Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27782 del 04/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 04/12/2020, (ud. 14/07/2020, dep. 04/12/2020), n.27782

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26611/2013 R.G. proposto da:

S.P., rappresentato e difeso, per procura speciale in

atti, dall’Avv. Donato Mondelli, con domicilio eletto presso lo

studio di quest’ultimo in Roma, Corso Trieste, n. 109;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore Generale pro tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

con domicilio in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Puglia n. 101/25/13, depositata il 9 aprile 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 luglio

2020 dal Consigliere Michele Cataldi.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle Entrate ha notificato all’Avv. S.P. un avviso d’accertamento, in materia di Irpef, Irap ed Iva, relativo all’anno d’imposta 2006, con il quale, all’esito delle indagini finanziarie di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, e previo contraddittorio con il contribuente, ha induttivamente imputato a quest’ultimo l’omessa contabilizzazione di compensi non dichiarati, recuperando a tassazione il maggior reddito imponibile ai fini delle imposte dirette e l’Iva non versata.

2. Il contribuente ha proposto ricorso avverso l’accertamento dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Foggia, che lo ha accolto, dichiarando la nullità dell’accertamento per la violazione del termine dilatorio di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7.

3. L’Ufficio ha impugnato quindi la sentenza di primo grado dinnanzi la Commissione tributaria regionale della Puglia che, con la sentenza n. 101/25/2013, depositata in data 9 aprile 2013, ha accolto l’appello, riformando quindi la sentenza impugnata e confermando l’accertamento controverso.

4. Il contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della predetta sentenza d’appello, affidato a sei motivi.

5. L’Ufficio si è costituito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo e con il secondo motivo di ricorso, sostanzialmente sovrapponibili, il contribuente ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, assumendo la nullità dell’atto impositivo per essere stato emesso prima che scadesse il termine dilatorio dettato da tale disposizione.

I motivi sono infondati.

Infatti, il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non opera nell’ipotesi di accertamenti cd. “a tavolino”, salvo che riguardino tributi “armonizzati” (Cass. 29/10/2018, n. 27420; cfr. Cass., Sez. U., 9 dicembre 2015 n. 24823), ma esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente (Cass. 19/10/2017, n. 24636), circostanza che non risulta ricorra nel caso di specie.

Va, quindi, esclusa la pretesa nullità dell’atto impugnato, relativamente alle imposte (Irpef ed Irap) non armonizzate che esso ha accertato ” a tavolino”.

Allo stesso modo va esclusa la nullità dell’accertamento anche relativamente all’Iva, posto che, per i tributi “armonizzati”, ove la normativa interna non preveda l’obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa (ad es., nel caso di accertamenti cd. a tavolino), il giudice tributario è tenuto ad effettuare una concreta valutazione ex post sul rispetto del contraddittorio, mediante la “prova di resistenza” dell’accertamento, quindi sanzionando con la nullità l’atto impositivo emesso ante tempus solo qualora il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto far valere ove il termine fosse stato rispettato, e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Cass. 15/01/2019, n. 701; Cass. 11/09/2019, n. 22644; Cass., Sez. U., 09/12/2015, n. 24823). Infatti, nel caso di specie, nel corpo dei due motivi in esame, il ricorrente contribuente non ha allegato specifici argomenti o documenti che la violazione del termine dilatorio gli abbia precluso di introdurre nel contraddittorio precedente all’emissione dell’accertamento e che, ove fossero stati invece introdotti, avrebbero potuto determinare, in ragione di una valutazione ex post, un contenuto diverso dell’atto impositivo, in materia d’Iva. Tanto meno, poi, negli stessi motivi e sempre con riferimento ai rilievi in tema d’Iva, il ricorrente ha evidenziato puntualmente una concreta lesione del suo diritto a difendersi in giudizio (infatti ampiamente esercitato, anche nel merito).

