Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27741 del 29/10/2019

Cassazione civile sez. un., 29/10/2019, (ud. 18/06/2019, dep. 29/10/2019), n.27741

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6695/2019 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente –

contro

S.S., PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimati –

nonchè

S.S., elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO ANTONELLI

10, presso lo studio dell’avvocato Andrea Costanzo, rappresentata e

difesa dagli avvocati ANTONINO REINA e MASSIMILIANO MARINELLI;

– ricorrente successivo –

nei confronti di:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI

CASSAZIONE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 204/2018 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 06/12/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/06/2019 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

FINOCCHI GERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso

S.; inammissibilità in via preliminare del ricorso del Ministero,

in subordine accoglimento, p.q.r., in riferimento ai primi due

motivi;

uditi gli avvocati Emanuela Manzo per l’Avvocatura Generale dello

Stato, Massimiliano Marinelli e Antonino Reina.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 6/12/2018 la Sezione Disciplinare del C.S.M., decidendo sui riuniti procedimenti n. 112/2015, nn. 116-140143/2016 e n. 80/2017, ha dichiarato la sig. S.S. responsabile “degli illeciti disciplinari a lei ascritti ai capi 1), 2), 3), 4), limitatamente alle ipotesi di cui alle lettere a) e c), 5, 7, 11, 12, 13, 15, 16, 17, limitatamente alla contestata violazione di legge, 18, 20, 24, 25, limitatamente alla contestata violazione di legge, e 26”, disponendo la sanzione disciplinare della rimozione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 11, principalmente per avere – quale Presidente della Sezione specializzata in misure di prevenzione del Tribunale di Palermo – usato la qualità di magistrato per conseguire vantaggi ingiusti avvalendosi in particolare della collaborazione di amministratori giudiziari che aveva concorso a nominare in procedure di amministrazione di patrimoni sequestrati o confiscati alla criminalità organizzata.

Ha viceversa assolto la medesima dalle incolpazioni di cui ai capi 4) (limitatamente alle ipotesi di cui alla lett. b)), 6), 8), 9), 10), 14), 17) (limitatamente all’omessa motivazione), 19), 21), 22), 23), 25) (limitatamente all’omessa motivazione), 27), 28), 29), 30), 31) e 32), per essere rimasti esclusi gli addebiti; nonchè dall’incolpazione di cui al capo 24), per essere l’illecito disciplinare non configurabile, in considerazione della ravvisata scarsa rilevanza del fatto.

Avverso la suindicata pronunzia il Ministero della giustizia propone ora ricorso per cassazione affidato a sei motivi, illustrati da memoria.

Propone ricorso per cassazione altresì la S. sulla base di tre motivi, ed altresì due “nuovi motivi” ex art. 585 c.p.p., comma 4, illustrati da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1 motivo il Ministero ricorrente denunzia “violazione e/o falsa applicazione” del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, art. 2, comma 1, lett. g) ed l), D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 42, commi 3 e 4, L. n. 575 del 1965, art. 2 octies; nonchè “mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità” della motivazione, in relazione all’art. art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e).

Lamenta che relativamente ai capi d’incolpazione 8), 17), 25) e 28) “le motivazioni enunciate nella sentenza disciplinare in oggetto appaiono alquanto sintetiche, sia sotto il profilo della ritenuta sufficienza dei motivi sottesi ai decreti di liquidazione indicati nei capi d’incolpazione, che con riferimento all’affermazione in ordine all’inapplicabilità del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 42, essendosi la Sezione disciplinare del CSM limitata, quanto al primo profilo, a ritenere sufficiente il richiamo, nei provvedimenti di liquidazione, delle “norme di legge applicate” e delle “richieste degli interessati”, che consentirebbero “una ricostruzione sufficiente delle motivazioni sottostanti alla loro adozione””.

Si duole che, con riferimento alle incolpazioni di cui ai capi 27) e 29), “nella illustrata motivazione” il giudice disciplinare”sembra ancorare l’inapplicabilità dell’art. 42 del D.Lgs. citato all’epoca di emissione del decreto di liquidazione, non avvedendosi… che nell’incolpazione di cui al capo 29) si fa riferimento ad una procedura verosimilmente relativa a proposta formulata successivamente alla data di entrata in vigore del T.U. Misure di Prevenzione (e segnatamente la procedura n. 72/2012)”.

Lamenta che “la motivazione assolutoria appare fondarsi sul semplice assunto che i provvedimenti di liquidazione non necessitano di una analitica e specifica motivazione, assunto che non appare condivisibile, sia con riferimento alla disciplina dettata al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 42, che di quella previgente di cui all’art. 2-octies inserito con D.L. 14 giugno 1989, n. 230, dopo della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2-septies”.

