Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27776 del 20/12/2011

Cassazione civile sez. II, 20/12/2011, (ud. 15/11/2011, dep. 20/12/2011), n.27776

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHETTINO Olindo – Presidente –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. PROTO Cesare Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6636/2006 proposto da:

P.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, LUNGOTEVERE A DA BRESCIA 9, presso lo studio dell’avvocato

ALESSANDRO SPINELLA, rappresentato e difeso dall’avvocato SEGRETO

Giuseppe;

– ricorrente –

contro

R.A. (OMISSIS), in proprio e nella qualità di

erede di T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

POMPEO MAGNO 1, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MANZULLO,

rappresentato e difeso dall’avvocato DI GRADO Giacomo;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3/2005 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 1/01/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/11/2011 dal Consigliere Dott. VINCENZO CORRENTI;

udito l’Avvocato DI GRADO Giacomo, difensore del resistente che ha

chiesto rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 24.7.1989 R.A. e T.A. convenivano davanti al Tribunale di Sciacca P.G. e, premesso che con atto 16.2.1969 in notaio Leotta di Ribera avevano trasferito un terreno ubicato in (OMISSIS), rispettivamente, il primo, la nuda proprietà e, la seconda , 1/2 dell’usufrutto, al convenuto, il quale vi aveva edificato un edificio, che prospettava su un loro limitrofo fondo, chiedevano che fosse dichiarata l’inesistenza di alcun diritto di natura reale e/o obbligatoria in favore del fondo venduto e la condanna del P. alla chiusura dell’apertura ed ai danni.

P. resisteva ed in via subordinata chiedeva fosse dichiarato che gli attori avevano costituito una servitù di passaggio a favore del suo immobile.

Con sentenza 8.6.1998 il giudice rigettava la domanda di negatoria servitutis, dichiarava assorbito l’esame della domanda del P. e compensava le spese, decisione riformata dalla Corte di appello di Palermo, con sentenza n. 3/2005. che, su appello del R., anche quale erede della T., dichiarava che il fondo del medesimo non è gravato da servitù di passaggio a favore del fabbricato e condannava il P. a chiudere l’apertura ed alle spese.

Premesso che la parte che agisce in negatoria servitutis non ha l’onere di fornire la prova rigorosa della proprietà ed incombe al convenuto provare l’esistenza del proprio diritto, la proprietà del R. poteva presumersi dall’atto di vendita 16.2.1969.

Successivamente con atto 30.12.1972 gli stessi R. e T. avevano venduto a P. una striscia di terreno retrostante al fabbricato di esso compratore della larghezza di metri tre e centimetri cinquanta, confinante da tre lati con retrostanti terreni dei venditori e dall’altro lato col compratore, con l’obbligo di quest’ultimo di destinare la striscia di terreno acquistata a pozzo luce o chiostrina con divieto di edificare detta superficie, a chiudere l’apertura a pianterreno lato nord con rinunzia a qualsiasi eventuale diritto scaturente dall’atto 15 febbraio 1969 nonchè a innalzare sino a due metri il muro della terrazza.

I venditori avevano conferito ali1 appellato il diritto di accesso da (OMISSIS) ed avuto riguardo alle planimetrie allegate alla ctu, se il (OMISSIS), oggi (OMISSIS) è ad est dell’edificio P., la striscia da destinare a pozzo luce è sul confine ovest.

Nessun elemento per mantenere l’apertura risultava dall’invocato atto 15.4.1980 col quale è stato costituito un diritto di passaggio ma non è stata indicata l’ubicazione della striscia di terreno.

Ricorre P. con unico motivo, resiste controparte.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo si lamenta omessa e contraddittoria motivazione in relazione agli atti indicati deducendo che se, da un lato, la corte di appello ha riconosciuto che, con la scrittura 15.4.1980 è stato costituto un diritto di passaggio a favore del P., dall’altro ha erroneamente ritenuto che detta striscia fosse da collocare lungo il confine situato a nord anzicchè a sud.