2. Con il terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il contribuente censura la sentenza impugnata per omessa pronuncia in ordine a due pretesi vizi dell’atto impositivo, oggetto del ricorso di primo grado e riproposti dal contribuente nelle controdeduzioni in appello, relativi alla nullità dell’accertamento per carente e contraddittoria motivazione dello stesso ed alla sua illegittimità per la mancata redazione dei processi verbali di verifica e di constatazione.

Il motivo è infondato, atteso che la sentenza impugnata, pronunciandosi sul merito dell’atto impositivo, ha implicitamente rigettato le eccezioni del contribuente, che attingevano la legittimità formale dell’accertamento.

Peraltro, dalla lettura dei predetti motivi, così come riprodotti nel ricorso, emerge che il primo, piuttosto che vizi specifici della motivazione dell’accertamento, atteneva piuttosto alla contestazione della fondatezza dello stesso, e quindi al merito della pretesa tributaria, sul quale la CTR ha deciso; e che il secondo era incentrato sulla questione del rispetto del termine dilatorio nella fase precedente all’emissione dell’avviso, questione sulla quale la CTR si è pronunciata ed il ricorrente ha proposto i primi due motivi del ricorso per il quale si procede.

3. Con il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il contribuente censura la sentenza impugnata per l’omesso esame di documentazione che egli ha versato in atti nel giudizio di merito; con il quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il contribuente censura la sentenza impugnata per l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Premesso che, in relazione alla data di deposito della sentenza impugnata, deve applicarsi l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, i due motivi vanno trattati congiuntamente, per la loro sostanziale sovrapponibilità.

Infatti, il contenuto di entrambi è ammissibile nei limiti in cui abbia per oggetto l’assunto mancato esame, da parte del giudice a quo, di specifici fatti, decisivi per il giudizio, che siano stati oggetto del contraddittorio tra le parti nel giudizio di merito e che risultino da quei documenti che il ricorrente – in adempimento dell’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda – abbia puntualmente (e non collettivamente) individuato, con i dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 15/01/2019, n. 777) e con adeguata illustrazione degli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, al fine di evidenziarne la pretesa decisività (cfr. Cass. 21/05/2019, n. 13625). Inoltre, con riferimento alla specificctmateria del contendere, deve considerarsi che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili (Cass. 29/07/2016, n. 15857; conforme Cass. 30/12/2015, n. 26111, ex plurimis).

Relativamente ai documenti specificamente indicati (e parzialmente riprodotti) nel motivi di ricorso in questione, non ricorrono i predetti requisiti rispetto a quelli descritti come “11… relativo a contratti di locazione e fitti d’aziende principalmente riconducibili alla sig.ra Santoro… 12 relativo alle cospicue disponibilità finanziarie del…padre del ricorrente e della sua consorte… 13 compravendite immobiliari riconducibili al coniuge del ricorrente e di cui può rinvenirsi traccia nelle movimentazioni bancarie (doc. 61)…”.

Infatti, il ricorrente non evidenzia specificamente come, perchè ed eventualmente in che misura i predetti documenti dovrebbero interagire sugli esiti delle indagini finanziarie e comunque sull’accertamento di redditi che sono stati a lui ricondotti; nè chiarisce a quale delle varie operazioni contabili, sulle quali l’atto impositivo si fonda, i singoli documenti dovrebbero contrapporsi. Le medesime carenze, in ordine alla necessaria puntuale allegazione della sostenuta rilevanza decisiva della circostanza che si assume non esaminata, si riscontrano con riferimento alla documentazione (“doc. 14”) menzionata e riprodotta a pag. 58 del ricorso, relativa alla pretesa concessione di prestiti personali allo S..

Infatti – premesso che i documenti riprodotti ed invocati costituiscono mere dichiarazioni scritte provenienti dallo stesso contribuente, di per sè sole non idonee a provare le relative attribuzioni patrimoniali ed il loro titolo – anche in questo caso non viene illustrato specificamente a quale delle varie operazioni contabili, sulle quali l’atto impositivo si fonda, dovrebbero correlarsi i singoli prestiti; nè in che modo, ed in quale misura, questi ultimi avrebbero inciso sulla rilevata disponibilità finanziaria imputata al contribuente.