Si duole non essersi considerato che “la motivazione della pronuncia liberatoria risulta… poggiare su premesse sistematiche in aperto contrasto con le chiare disposizioni normative sopra illustrate, in modo da cagionare una significativa violazione di legge”, e che “la valutazione equitativa, in ogni caso, deve essere ancorata a concreti elementi e ai criteri enunciati dalle norme in argomento”, laddove nella specie “nella migliore delle ipotesi la motivazione è meramente apparente”, non risultando indicati “gli elementi concreti e specifici da cui il primo Giudice avrebbe dedotto che i decreti contenenti i mandati di pagamento di cui trattasi avessero una motivazione… sufficiente ad accertare le ragioni sottostanti tali disposizioni di pagamento”.

Con il 2 motivo denunzia “violazione e/o falsa applicazione” del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. o); nonchè “mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità” della motivazione, in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e).

Lamenta che con riferimento al capo 9) della rubrica relativa all'”indebito affidamento di attività rientranti nei propri compiti”, e in particolare all'”affidamento del compito di redigere provvedimenti agli amministratori P. e C.S.”, dopo “avere indicato che le intercettazioni ambientali documentavano una modalità a dir poco imbarazzante di compilazione dei provvedimenti, redatti sotto dettatura del C.S.”, nell’impugnata sentenza risulti contraddittoriamente precisato “che “la condotta descritta in epigrafe non integra illecito disciplinare, non trattandosi di affidamento di compiti, ma di semplice collaborazione nella predisposizione di bozze destinate a formare il provvedimento giurisdizionale solo con il decisivo contributo volitivo e formale del giudice che vi apponeva la sua sottoscrizione”.

Si duole che la “motivazione della pronuncia assolutoria” risulti “oltre che contraddittoria anche fondata su premesse sistematiche in aperto contrasto con le chiare disposizioni normative”.

Con il 3 motivo denunzia “violazione e/o falsa applicazione” del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, art. 2, comma 1 lett. g) ed l), artt. 525,527,544 c.p.c., D.M. 30 settembre 1989, n. 334, art. 2, D.Lgs. n. 51 del 1998, art. 47 quater e art. 13, R.D. n. 12 del 1941; nonchè “mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità” della motivazione, in relazione all’art.. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e).

Si duole che la Sezione disciplinare del CSM abbia “escluso l’addebito” di cui al capo 14), “rilevando che la omessa adozione dell’applicativo informatico integra un fatto suscettibile di rilievo negativo in un diverso ambito valutativo, ma non integra responsabilità disciplinare, anche in considerazione del fatto che il soggetto responsabile in via diretta è il Presidente del Tribunale e la contestata mancata collaborazione della Dott.ssa S. non è provata”, laddove “lo stesso giudice, in più occasioni, ha rilevato che sul magistrato, ed a maggior ragione sul Presidente di Sezione, incombe l’obbligo di vigilare sull’operato del personale amministrativo e sul corretto andamento dei servizi di cancelleria”.

Lamenta che “la tenuta dei registri nel caso in esame è risultata talmente disordinata da non consentire la conoscenza certa della movimentazione dei fascicoli, degli atti e dei provvedimenti ivi contenuti”, situazione che rendeva pertanto “necessario un urgente intervento del Presidente della Sezione, per porre rimedio tempestivo alla disfunzione rilevata”.

Con il 4 motivo denunzia “violazione e/o falsa applicazione” del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d), art. 361 c.p.; nonchè “mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità” della motivazione, in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e).

Si duole dell’erronea valutazione delle emergenze probatorie in relazione al capo 22), concernente “alcuni ammanchi di cassa rilevati nella tabaccheria amministrata nell’ambito di una procedura di prevenzione… assegnata” all’incolpata.

Con il 5 motivo denunzia “violazione e/o falsa applicazione” del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, art. 2, comma 1, lett. dd), art. 47 quater ord. giud., in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b).

Si duole che, con riferimento al capo 31), il giudice disciplinare abbia escluso la sussistenza della contestata incolpazione di “aver omesso di comunicare al Presidente del Tribunale che due giudici della sua Sezione erano incorsi in ritardi gravi e reiterati”, erroneamente ritenendo tale segnalazione “del tutto superflua” e tale da non avere “altro significato che una inopportuna sollecitazione a prendere iniziative che evidentemente il dirigente non aveva ritenuto di dover prendere”, per essere la detta situazione nella specie “effettivamente conosciuta dal capo dell’ufficio”.

Con il 6 motivo denunzia “violazione e/o falsa applicazione” del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, art. 3, lett. a) ed i), D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 24, in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).

