatto e non presunto, ovvero l’essere stato amministratore o liquidatore, con responsabilità in caso di pagamento per sua colpa).

3. Con il terzo motivo, si lamenta l’omessa pronuncia sulla domanda avente ad oggetto la “violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 36 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), in relazione all’insussistenza, in capo al ricorrente, del presupposto oggettivo della responsabilità dell’ex socio, il quale richiede che la pretesa erariale abbia riguardo alle imposte sui redditi e sia connotata dal carattere della definitività, stante l’espressione “imposte dovute” contenuta nell’art. 36, comma 3. Il ricorrente ha sul punto evidenziato come la responsabilità dell’ex socio non sia dunque configurabile in caso di crediti erariali basati su atti sub iudice alla data della cancellazione della società (e a maggior ragione per quelli successivi) e come la prova della sussistenza di tale presupposto, così come di quello soggettivo, gravi sull’Ufficio, prova che, nella specie, non era stata in alcun modo fornita.

4. Con il quarto motivo, infine, il contribuente lamenta la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 44, comma 1, lett. e), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che gli accertamenti Irpef fossero illegittimi in quanto emessi in seguito ad altro atto inesistente, quello formato e notificato alla società cancellata dal registro delle imprese. Ad avviso del ricorrente, infatti, ai fini della operatività della presunzione semplice di attribuzione ai soci di utili extracontabili accertati, è necessario che sia accertata non soltanto la ristretta base sociale e/o familiare della società (e cioè il fatto noto a base della presunzione), ma anche la sussistenza di ricavi non contabilizzati da parte di quest’ultima, costituendo tale verifica il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi.

5.1 I motivi, da esaminare congiuntamente in quanto sostanzialmente afferenti a una stessa censura, sono infondati.

L’art. 2495 c.c., comma 2, stabilisce, per quanto qui interessa, che i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci della società estinta, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, mentre, con specifico riguardo all’Ires, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 36, comma 3, analogamente alla disposizione codicistica, ancora la responsabilità dei soci al fatto che abbiano ricevuto denaro o altri beni sociali dagli amministratori, nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione, ovvero beni sociali in assegnazione dai liquidatori, durante il tempo della liquidazione, differenziandosi le due disposizioni, tra loro in rapporto di genere a specie, unicamente in relazione al lasso temporale entro cui le attribuzioni ai soci possono rilevare ai fini della loro assunzione di responsabilità.

Come affermato dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass., Sez. U., 22/02/2010, n. 4060), la cancellazione delle società di persone e di capitali dal registro delle imprese, se successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, che ha modificato l’art. 2495 c.c., comma 2, attribuendole efficacia costitutiva, determina l’immediata estinzione della società, indipendentemente dall’esaurimento dei rapporti giuridici ad essa facenti capo. In seguito all’estinzione della società, non si determina però anche l’estinzione dei debiti insoddisfatti, ma si verifica un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono – il che sacrificherebbe ingiustamente i diritto dei creditori sociali – ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti pendente societate e dunque a seconda che essi fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per debiti sociali, così come si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, nè i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato (Cass., Sez. U., 12/03/2013, n. 6070; Cass., Sez. U., 2013, n. 6071).

5.2 L’estinzione della società non elimina, perciò, la legittimazione “in proprio” degli ex soci, che, a seguito dell’estinzione delle società, subentrano nella legittimazione processuale facente capo agli enti (Cass. Sez. U, n. 6070 del 12/3/2013) e, trattandosi nel caso di specie di società di capitali, rispondono dell’obbligazione delle società, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione.

Vertendosi però in tema di ricavi occultati e dunque non rilevabili documentalmente, non erano necessarie rilevazioni particolari ai fini dei requisiti di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36 (in tal senso, vedi Cass., 20/06/2019, n. 16546, non massimata) e in ragione di ciò i motivi di doglianza devono ritenersi infondati e dunque da respingere.

8. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 8 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2020

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