Tanto meno poi il vizio denunciato ricorre rispetto alla documentazione (“doc. 15″) relativa all’esito di giochi a premi (” scommesse “), ai quali avrebbe partecipato, vincendo, il contribuente, atteso che la sentenza impugnata li prende invece in esame, escludendone la rilevanza probatoria con accertamento in fatto non sindacabile in questa sede. Pertanto, sono inammissibili, e comunque infondati, i motivi in esame.

3.1. Deve tuttavia darsi atto che la Corte costituzionale, con la sentenza del 6 ottobre 2014, n. 228, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, come modificato dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), art. 1, comma 402, lett. a), n. 1, limitatamente alle parole “o compensi”.

All’esito di tale pronuncia del giudice delle leggi, questa Corte, con orientamento cui si intende dare continuità, ha ritenuto che “In tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti.” (Cass.16/11/2018, n. 29572. Nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 20/01/2017, n. 1519; Cass. 28/02/2017, n. 5152 e n. 5153; Cass. 09/08/2017, n. 19806; Cass. 09/08/2016, n. 16697 del 2016).

Tanto premesso in ordine all’interpretazione della portata della predetta sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, deve rilevarsi che l’effetto prodotto dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, nei limiti appena indicati, ha efficacia “retroattiva”, nel senso che si configura come ius superveniens, che “impone, anche nella fase di cassazione, la disapplicazione della norma dichiarata illegittima e l’applicazione della disciplina risultante dalla decisione anzidetta con l’ulteriore conseguenza che, ove la nuova situazione di diritto obiettivo derivata dalla sentenza d’incostituzionalità (…) richieda accertamenti di fatto non necessari alla stregua della precedente disciplina, questi debbono essere compiuti in sede di merito, al qual fine, ove il processo si trovi nella fase di cassazione, deve disporsi il rinvio della causa al giudice di appello.” (Cass. 19/04/1995, n. 4349; Cass. 21/06/2016, n. 12779; Cass. 09/08/2017, n. 19806, cit.), salvo il limite del giudicato, nella specie non sussistente, essendo tuttora controversa proprio l’efficacia istruttoria dei movimenti bancari, comprensivi dei prelevamenti, rilevati nell’ambito delle indagini finanziarie di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, citato art. 32, comma 1, n. 2.

Quanto poi alla concreta rilevanza, nella fattispecie controversa, della sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale – per effetto della quale il valore presuntivo, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, dei prelevamenti è stato circoscritto nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa – deve rilevarsi che è pacifico (come risulta dal controricorso) che nel caso di specie il contribuente svolge attività di lavoro autonomo e professionale e che il maggior reddito che gli è stato attribuito deriva da “compensi” non dichiarati.

Sul punto, quindi, la causa va rimessa al giudice a quo perchè proceda a nuovo giudizio, riesaminando la fattispecie nella fase di merito, alla luce della pronuncia della Corte costituzionale sopra richiamata e dei conseguenti principi di diritto elaborati da questa Corte.

4. Infine, è infondato il sesto motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con il quale il contribuente censura la sentenza impugnata per omessa pronuncia in ordine alla sua domanda, subordinata, di rideterminazione del quantum dell’accertamento in misura diversa ed inferiore, atteso che la CTR, accogliendo l’appello e confermando l’atto impositivo, con motivazione in ordine ai presupposti dello stesso, l’ha implicitamente rigettata.

PQM

Rigetta i motivi e, decidendo sul ricorso, in applicazione della sentenza della Corte Costituzionale del 6 ottobre 2014, n. 228, cassa la sentenza impugnata nei termini di cui in motivazione e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 dicembre 2020

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