Si duole che quanto al capo 32), relativamente alla “rimessione sul ruolo della decisione sulla confisca nel procedimento n. 231/2011”, erroneamente la Sezione disciplinare del CSM abbia ritenuto trattarsi di “questione interpretativa non censurabile “, nonchè essere stata “la reimmessione degli aventi diritto nel possesso dei beni sequestrati… conseguenza necessitata di tale decisione, non qualificabile, pertanto, come vantaggio ingiusto nei termini di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. a)”, in quanto: a) “il D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 24, nel testo in vigore all’epoca di commissione dei fatti oggetto di addebito disciplinare, prevede al comma 2 che “il decreto di confisca può essere emanato entro un anno e sei mesi dalla data di immissione in possesso dei beni da parte dell’amministratore giudiziario””; in caso “di indagini complesse o compendi patrimoniali rilevanti tale termine può essere prorogato con decreto motivato del tribunale per periodi di sei mesi e per non più di due volte”; il provvedimento di confisca “perde efficacia se la corte d’appello non si pronuncia entro un anno e sei mesi dal deposito del ricorso”, e stante la precisazione che “si applica l’art. 24, comma 2”, non può esservi invero dubbio “sulla perentorietà del termine e sugli effetti che discendono dal mancato rispetto della previsione”.

Con il 1 motivo la ricorrente S. denunzia violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, art. 127 c.p.p., in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).

Si duole che, dopo aver disposto la sospensione del giudizio disciplinare in udienza dibattimentale, in accoglimento di “istanza fuori udienza” del Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione, il CSM abbia adottato “all’udienza del 12 ottobre 2017 una nuova ordinanza… nella quale revocava quella emessa nel corso dell’udienza del 20 luglio 2017”, peraltro “in violazione dell’art. 127 c.p.p., in quanto: non era stata data preventiva comunicazione al difensore della ricorrente dell’istanza del Procuratore generale; non era stata fissata l’udienza o la Camera di consiglio per la discussione sulla revoca dell’ordinanza precedente, nè tantomeno era stato dato alla parte ed al difensore l’avviso di cui al c. 1 della norma sopra indicata; la Dott.ssa S. non era stata messa in condizione di esercitare il diritto di essere ascoltata, ai sensi del c. 3 della disposizione sopra richiamata… In altri termini, su una questione di assoluto rilievo, ai fini del successivo svolgimento del giudizio, il Csm modificava senza alcun contraddittorio la precedente decisione”, con conseguente “prosecuzione del procedimento in ordine alla maggior parte delle questioni oggetto del giudizio, in ordine alle quali era stata in un primo momento disposta la sospensione”.

Con il 2 motivo denunzia violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, art. 125 c.p.p., in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).

Lamenta che all’udienza del 5 febbraio 2018 ha presentato istanza di sospensione del procedimento rigettata “con ordinanza assunta all’esito di una breve Camera di consiglio”, ove viene fatto riferimento “alle “precedenti ordinanze” (si deve ritenere a quella del 20 luglio 2017 e a quella del 12 ottobre 2017) che però avevano… contenuti diametralmente opposti in ordine alla questione rilevante”.

Con il 3 motivo denunzia violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 18, 19, artt. 146 bis, 178,208 c.p.p., in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).

Si duole che, non potendo “essere presente… per motivi di salute” all’udienza di rinvio del 29/3/2018, la Sezione giurisdizionale abbia disposto la sua audizione in videoconferenza pur non essendo lei “in stato di detenzione”, e pertanto in difetto di uno dei relativi presupposti legittimanti, nonchè in violazione del divieto di applicazione analogica della previsione eccezionale di cui all’art. 146 bis disp. att. c.p.p..

Lamenta che il giudice disciplinare, “dopo avere ritenuta legittima la richiesta… di essere ascoltata personalmente (nè avrebbe potuto fare diversamente, alla luce del chiaro disposto del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 19 e dall’art. 208 c.p.p.), non l’ha messa nelle condizioni di esercitare il suo diritto di difesa”, pretendendo “di applicare una modalità di assunzione delle dichiarazioni della ricorrente – la quale, come detto e non contestato nella sentenza, non era nelle condizioni di spostarsi da Palermo a Roma (altrimenti il Csm non avrebbe certo disposto il ricorso alla videoconferenza)- con una modalità non prevista dal codice di rito per la fattispecie in esame”.

Con il 1 “nuovo motivo” ex art. 585 c.p.p., comma 4, denunzia “violazione ed errata applicazione” degli artt. 606,178,179 c.p.p., D.L. n. 109 del 2006, artt. 15, 18, 20, in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c).

Si duole che, “in esito all’iniziativa unilaterale del S. Procuratore Generale del 14 settembre 2017 che ha richiesto la revoca dell’ordinanza di parziale sospensione del procedimento del 20 luglio 2017, la Sezione Disciplinare del C.S.M. abbia, “con ordinanza del 12 ottobre 2017”, revocato “l’ordinanza emessa nel corso dell’udienza del 20 luglio 2017, inaudita altera pars (recte, parte) in assenza di contraddittorio della difesa sulla richiesta del Procuratore Generale della Cassazione”.

