Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27755 del 03/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 03/12/2020, (ud. 26/02/2020, dep. 03/12/2020), n.27755

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17767-2017 proposto da:

S.P., + ALTRI OMESSI, tutti domiciliati in ROMA PIAZZA

CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentati e difesi dall’avvocato FERNANDO RIZZO;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITA’ “PAOLO GIACCONE” di (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, LARGO LUIGI ANTONELLI, n. 10, presso lo studio

dell’avvocato ANDREA COSTANZO, rappresentata e difesa dall’avvocato

MASSIMILIANO MARINELLI;

– controricorrente –

e contro

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO, in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla

VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 46/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 14/02/2017 R.G.N. 1648/14.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Palermo, in accoglimento dell’appello principale proposto dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Paolo Giaccone, ha riformato parzialmente la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto, in parte, le domande formulate da S.P., + ALTRI OMESSI nonchè da altri litisconsorti che alla pronuncia d’appello hanno prestato acquiescenza, e aveva condannato l’Azienda Ospedaliera e l’Università degli Studi di Palermo a corrispondere a ciascun ricorrente le somme indicate in dispositivo a titolo, così si legge nella sentenza qui gravata, di “differenze della retribuzione, parte variabile, eccedente il minimo contrattuale e della retribuzione di risultato, dovute per i periodi in cui hanno svolto incarichi dirigenziali”, respingendo per il resto il ricorso;

2. la Corte territoriale ha premesso che gli originari ricorrenti, tutti dipendenti dell’Università, inquadrati nelle categorie C, D e EP ed impiegati presso il Policlinico Universitario ai sensi del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 avevano ricoperto incarichi dirigenziali nei periodi per ciascuno indicati nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado ed avevano agito per ottenere, oltre alle differenze inerenti la retribuzione di posizione, parte variabile, e quella di risultato, l’accertamento del diritto a svolgere funzioni dirigenziali e la conseguente condanna delle amministrazioni convenute anche al risarcimento del danno per i periodi in cui erano stati privati degli incarichi che agli stessi, invece, dovevano essere necessariamente conferiti;

3. il giudice d’appello ha escluso la fondatezza del gravame incidentale, con il quale era stata riproposta quest’ultima domanda rigettata dal Tribunale, ed ha evidenziato che il legislatore ha disposto la sola equiparazione economica del personale universitario a quello di pari funzioni, mansioni ed anzianità in servizio presso le Unità Sanitarie Locali, ma non ha inteso riconoscere ai dipendenti inquadrati in categorie impiegatizie il diritto ad essere destinatari di incarichi dirigenziali;

4. la contrattazione integrativa ed il regolamento inerente la graduazione, l’affidamento e la revoca degli incarichi dirigenziali, nella parte in cui avevano previsto il diritto al conferimento di un incarico, si riferivano unicamente al personale con qualifica di dirigente e, pertanto, gli originari ricorrenti non potevano avanzare alcuna pretesa per il futuro nè, per il passato, domandare differenze retributive ed il risarcimento del danno in relazione a periodi nei quali non avevano espletato mansioni riconducibili ad una posizione dirigenziale;

5. sulla base di dette considerazioni la Corte territoriale ha ritenuto parzialmente fondato l’appello principale, del quale ha escluso l’eccepita inammissibilità, ed ha rilevato che le somme riconosciute dal Tribunale a titolo di differenze sulla retribuzione di risultato andavano rideterminate nei termini indicati in dispositivo, tenendo conto di quanto calcolato dal CTU e dei limiti temporali di svolgimento degli incarichi dirigenziali indicati dagli stessi ricorrenti;

6. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso i litisconsorti indicati in epigrafe affidato a sei motivi, illustrati da memoria, ai quali hanno opposto difese con tempestivo controricorso l’Università degli studi di Palermo e l’Azienda Ospedaliera Universitaria Paolo Giaccone.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,346 e 342 c.p.c. ed assumono che non era in contestazione fra le parti la spettanza del diritto a percepire la retribuzione di risultato, pacificamente corrisposta dall’Azienda;

1.1. precisano che le differenze erano state domandate sul presupposto che il fondo aziendale dovesse essere diversamente costituito, ossia tenendo conto anche della quota del monte salari relativa al trattamento economico fondamentale corrisposto dall’Università;

