Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27769 del 22/11/2017


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 27769 Anno 2017
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

SENTENZA
sul ricorso 997-2015 proposto da:
BASETTI SANI GUIDO, MISURI DANIELE, MANZOLI
DANIELA, PIERONI MAURO, SCARPI CECILIA, PETRINI
FABIO MASSIMO, MANETTI FRANCESCO, PARIGI
LEONARDO, PERICOLI STEFANO, TOZZETTI STEFANIA,
MANCINI ANNA, CASIONI LOREDANA, PERRELLI
FRANCESCO, MARADEI LUCIO, BERNARDINI ROBERTO,
LIDONNI VALERIA, ORVIETO ANTONELLA, BANDINI
FABRIZIO, DAL DOSSO MARCO, PASQUINI ELISABETTA,
FAVILLI SILVIA, GALLI LUISA, FIORENTINO PIETRO
GIUSEPPE, SALERNO ANTONIO, VENNI ANGELICA, PANI()
GRA/ANNI BATTISTA, TACCETTI GIOVANNI, BOTARELLI

Data pubblicazione: 22/11/2017

PATRIZIA, PUCCI NERI, CIARDO WALTER, NANNETTI
GIAN LUCA, AGOSTINO MARIA ROSARIA, TROMBETTI
ALESSANDRA, PETTENELLO CLAUDIO ALDO, ROMOLI
MAURIZIO, PINZAUTI ENRICO, FATTORINI LAMBERTO,
ROMAGNOLI PIETRO, GUIDONI GUIDO, GRAZZINI

NLkRZIA, DAVIDDI FABIO, PERICO ANDREA, RUFFINO
IRENE, MIGLIORINI PATRIZIA, PARPAGNOLI MARIA PIA,
VENERUSO GIUSEPPINA, RUBECA TIZIANA, PORCIATTI
AUGUSTO, NIAGHERINI MARZIO, elettivamente domiciliati in
Roma, viale delle Milizie n. 34, presso lo studio dell’Avvocato Fabio
Piacentini, che li rappresenta e difende, per procure speciali in calce al
ricorso, unitamente all’Avvocato Antonella Vergine;

– ricorrenti contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE,

in

persona del Ministro pro tempore domiciliato in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che lo
rappresenta e difende per legge;

– controricorrente avverso il decreto n. 800/2014 della Corte d’appello di Perugia,
depositato il 22 maggio 2014.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 5
ottobre 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti.

Ritenuto che, con ricorsi depositati presso la Corte d’appello di Perugia
nel 2012, i ricorrenti in epigrafe indicati chiedevano la condanna del
Ministero dell’economia e delle finanze al pagamento dell’indennizzo
Ric. 2015 n. 00997 sez. M2 – ud. 05-10-2016
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STEFANO, CALISTRI LUCIA, TURCO PATRICIA, MATUCCI

di cui alla legge n. 89 del 2001, per la irragionevole durata di un
giudizio amministrativo avente ad oggetto il diritto al trattamento
economico corrispondente alle mansioni svolte, iniziato dinnanzi al
TAR Lazio nel 1995 e definito nel 2012;
che l’adita Corte d’appello, rilevato che i ricorrenti, dopo aver

seguito alcuna attività, e che il TAR aveva rigettato la domanda sul
rilievo che la stessa poneva una sola questione, e cioè quella della
asserita illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 2 bis, del d.lgs. n.

502 del 1992, che era stata superata dalla giurisprudenza
amministrativa sin dal 1995, rigettava la domanda, dovendosi ritenere
che la stessa fosse stata presentata nella assoluta certezza della sua
infondatezza e con la speranza di una qualche modifica normativa nel
corso del giudizio; con la conseguenza che doveva escludersi la
sussistenza di un paterna d’animo indennizzabile;
che per la cassazione di questo decreto i ricorrenti in epigrafe indicati
hanno proposto ricorso sulla base di tre motivi, illustrati da successiva
memoria;
che l’intimato Ministero ha resistito con controricorso.

Considerato che con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione
e/o falsa applicazione dell’art. 2, comma 2 quinquies, della legge n. 89

del 2001, deducendo la erroneità del decreto impugnato per avere fatto
un’applicazione della legge n. 89 del 2001 non conforme alla lettera e
alla ratio della stessa, posto che le uniche e tassative ipotesi in cui non è
dovuto un equo indennizzo sono quelle previste dal citato art. 2,
comma 2 quinquies, non essendo consentito al giudice dell’equa

riparazione svolgere l’accertamento di temerarietà della domanda

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presentato un’istanza di prelievo nel 1996, non avevano svolto in

introdotta nel giudizio presupposto, trattandosi di compito riservato al
giudice di quel giudizio;
che con il secondo motivo i ricorrenti deducono ulteriore violazione
e/o falsa applicazione dell’art. 2, comma 2 quinquies della legge n. 89

del 2001, in relazione all’art. 116 cod. proc. civ., dolendosi del fatto che

dell’istanza di prelievo essi fossero rimasti inerti e che abbia altresì
desunto la temerarietà in via meramente presuntiva dall’esistenza di un
orientamento giurisprudenziale contrario alla pretesa, senza tuttavia
che sul punto l’amministrazione convenuta avesse formulato eccezioni
di sorta e senza che fosse dimostrata la consapevolezza in capo ad essi
della infondatezza della domanda;
che, d’altra parte, le sentenze citate nella pronuncia del TAR di rigetto
della domanda risalivano al 2005 e al 2006, sicché certamente doveva
escludersi che essi ricorrenti potessero essere consapevoli della
infondatezza al momento della domanda;
che con il terzo motivo i ricorrenti denunciano omesso esame di fatto
decisivo, sostenendo che la Corte d’appello non avrebbe preso in
considerazione la documentazione da essi prodotta, attestante lo
svolgimento di attività processuale, invece esclusa dal provvedimento
impugnato;
che il ricorso, i cui motivi possono essere esaminati congiuntamente
per ragioni di connessione, è infondato;
che questa Corte ha affermato il principio per cui «in tema
d’irragionevole durata del processo, l’elenco di cui all’art. 2, comma 2-