Lamenta che “l’ordinanza di revoca “fuori udienza” emessa dalla Sezione disciplinare dell’ordinanza del 20 luglio 2017 è affetta da nullità assoluta ed insanabile ex art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 179 c.p.p.”, per violazione del principio del contraddittorio e della “obbligatoria presenza” della difesa “nei casi in cui è prevista”, non essendo stata “ammessa ad interloquire sulla istanza presentata “fuori udienza” dal Procuratore Generale di revoca dell’ordinanza del CSM che, invece, era stata emessa in udienza e nel contraddittorio tra le parti”.

Con il 2 “nuovo motivo” ex art. 585 c.p.p., comma 4, denunzia “violazione ed errata applicazione” dell’art. 606 c.p.p., D.P.R. n. 109 del 2006, artt. 4, 15, 20, in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c); nonchè “motivazione illogica e contraddittoria”.

Lamenta che se fosse stata disposta “la sospensione del procedimento disciplinare in esito al processo penale” il “CSM avrebbe potuto acquisire elementi di smentita all’ipotesi accusatoria di mera interpretazione delle intercettazioni che sono stati accertati in sede penale”.

Va pregiudizialmente dichiarata l’ammissibilità dei “motivi nuovi ex art. 5854 c.p.c.” formulati dalla ricorrente S..

Atteso che in materia di procedimento disciplinare a carico degli appartenenti all’ordine giudiziario il regime delle impugnazioni risulta caratterizzato dall’applicazione delle norme processuali penali, quanto alla fase introduttiva del giudizio (con conseguente assoggettamento del ricorso per cassazione esperibile avverso la sentenza della Sezione Disciplinare del C.S.M. al principio di tipicità dei motivi di ricorso (v. Cass., Sez. Un., 9/6/2017, n. 14430; Cass., Sez, Un., 13/9/2011, n. 18701; Cass., Sez. Un., 24/9/2010, n. 20159)), e delle norme processuali civili, quanto al suo svolgimento, il quale inizia con gli incombenti previsti all’art. 377 c.p.c. (cfr. Cass., Sez. Un., 18/4/2019, n. 10935; Cass., Sez. Un., 12/6/2017, n. 14550; Cass., 5/10/2007, n. 20844), va osservato come si sia da questa Corte già avuto modo di escludere la possibilità di presentare motivi nuovi o aggiunti rispetto a quelli già formulati e che prospettino censure nuove e diverse da quelle già originariamente introdotte con il ricorso (v. Cass., 16/5/2016, n. 9993; Cass., Sez. Un., 22/2/2012, n. 2568; Cass., Sez. Un., 10/3/2005, n. 5207; Cass., Sez. Un. pen., 20/4/1998, n. 4683; Cass., Sez. Un., 9/8/1990, n. 8098).

Determinando la proposizione del ricorso per cassazione la consumazione del diritto d’impugnazione, con particolare riferimento ai nuovi motivi di impugnazione ex art. 585 c.p.p., comma 4, si è al riguardo da questa Corte precisato che essi non possono avere ad oggetto nuove ragioni – sia di fatto che di diritto – di censura rispetto a quelle tempestivamente introdotte, dovendo essere meramente integrative e chiarificatrici di quelle già formulate, e palesare una necessaria inerenza o connessione funzionale con temi specificati nei capi e punti della decisione investiti con l’impugnazione (già) proposta (v. Cass., 24/9/2015, n. 18897; Cass. pen., 30/10/2014, n. 45075; Cass. pen., 5/5/2014, n. 18293; Cass. pen., 1171/2013, n. 1417), a tale stregua non potendo essi valere a sanare i vizi originari che rendono il ricorso inammissibile (v. Cass. pen., 6/3/2019, n. 9837; Cass. pen., 16/12/2016, n. 53630; Cass. pen., 28/1/2015, n. 4184).

Orbene, i “motivi nuovi” nella specie formulati dalla ricorrente S. hanno in realtà ad oggetto mere illustrazioni e chiarimenti delle censure originariamente dedotte nel ricorso incidentale, delle quali in effetti al più costituiscono mere integrazioni.

Deve quindi rilevarsi che motivi di ordine logico impongono di esaminare prioritariamente il ricorso della S..

Il ricorso della S., integrato dai suindicati “motivi nuovi”, è in parte inammissibile e in parte infondato.