1.2. addebitano alla Corte territoriale di avere violato il principio di necessaria corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato, per di più in assenza di impugnazione, giacchè il motivo di gravame formulato dall’Azienda si riferiva unicamente alla retribuzione di posizione, parte variabile, e doveva essere dichiarato inammissibile per carenza di interesse ad impugnare, non avendo il Tribunale riconosciuto alcunchè a detto titolo;

2. la seconda censura, ricondotta all’art. 360 c.p.c., n. 3 lamenta la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e dell’allegato D al D.L. 9 novembre 1982, del c.c.n.l. in materia di retribuzione di risultato (art. 35 del CCNL 1998-2001 area dirigenza III, art. 33 del c.c.n.l. 2002-2005 area dirigenza III, artt. 61 e 62 del CCNL 1994/1997) e degli artt. 1362 c.c. e ss. in riferimento al Regolamento aziendale in tema di retribuzione di risultato nonchè dell’art. 10, comma 3, dei Protocolli di Intesa tra Regione Sicilia e Università di Palermo del 10.12.2003 pubblicati in G.U.R.S. n. 3 del 14.1.2004”;

2.1. si sostiene che il diritto all’equiparazione economica prescinde dall’effettivo svolgimento delle mansioni dirigenziali, in quanto fondato sulla sola comparazione fra qualifiche, tanto che la stessa Azienda aveva provveduto a corrispondere un acconto della retribuzione di risultato anche per i periodi in cui i dipendenti dell’Università non erano stati destinatari di alcun incarico;

2.2. ad avviso dei ricorrenti la contrattazione collettiva nazionale prevede che la retribuzione di risultato debba essere attribuita a tutto il personale dirigenziale e nello stesso senso si esprime il regolamento aziendale, nella parte in cui impone l’assegnazione di un progetto ad ogni struttura o ufficio dell’azienda e stabilisce, poi, i criteri per la quantificazione del compenso spettante, sulla base dell’effettivo raggiungimento dell’obiettivo assegnato alla struttura stessa, anche ai dipendenti che non rivestano la qualifica di dirigente;

3. con la terza censura, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è denunciata la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 degli artt. 1362 c.c. e ss. in riferimento al Regolamento aziendale in tema di conferimenti incarichi ed al c.c.I.A.A. 2002/2005 artt. 1 e 25 e c.c.I.A.A. 2006/2009 artt. 1 e 24, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19 nonchè degli artt. 1175 e 1375 c.c.”, perchè l’equiparazione non poteva essere limitata al solo trattamento economico, in quanto, al contrario, la contrattazione integrativa estende espressamente l’efficacia di tutte le disposizioni contrattuali al personale universitario equiparato a quello con qualifica dirigenziale e prevede, altresì, che quest’ultimo debba essere valutato nel rispetto dei medesimi criteri previsti per i dirigenti;

3.1. i ricorrenti sostengono, in sintesi, che la controversia doveva essere decisa dal giudice d’appello sulla base dei medesimi principi affermati da questa Corte nell’interpretare il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19 e, pertanto, andava riconosciuto il loro diritto ad essere quantomeno valutati ai fini del conferimento dell’incarico, con la conseguenza che doveva essere ravvisato un inadempimento contrattuale, causa di danno risarcibile, nella condotta dell’amministrazione che, violando i canoni di correttezza e buona fede, li aveva lasciati privi di un incarico dirigenziale;

4. il quarto motivo denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione e falsa applicazione degli artt. 325,333,334 e 436 c.p.c. nonchè dell’art. 2909 c.c. perchè, in assenza di impugnazione principale o incidentale da parte dell’Università di Palermo, che il Tribunale aveva condannato in via solidale al pagamento, non poteva la Corte territoriale modificare la statuizione anche nei confronti dell’obbligato solidale non impugnante, atteso che quest’ultimo, in ragione dell’autonomia ed indipendenza dei rapporti sostanziali, non poteva giovarsi dell’appello proposto dall’Azienda Ospedaliera;

5. il quinto ed il sesto motivo addebitano alla sentenza impugnata l’omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 5, ravvisato nel mancato esame della documentazione, attestante lo svolgimento delle funzioni dirigenziali, allegata alle osservazioni critiche formulate ex art. 195 c.p.c., comma 3, depositate dal consulente tecnico d’ufficio unitamente alla relazione peritale;