quinquies, della legge n. 89 del 2001 non è tassativo, sicché l’indennizzo
può essere negato a chi abbia agito o resistito temerariamente nel
giudizio presupposto, anche in assenza della condanna per
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la Corte d’appello abbia ritenuto che dopo l’inziale presentazione

responsabilità aggravata, a cui si riferisce la lett. a), potendo il giudice
del procedimento di equa riparazione, già prima delle modifiche di cui
alla legge n. 208 del 2015, autonomamente valutare la temerarietà della
lite, come si desume, peraltro, dalla lett. f), che attribuisce carattere
ostativo ad ogni altra ipotesi di abuso dei poteri processuali» (Cass. n.

che, pertanto, il giudice del procedimento ex lege n. 89 del 2001 può
valutare — e poteva farlo anche nella previgente disciplina applicabile

ratione temporis anche ipotesi di temerarietà che per qualunque ragione

nel processo presupposto non abbiano condotto ad una pronuncia di
condanna ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.;
che, d’altra parte, il richiamato orientamento giurisprudenziale è stato
sostanzialmente recepito dal legislatore il quale, con la legge n. 208 del
2015, ha modificato l’art. 2, comma 2 quinquies della legge n. 89 del

2001, prevedendo che «non è riconosciuto alcun indennizzo: a) in
favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole della
infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese,
anche fuori dai casi di cui all’articolo 96 del codice di procedura civile;

che, nel caso di specie, la Corte d’appello, prendendo in esame la
sentenza del TAR Lazio che ha definito il giudizio presupposto, ha
autonomamente apprezzato profili di temerarietà nella proposizione
della domanda; apprezzamento, questo, che, come rilevato, non è
certamente precluso dal fatto che nel giudizio presupposto non vi sia
stata condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.;
che le deduzioni dei ricorrenti svolte nel secondo motivo, con riguardo
alla circostanza che la sentenza resa dal TAR nel giudizio presupposto
avrebbe fatto riferimento a decisioni emesse nel 2005 e nel 2006, non
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9100 del 2016);

appare utilmente scrutinabile in questa sede, non rinvenendosi in atti la
detta sentenza;
che non è neanche condivisibile l’assunto dei ricorrenti per cui,
seguendo l’orientamento della Corte d’appello, si perverrebbe alla
conclusione che la proposizione di una domanda la quale postuli la

ciò solo temeraria;
che, al contrario, nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato «in
materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, la
parte del giudizio presupposto che, a fondamento della domanda ivi
svolta, abbia posto una questione di legittimità costituzionale della
disciplina applicabile, poi dichiarata manifestamente infondata dalla
Corte costituzionale, non ha diritto a essere indennizzata per l’ulteriore
protrazione del giudizio a quo, trattandosi di un’evenienza non
suscettibile di determinare alcun paterna d’animo in ordine all’esito
dello stesso» (Cass. n. 11828 del 2015);
che, dunque, è erroneo l’assunto dei ricorrenti secondo cui la mera
proposizione di una questione di legittimità costituzionale nel giudizio
presupposto varrebbe a connotare la domanda in quella sede azionata
come non temeraria;
che, quanto alla valutazione data dalla Corte d’appello sulla valenza
della istanza di prelievo depositata solo nel 2006, le censure dei
ricorrenti non appaiono idonee ad evidenziare la denunciata violazione
di legge, atteso che la Corte d’appello ha apprezzato come temeraria la
pretesa azionata nel giudizio presupposto e tale valutazione costituisce
all’evidenza la ratio decidendi del decreto impugnato;
che non può neanche ritenersi che sussista un obbligo per il giudice di
sottoporre, ai sensi dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. alle
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risoluzione di una questione di legittimità costituzionale, sarebbe per

parti la questione della temerarietà, concorrendo la mancanza di
temerarietà a consentire il riconoscimento del diritto all’equa
riparazione e quindi essendo liberamente valutabile dal giudice
dell’equa riparazione sulla base degli elementi probatori acquisiti al
giudizio;

testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (motivo, questo, formulato dal
ricorrente, il quale pur lamentando l’omesso esame di fatto decisivo,
svolge critiche all’apparato motivazionale del decreto della Corte
d’appello), atteso che tale decreto è stato depositato il 21 febbraio 2014
e ad esso si applica, appunto, l’art. 360, n. 5, come modificato dal
decreto-legge n. 83 del 2012, convertito dalla legge n. 134 del 2012 (sui
limiti di deducibilità dei vizi di motivazione, Cass., S.U., n. 8053 del
2014);
che, in conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente
condanna dei ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione;
che, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è
considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve
far luogo alla dichiarazione di cui al comma 1-quater dell’art. 13 del
testo unico approvato con il d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto
dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.

PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al
pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro
1.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI — 2 Sezione
civile della Corte suprema di cassazione, il 5 ottobre 2016.
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che il decreto impugnato non risulta poi censurabile ai sensi del nuovo

Il Presidente estensore

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