Osservato che esso risulta invero formulato in violazione dei requisiti prescritti all’art. 606 c.p.p. (come modificato dalla L. n. 46 del 2006) e art. 165 bis disp. att. c.p.p. – introdotto dal D.Lgs. n. 11 del 2018, art. 7, comma 1 – (atteso che la suindicata ricorrente pone a base delle mosse censure atti e documenti del giudizio di merito (quali in particolare l'”iniziativa unilaterale del S. Procuratore Generale del 14 settembre 2017″, l’ordinanza di sospensione del procedimento” del 20 luglio 2017, l'”ordinanza del 12 ottobre 2017″, la “requisitoria del P.G. all’udienza del 5 febbraio 2018″, l'”intercettazione del 30 giugno 2015, trascritta dai periti del Tribunale, tra la Dott.ssa S. e l’avv. C.S.”, la “relazione del piano industriale che porta la data del 1 luglio 2015”, il “contenuto del verbale di riunione dell'(OMISSIS) del 30 giugno 2015”) senza che risulti dalla ricorrente fornita la puntuale indicazione, degli atti che assume travisati e dei quali ritiene necessaria l’allegazione (materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato) ovvero, laddove indicati, senza debitamente riportarli nel ricorso: cfr., da ultimo, Cass. pen., 8/5/2019, n. 35164; Cass. pen., 11/4/2017, n. 20677; Cass. pen., 10/11/2015, n. 46979)), con particolare riferimento al 1 motivo e al 2 motivo nonchè al 1 motivo aggiunto va posto in rilievo che il provvedimento di revoca dell’ordinanza emessa nel corso dell’udienza 20/7/2017 è stato in realtà assunto alla successiva udienza pubblica del 12/10/2017, alla presenza del difensore dell’odierna ricorrente S., risultando a tale stregua pertanto superate le questioni dalla medesima dedotte in ordine all’ordinanza in precedenza emessa fuori udienza.

Con particolare riferimento ai restanti motivi, e in particolare alla contestata possibilità di partecipare all’udienza e di esercitare il diritto di difesa (pure) potendo “replicare personalmente alle conclusioni del Pubblico Ministero”, va osservato che correttamente l’adozione nella specie della soluzione del videocollegamento a distanza ex art. 146 bis disp. att. c.p.p., è stata nell’impugnata sentenza ritenuta utilizzabile ed idonea a garantire il suindicato diritto fondamentale.

Atteso che, come da questa Corte posto in rilievo, l’istituto della partecipazione a distanza ex art. 146 bis c.p.p. (introdotto dalla L. n. 11 del 1998) trova applicazione in presenza di una specifica condizione oggettiva (che si proceda per taluno dei delitti indicati all’art. 51 c.p.p., comma 3 bis (art. 416 bis c.p., art. 630 c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste all’art. 416 bis, ovvero al fine di agevolare le associazioni dedite al narcotraffico) e semprechè sussista anche uno dei presupposti alternativamente previsti (gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico; dibattimento di particolare complessità, con necessità di evitare ritardi nello svolgimento; applicazione delle misure di cui alla L. n. 654 del 1975, art. 41 bis (v. Cass. pen., 8/2/2000, n. 612, e, da ultimo, Cass. pen., 12/4/2018, n. 22039), va osservato come si sia al riguardo precisato, da un canto, che tale sistema è di carattere eccezionale; per altro verso, che l’espressa limitazione alla categoria di reati così individuata quale oggetto dell’accertamento giudiziario (nell’eventuale “dibattimento a distanza”) esclude ogni altro procedimento che non abbia per oggetto alcuna previsione punitiva (cfr., con riferimento a procedimento di “prevenzione”, Cass., pen., 18/5/2018, n. 22039; Cass., pen., 9/11/2016, n. 47195; Cass. pen., 8/2/2000, n. 612).

Deve al riguardo precisarsi che i suindicati limiti applicativi dell’istituto in argomento (dalla stessa ricorrente in via incidentale richiamati nei propri scritti difensivi) valgono peraltro per il processo penale, non potendo considerarsi invero estensibili anche al procedimento disciplinare, per il quale non sussistono le ragioni che giustificano la relativa applicazione alle sole ipotesi eccezionali specificamente previste dalla sopra richiamata legge.

Va al riguardo sottolineato che l’interesse pubblico al corretto esercizio della giurisdizione, che non può essere che sollecito, non può rimanere pregiudicato da situazioni personali dell’incolpato tali da non compromettere il pieno esercizio dei suoi diritti di difesa, sicchè l’impedimento a comparire nel giudizio disciplinare è giustificato allorchè vi sia impossibilità non solo di recarsi personalmente all’udienza ma anche di partecipare attivamente alla stessa.