6. preliminarmente occorre rilevare che la sentenza gravata è passata in giudicato nei confronti degli originari ricorrenti, poi appellanti incidentali, che alla stessa hanno prestato acquiescenza;

6.1. va ribadito, infatti, che “in caso di domande di identico contenuto proposte, con unico atto, da diversi lavoratori contro un medesimo datore di lavoro, si verifica una situazione di litisconsorzio facoltativo improprio, in quanto, pur nell’identità delle questioni, permane autonomia dei rispettivi titoli, dei rapporti giuridici e delle singole causae petendi, con la conseguenza che le cause, per loro natura scindibili, restano distinte, con una propria individualità in relazione ai rispettivi legittimi contraddittori e con l’ulteriore conseguenza che la sentenza che le definisce – sebbene formalmente unica – consta in realtà di tante pronunzie quante sono le cause riunite, le quali conservano la loro autonomia anche ai fini delle successive impugnazioni ” (Cass. n. 8570/2016 e la giurisprudenza ivi richiamata);

7. è fondata, quanto al primo motivo di ricorso, l’eccezione di inammissibilità sollevata dalle controricorrenti, perchè la censura è formulata senza il necessario rispetto dell’onere di “specifica indicazione” imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6;

7.1. il requisito previsto dalla richiamata disposizione deve essere verificato anche in caso di denuncia di errores in procedendo, rispetto ai quali la Corte è giudice del “fatto processuale”, perchè l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);

7.2. la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perchè la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (cfr. fra le più recenti Cass. S.U. n. 20181/2019 e Cass. n. 20924/2019);

7.3. non è sufficiente che il ricorrente assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5 richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento o dell’atto la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (sulla non sovrapponibilità dei due requisiti cfr. fra le tante Cass. n. 19048/2016);

7.4. il ricorso non riporta, quantomeno nelle parti rilevanti, il contenuto degli atti processuali necessari per valutare la fondatezza della censura (ricorso introduttivo, sentenza di primo grado, appello principale e incidentale), atti che non risultano depositati ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 e rispetto ai quali manca anche la “specifica indicazione” della loro allocazione nei fascicoli, di parte o d’ufficio, dei precedenti gradi del giudizio di merito;

7.5. al riguardo va ribadito che il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, l’onere della produzione è soddisfatto, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, a quelli inserito nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, opera a condizione che venga soddisfatta l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Cass. S.U. n. 22.726/2011);

8. il secondo ed il terzo motivo di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logico-giuridica, sono inammissibili nella parte in cui si dolgono della violazione della contrattazione integrativa, del regolamento aziendale e dei protocolli di intesa tra Regione Sicilia e Università di Palermo del 10.12.2003;

8.1. l’art. 360 c.p.c., n. 3 si riferisce ai contratti collettivi nazionali di lavoro sicchè per i contratti integrativi la denuncia in sede di legittimità può riguardare solo la violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale (cfr. fra le più recenti Cass. n. 20917/2019 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione);

8.2. opera, quindi, il principio, che costituisce ius receptum e che è applicabile anche all’esegesi degli atti amministrativi, secondo cui, poichè l’interpretazione è tipico accertamento di fatto, nel giudizio di legittimità la critica non può risolversi nella prospettazione di un diverso risultato ermeneutico, occorrendo, invece, che la parte, oltre ad indicare specificatamente i canoni violati, precisi in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato (Cass. n. 17168/2012; Cass. n. 9054/2013; Cass. n. 10271/2016);

8.3. nel caso di specie i ricorrenti si limitano a richiamare nella rubrica gli artt. 1362 c.c. e ss. ma non precisano nè il contenuto dei criteri legali nè le ragioni per le quali il giudice del merito avrebbe violato le regole di ermeneutica;

8.4. il motivo, quindi, si risolve, in parte qua, in un’inammissibile contrapposizione dell’interpretazione proposta a quella accolta nella sentenza impugnata, perchè non indica il modo attraverso il quale si è realizzata la violazione di legge denunciata in rubrica (sulla inammissibilità della mera contrapposizione di una interpretazione difforme si rimanda a Cass. n. 6641/2012; Cass. n. 14318/2013; Cass. n. 21888/2016);