L’unica apertura che alla data della sottoscrizione della scrittura 15.4.1980 consentiva l’accesso del P. era ubicata lungo il lato sud. La censura, come proposta, non merita accoglimento.

La stessa sembra prospettare un errore revocatorio, irrilevante in questa sede, deduce omessa e contraddittoria motivazione senza tener conto della incompatibilità logica delle due ipotesi, non riporta, in violazione del principio di autosufficienza, gli atti indicati, non consentendo alcuna verifica della bontà delle tesi prospettate e, soprattutto, rispetto ad una decisione che si fonda sulla interpretazione delle scritture, denunzia solo il vizio di motivazione e non la violazione dell’art. 1362 c.c..

L’opera dell’interprete, mirando a determinare una realtà storica ed obiettiva, qual è la volontà delle parti espressa nel contratto, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dall’art. 1362 c.c., e segg., oltre che per vizi di motivazione nell’applicazione di essi; pertanto, onde far valere una violazione sotto entrambi i due cennati profili, il ricorrente per cassazione deve, non solfare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito siasi discostato dai canoni legali assuntivamente violati o questi abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.

Di conseguenza, ai fini dell’ammissibilità del motivo di ricorso sotto tale profilo prospettato, non può essere considerata idonea – anche ammesso ma non concesso lo si possa fare implicitamente – la mera critica del convincimento, cui quel giudice sia pervenuto, operata, come nella specie, mediante la mera ed apodittica contrapposizione d’una difforme interpretazione a quella desumibile dalla motivazione della sentenza impugnata, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (e pluribus, da ultimo, Cass. 9.8.04 n. 15381, 23.7.04 n. 13839, 21.7.04 n. 13579, 16.3.04 n. 5359, 19.1.04 n. 753).

Nè può utilmente invocarsi, come sembra, la mancata considerazione del comportamento delle parti.

Ad ulteriore specificazione del posto principio generale d’ordinazione gerarchica delle regole ermeneutiche, il legislatore ha, inoltre, attribuito, nell’ambito della stessa prima categoria, assorbente rilevanza al criterio indicato nell’art. 1362 c.c., comma 1 – eventualmente integrato da quello posto dal successivo art. 1363 c.c., per il caso di concorrenza d’una pluralità di clausole nella determinazione del pattuito – onde, qualora il giudice del merito abbia ritenuto il senso letterale delle espressioni utilizzate dagli stipulanti, eventualmente confrontato con la ratio complessiva d’una pluralità di clausole, idoneo a rivelare con chiarezza ed univocità la comune volontà degli stessi, cosicchè non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l’intento effettivo dei contraenti – ciò che è stato fatto nella specie dalla corte territoriale, con considerazioni sintetiche ma esaustive – detta operazione deve ritenersi utilmente compiuta, anche senza che si sia fatto ricorso al criterio sussidiario dell’art. 1362 c.c., comma 2, che attribuisce rilevanza ermeneutica al comportamento delle parti successivo alla stipulazione (Cass. 4.8.00 n. 10250, 18.7.00 n. 9438, 19.5.00 n. 6482, 11.8.99 n. 8590, 23.11.98 n. 11878, 23.2.98 n. 1940, 26.6.97 n. 5715, 16.6.97 n. 5389); non senza considerare, altresì, come detto comportamento, ove trattisi d’interpretare, come nella specie, atti soggetti alla forma scritta ad substantiam, non possa, in ogni caso, evidenziare una formazione del consenso al di fuori dell’atto scritto medesimo (Cass. 20.6.00 n. 7416, 21.6.99 n. 6214, 20.6.95 n. 6201, 11.4.92 n. 4474).

In definitiva il ricorso va rigettato, con la conseguente condanna alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese liquidate in Euro 2.200,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre accessori.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2011

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