Orbene, atteso che il dibattimento del giudizio disciplinare (regolato, in base al rinvio operato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4, art. 420 ter c.p.p. richiamato dall’art. 484 c.p.p., u.c. – come introdotto dalla L. n. 479 del 1999, art. 39, comma 1) deve essere sospeso o rinviato solo quando l’assenza dell’imputato sia dovuta ad “assoluta impossibilità a comparire”, va posto in rilievo come nella specie sia rimasto nell’impugnata sentenza accertato che “sulla base dei certificati medici e delle valutazioni acquisite non sussistano impedimenti rispetto alla partecipazione della incolpata all’udienza in videoconferenza”.

Nè l’odierna ricorrente S. ha d’altro canto dedotto – ora come allora – inconvenienti specifici deponenti per la non utilizzabilità di un istituto che pur se non specificamente previsto con riferimento al procedimento disciplinare non risulta relativamente ad esso nemmeno vietato, laddove la mera contestazione della misura in se stessa (già nell’impugnata sentenza si afferma che l’incolpata ha “dichiarato di non volersi presentare nel luogo in cui era predisposto il collegamento, contestando tale modalità di assunzione sul piano giuridico”) si appalesa invero inammissibilmente inidonea a porne in dubbio la legittimità.

E’ infine, per altro verso, appena il caso di rilevare che giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità in tema di procedimento disciplinare di magistrato, la pendenza di un processo penale relativo agli stessi fatti non determina la necessaria sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione del giudizio penale, atteso che, nelle due ipotesi, i criteri di accertamento della responsabilità sono diversi in ragione della diversità del bene tutelato (v. Cass., Sez. Un., 11/3/2019, n. 6962).

Avuto riferimento al ricorso del Ministero, va osservato che il 1, il 2 e il 6 motivo sono fondati e vanno accolti nei termini e limiti di seguito indicati.

Va anzitutto posto in rilievo, con riferimento ai capi d’incolpazione concernenti l’adozione di provvedimenti di liquidazione e compensi ad amministratori giudiziari privi di motivazione o con motivazione apparente (nn. 8 e 28) nonchè l’emissione – quale giudice monocratico – di provvedimenti di liquidazione dei compensi ai coadiutori – rimessi alla competenza del collegio- in violazione del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 42, comma 4 e in difetto di motivazione (capi 17, 25, 27 e 29), che il giudice disciplinare ha invero escluso quest’ultimo addebito (di omessa motivazione); laddove per i capi 27 e 29 ha escluso anche l’addebito concernente la violazione di legge.

Nell’impugnata sentenza si sottolinea che non appare in particolare fondata “la incolpazione relativa alla omessa motivazione dei provvedimenti di liquidazione di cui ai capi 17) e 25)”, come pure di “quelli indicati ai capi 8) e 28)”, al riguardo sottolineandosi come si tratti di “decreti che nel richiamare le norme di legge applicate e le richieste degli interessati consentono una ricostruzione sufficiente delle motivazioni sottostanti alla loro adozione”.

L’affermazione di responsabilità disciplinare quanto ai capi 17) e 25) viene pertanto “limitata alla contestata violazione di legge”.

Orbene, osservato che il D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 42, prevede espressamente l’obbligo di provvedere alla determinazione dei compensi per gli amministratori giudiziari e alla loro liquidazione nonchè al rimborso delle spese sostenute per i coadiutori, con decreto motivato del tribunale, su relazione del giudice delegato; e sottolineato, per altro verso, che l’odierna ricorrente in via incidentale è stata assolta dalle “incolpazioni di cui ai capi 27) e 29)” (tutte relative a provvedimenti cui “non si applicano le richiamate norme di cui al Codice Antimafia, entrato in vigore il 13 ottobre 2011 e quindi in data successiva alla loro emissione”), emerge evidente come quest’ultima del tutto apodittica affermazione e del pari quella (relativa alla prima ipotesi) secondo cui i “provvedimenti di liquidazione di cui ai capi 17) e 25), nonchè… quelli di cui ai capi 8) e 28)”, consentono “una ricostruzione sufficiente delle motivazioni sottostanti alla loro adozione” là dove contengono il richiamo delle “norme di legge applicate”, nella specie sostanzino in realtà una motivazione del tutto inidonea a consentire di apprezzare l’iter logico-giuridico dal giudice disciplinare seguito per addivenirvi.

A tale stregua, siffatta motivazione non raggiunge invero nemmeno l’indefettibile limite del relativo “minimo costituzionale” (v. Cass., Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053), appalesandosi come in realtà meramente apparente (cfr. Cass., Sez Un., 31/5/2019, n. 15048), e pertanto sostanzialmente inesistente (cfr., da ultimo, Cass., 30/5/2019, n. 14754; Cass., 18/4/2019, n. 10813).