9. per il resto i motivi sono infondati perchè la sentenza gravata è conforme al principio di diritto, già affermato da questa Corte ed al quale il Collegio intende dare continuità, secondo cui il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 che ha conservato la sua efficacia per effetto della contrattazione collettiva sino all’entrata in vigore dell’art. 28 del c.c.n.l. 27 gennaio 2005 per il personale del comparto università (quadriennio 2002-2005), “vincolando la corresponsione della cd. indennità De Ma. all’equiparazione del personale universitario a quella del servizio sanitario nazionale, a parità di mansioni, funzioni e anzianità, esclude un’equiparazione automatica delle retribuzioni, nonchè di tutte le componenti del trattamento economico complessivo del personale sanitario che non dipendono esclusivamente dall’inquadramento contrattuale, in quanto erogate in correlazione al conferimento di incarichi come quello dirigenziale” (Cass. n. 4621/2018);

10. ricostruito il quadro normativo e contrattuale, nei termini che qui si richiamano ex art. 118 disp. att. c.p.c., la Corte è pervenuta all’affermazione del principio, di valenza generale perchè riferibile a tutte le voci che compongono il trattamento economico, sviluppando il percorso argomentativo seguito dalle Sezioni Unite, le quali, con la sentenza n. 9279/2016, pur affrontando solo il tema della spettanza della retribuzione di posizione, hanno evidenziato che, a fronte dell’evoluzione degli inquadramenti e degli istituti contrattuali, occorre tener conto della ratio perequativa sottesa al D.P.R. n. 761 del 1971, art. 31;

10.1 la disposizione, infatti, in quanto finalizzata ad equiparare i dipendenti “a parità di mansioni, funzione e anzianità”, necessariamente impone di distinguere il trattamento tabellare dagli ulteriori emolumenti che risultano strettamente collegati al conferimento di un incarico direttivo;

11. sulla base del richiamato principio, ribadito in successive pronunce (si rinvia fra le più recenti a Cass. n. 21569/2019, Cass. n. 20771/2018, Cass. n. 8357/2018 ed alla giurisprudenza ivi richiamata in motivazione), si devono escludere sia il preteso diritto all’attribuzione di un incarico dirigenziale, fatto valere in questa sede dai ricorrenti, sia la domandata inclusione, nell’indennità perequativa, della retribuzione di risultato, anche in relazione ai periodi nei quali i ricorrenti stessi non hanno ricoperto una posizione di valenza dirigenziale;

12. quanto al primo aspetto occorre ribadire che il D.P.R. n. 761 del 1979, art. 31 e la contrattazione collettiva che ne ha confermato l’applicabilità per il periodo successivo alla contrattualizzazione dell’impiego pubblico, incidono solo sul piano retributivo e, pertanto, non possono essere invocati al fine di ottenere la parificazione anche giuridica ai dirigenti del ruolo sanitario, tecnico ed amministrativo del servizio sanitario nazionale, ossia per acquisire a tutti gli effetti la qualifica dirigenziale, superando il diverso inquadramento riconosciuto dal datore di lavoro;

13. da tempo, infatti, questa Corte ha affermato, da un lato, che, in linea generale, nel pubblico impiego sono rilevanti gli inquadramenti formali e gli status, dall’altro che le norme derogatorie delle regole ordinarie non si estendono oltre l’ambito fissato dalle norme stesse (Cass. n. 23473/2007), sicchè non si può fare leva sull’attribuzione dell’indennità perequativa per ottenere l’equiparazione al personale del servizio sanitario quanto allo stato giuridico ed alla disciplina del rapporto di lavoro;

14. va detto, poi, che anche in ambito sanitario, pur con le peculiarità proprie della dirigenza di detto settore, ” la retribuzione di posizione riflette “il livello di responsabilità attribuito con l’incarico di funzione”, e la retribuzione di risultato corrisponde all’apporto del dirigente in termini di produttività o redditività della sua prestazione” (Cass. n. 2459/2011), sicchè quest’ultima, al pari della prima, può essere riconosciuta solo a seguito dell’effettivo espletamento di funzioni dirigenziali, presupponendo la valutazione positiva del dirigente in relazione ai diversi parametri, indicati dalle parti collettive e “ponderati per le diverse posizioni di incarico dirigenziale ” (art. 62, comma 3, CCNL 5.12.1996);

15. correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha escluso che il trattamento accessorio potesse essere rivendicato anche per i periodi in cui ai ricorrenti non erano stati conferiti incarichi dirigenziali;

16. il quinto ed il sesto motivo, con i quali si censura l’accertamento di fatto compiuto dal giudice d’appello quanto all’effettivo espletamento delle funzioni ed alla durata degli incarichi provvisoriamente attribuiti, sono entrambi inammissibili perchè, oltre ad essere formulati senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, sollecitano una revisione del giudizio di merito ed esorbitano dai limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, applicabile alla fattispecie in quanto la sentenza impugnata è stata depositata il 14.2.2017;

17. con la recente sentenza n. 34476/2019 le Sezioni Unite di questa Corte hanno riassunto i principi, ormai consolidati, affermati in relazione alla portata dell’intervento normativo e, rinviando a Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018, hanno evidenziato che: il novellato testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma;

18. i motivi di ricorso confondono il fatto storico, ossia il conferimento dell’incarico, che la Corte ha esaminato e valutato, con gli elementi istruttori dai quali doveva essere tratta la prova di una diversa durata temporale della prestazione di livello dirigenziale e finiscono, pertanto, per sollecitare un giudizio di merito, precluso alla Corte di legittimità;

19. è, invece, fondata la quarta censura perchè, come si desume già dalla lettura della sentenza impugnata, la Corte territoriale, in parziale accoglimento dell’impugnazione principale proposta dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Paolo Giaccone, ha riformato la sentenza di primo grado anche nella parte concernente la condanna dell’Università degli Studi di Palermo, la quale non aveva proposto appello, in via principale o incidentale, e si era limitata ad aderire alle conclusioni formulate dall’Azienda;

19.1. la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che l’obbligazione solidale determina la costituzione, non già di un unico rapporto obbligatorio con pluralità di soggetti dal lato attivo o dal lato passivo, bensì di tanti rapporti, tra loro distinti, quanti sono i condebitori o i concreditori in solido, con la conseguenza che, qualora i condebitori solidali vengano convenuti in un unico giudizio, in quest’ultimo si realizza la coesistenza di più cause scindibili, rispetto alle quali in sede di impugnazione i motivi di gravame non si comunicano dall’uno all’altro dei coobbligati (Cass. S.U. 18 giugno 2010 n. 14700);

19.2. da detto principio di diritto si è tratta la conseguenza che la regola di cui all’art. 1306 c.c., che consente al condebitore in solido di opporre al creditore la sentenza pronunciata tra questi ed uno degli altri condebitori, non può trovare applicazione nel caso in cui tutti gli obbligati solidali siano stati parte del medesimo giudizio, perchè in tal caso operano le preclusioni proprie del giudicato e, quindi, la mancata impugnazione da parte del debitore solidale, soccombente in un rapporto obbligatorio scindibile, determina nei suoi confronti il passaggio in giudicato della sentenza, non rilevando che altri condebitori l’abbiano impugnata e ne abbiano ottenuto l’annullamento o la riforma (Cass. n. 20559/2014; Cass. n. 24728/2018; Cass. n. 6794/2018);

19.3. non poteva, pertanto, il giudice d’appello modificare la statuizione di primo grado anche nella parte riguardante il rapporto processuale intercorrente fra gli originari ricorrenti e l’Università degli Studi di Palermo;

20. in via conclusiva merita accoglimento il solo quarto motivo e la sentenza impugnata deve essere cassata in parte qua, limitatamente alle posizioni riguardanti i litisconsorti indicati in epigrafe;

21. non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, limitando alla sola Azienda Ospedaliera la riduzione degli importi di cui alla sentenza di primo grado disposta con la decisione qui impugnata, confermata per il resto anche in relazione al regolamento delle spese processuali;

22. l’accoglimento solo parziale del ricorso e la complessità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione fra tutte le parti delle spese del giudizio di legittimità;

23. non sussistono le condizioni processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata limitatamente agli attuali ricorrenti ed al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, limita alla sola Azienda Ospedaliera la riduzione degli importi di cui alla sentenza di primo grado disposta con la sentenza impugnata. Conferma per il resto la sentenza di appello anche in relazione al regolamento delle spese processuali. Compensa integralmente fra tutte le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 26 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2020

 

 

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