Con particolare riferimento al 2 motivo, quanto all’incolpazione di cui al capo concernente l’affidamento del compito di redigere i provvedimenti giudiziali adottati “agli amministratori P. e C.S.”, va ulteriormente osservato che l’affermazione contenuta nell’impugnata sentenza secondo cui “la condotta descritta in epigrafe non integra illecito disciplinare, non trattandosi di affidamento di compiti, ma di una semplice collaborazione nella predisposizione di bozze destinate a formare il provvedimento giurisdizionale solo con il decisivo contributo volitivo e formale del giudice che vi apponeva la sua sottoscrizione. L’addebito va pertanto escluso per difetto del suo elemento oggettivo” risulta del tutto apoditticamente formulata, manifestamente illogica ed erronea.

Non è alla stregua della medesima infatti ben comprensibile l’operato distinguo tra la “semplice collaborazione nella predisposizione di bozze destinate a formare il provvedimento giurisdizionale solo con il decisivo contributo volitivo e formale del giudice che vi apponeva la sua sottoscrizione”, ravvisata legittima, e il contestato “affidamento” a terzi “del compito di redigere provvedimenti” giudiziali, atteso che il provvedimento giudiziale deve essere integralmente formulato ed adottato dal giudice, non potendosene “appaltare” a terzi – in tutto o in parte – la predisposizione e limitarsi come nella specie alla mera relativa sottoscrizione, giacchè ciò depone per un’indebita delega di attività solamente al medesimo attribuita, e per una sostanziale rinunzia al proprio ruolo di giudice (cfr., con riferimento a diversa fattispecie concernente il ruolo del pubblico ministero, Cass., Sez. Un., 31/3/2015, n. 6495).

La collaborazione nella redazione di provvedimenti giurisdizionali si è invero ammessa limitatamente a particolari ed eccezionali ipotesi, e comunque sempre ove prestata da soggetti appartenenti all’ordine giudiziario, come ad esempio l’uditore giudiziario (cfr. Cass., 20/8/2003, n. 12214; Cass., 22/2/1995, n. 2019; Cass., 15/6/1979, n. 3371), o il magistrato ordinario in tirocino (cfr. Cass., 13/12/2018, n. 32307) o il giudice ausiliario di corte d’appello (v. Cass., 13/12/2018, n. 32307; Cass., 21/2/2017, n. 4426), e giammai da terzi a questo estranei, quali sono in particolare gli amministratori giudiziari.

Senza sottacersi, al di là della censurata “modalità a dir poco imbarazzante” costituita nella specie dal “magistrato che scriveva sotto dettatura” (invero già stigmatizzata da Cass., Sez. Un., n. 18572 del 2016 in sede di rigetto delle doglianze dall’odierna ricorrente all’epoca mosse avverso il provvedimento di sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio nonchè di collocamento fuori del ruolo organico della magistratura D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 22, comma 1), che nel caso trattasi altresì di provvedimenti emessi nell’interesse e in favore dei medesimi (le liquidazioni dei compensi ad essi spettanti).

Quanto al 6 motivo, va osservato che in tema di misure patrimoniali di prevenzione è invero senz’altro perentorio il termine di 1 anno e 6 mesi, dal deposito del ricorso, entro il quale va dalla corte d’appello emesso il decreto di confisca D.Lgs. n. 159 del 2011, ex art. 24 (nel testo ratione temporis applicabile), a pena di perdita di efficacia dell’adottato provvedimento di sequestro (di prevenzione), come si desume dall’operato richiamo alle sole cause di sospensione dei termini di durata della custodia cautelare ex art. 304 c.p.p., deponente per l’inapplicabilità al sequestro di prevenzione della disciplina prevista all’art. 303 c.p.p., comma 2, concernente la decorrenza di un nuovo termine di durata per i casi di annullamento con rinvio del procedimento nel quale è stata disposta la misura cautelare (cfr., con riferimento all’ipotesi di annullamento con rinvio al primo giudice per la rinnovazione del procedimento, Cass., pen., 30/10/2017, n. 49739 rv. 271505, ove si è affermato che in tal caso il termine D.Lgs. n. 159 del 2011, ex art. 24, comma 2, entro il quale deve essere emesso il decreto di confisca non decorre ex novo, sicchè ove il termine sia già decorso il sequestro perde efficacia).

Orbene, nell’impugnata sentenza del suindicato principio il giudice disciplinare non ha invero fatto corretta applicazione.

In particolare là dove ha affermato che la “rimessione sul ruolo” oggetto della contestazione di cui al capo 32) della “decisione sulla confisca nel procedimento n. 231/2011 attiene ad una questione interpretativa non censurabile in questa” sede, e che la “reimmissione degli aventi diritto nel possesso dei beni sequestrati è stata conseguenza necessitata di tale decisione, non qualificabile, pertanto, come vantaggio ingiusto nei termini di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. a)”.

Nella parte in cui ha ulteriormente precisato che la “confisca nel procedimento n. 231/2011” ha invero comportato l’impossibilità per il collegio di disporre un nuovo sequestro dei beni al momento di emissione del decreto di confisca in data 10/2/2016, sicchè il superamento del perentorio termine massimo di legge all’uopo previsto ha nella specie determinato la necessità di restituire al sig. M.B. il compendio immobiliare sequestrato costituito a) dal complesso aziendale dell’impresa individuale “SA.FRA rappresentanze di Sa.Fr.” e b) dalle quote sociali e dal patrimonio aziendale della società Detergroup s.r.l. e della società G.A. e F.M. s.n.c..

I restanti motivi del ricorso del Ministero sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Va anzitutto osservato che, in violazione del principio consolidato in base al quale i requisiti di formazione del ricorso rilevanti ai fini della relativa giuridica esistenza e conseguente ammissibilità assumendo pregiudiziale e prodromica rilevanza ai fini del vaglio della relativa fondatezza nel merito che in loro difetto rimane invero al giudice imprescindibilmente precluso (cfr. Cass., Sez. Un., 10/9/2019, n. 22572), essi risultano invero formulati in difetto dei requisiti prescritti all’art. 606 c.p.p. (come modificato dalla L. n. 46 del 2006) e art. 165 bis disp. att. c.p.p. – introdotto dal D.Lgs. n. 11 del 2018, art. 7, comma 1, atteso che il ricorrente pone a base delle mosse censure emergenze relative ad atti e documenti del giudizio di merito (in particolare, le adottate “modalità di registrazione degli atti non conformi alle disposizioni sulla tenuta dei registri informatici” e le inserite “annotazioni carenti” nonchè la tenuta”in uso” di “registri informali”; le “risultanze acquisite nel corso dell’istruttoria”, l’avere “lo stesso avv. Calatolo… ricordato di averne discusso con la Dott.ssa S. e di avere rappresentano (recte, rappresentato) una situazione alquanto fluida, sia rispetto all’ammontare delle somme distratte sia con riguardo alla individuazione del soggetto responsabile”, l’insussistenza di alcun “dato di fatto indicato nel provvedimento” legittimante il “sostenere che il Presidente avesse effettiva conoscenza dei ritardi indicati nella imputazione”) senza fornire la puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione (materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato) ovvero, laddove indicati, senza debitamente riportarli nel ricorso: cfr., da ultimo, Cass. pen., 8/5/2019, n. 35164; Cass. pen., 11/4/2017, n. 20677; Cass. pen., 10/11/2015, n. 46979).

Deve ulteriormente sottolinearsi come non risulti dall’odierno ricorrente nemmeno (quantomeno idoneamente) censurata la ratio decidendi dell’impugnata sentenza secondo cui, in ordine all’adozione delle modalità di registrazione degli atti da parte della Sezione misure di prevenzione in conformità alle disposizioni sulla tenuta dei registri informatici, “il soggetto responsabile in via diretta è il Presidente del Tribunale e la contestata mancata collaborazione della Dott.ssa S. non è provata”.

Del pari deve dirsi relativamente al 4 motivo, concernente l’incolpazione di cui al capo 22) circa gli “ammanchi di cassa rilevati nella tabaccheria amministrata nell’ambito di una procedura a lei assegnata”, le mosse censure comportando accertamenti di fatto, invero preclusi in questa sede, in ordine alla sussistenza dei presupposti applicativi della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 361 c.p..

Analogamente deve altresì ritenersi con riferimento al 5 motivo, corretta appalesandosi l’affermazione contenuta nell’impugnata sentenza secondo cui non è necessaria la segnalazione al “Capo dell’ufficio” di fatti dei quali il medesimo sia già a conoscenza, risultando essa da un canto “superflua” e per altro verso idonea a palesarsi quale “inopportuna sollecitazione a prendere iniziative che evidentemente il dirigente non aveva ritenuto di dover prendere”.

Alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto l’impugnata sentenza va dunque cassata in relazione agli accolti motivi 1, 2 e 6 del ricorso del Ministero, rigettati gli altri motivi nonchè ogni altra questione e diverso profilo, e rigettato altresì il ricorso della S., con rinvio alla Sezione Disciplinare del C.S.M., che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo dei suindicati disattesi principi applicazione.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte accoglie il 1, il 2 e il 6 motivo del ricorso del Ministero. Rigetta gli altri motivi del ricorso Ministero e il ricorso della S.. Condanna la ricorrente S. al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.000,00, oltre a spese prenotate a debito. Cassa in relazione ai motivi accolti l’impugnata sentenza e rinvia alla Sezione Disciplinare del C.S.M., in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019

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