Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27736 del 29/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 29/10/2019, (ud. 20/06/2019, dep. 29/10/2019), n.27736

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14300/2018 R.G. proposto da:

G.N., rappresentata e difesa dall’Avv. Gianpaolo Dalessio

Clementi, con domicilio eletto in Roma, Largo Arenula, n. 26, presso

lo studio dell’Avv. Diletta Fulcheri;

– ricorrente –

contro

S.G.;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Genova, n. 953/2017,

depositata il 13 luglio 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 giugno

2019 dal Consigliere Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Corte d’appello di Genova, in riforma della decisione di primo grado e in accoglimento della domanda proposta dall’appellante S.G., ha condannato G.N. a pagargli la somma di Euro 4.105,24, oltre rivalutazione monetaria ed interessi, a titolo di risarcimento dei danni subiti dall’appartamento dello stesso in conseguenza delle infiltrazioni d’acqua provenienti dalla soprastante unità immobiliare di proprietà dell’appellata.

Difformemente dal tribunale ha infatti ritenuto che gli elementi offerti dalla espletata c.t.u. e dalle prove testimoniali assunte dimostrassero, sia pure in base a ragionamento induttivo, tale provenienza delle infiltrazioni.

Centrale importanza ha in particolare attribuito ai lavori di rifacimento delle tubature del bagno dell’appartamento della Grisaffi (più volte definito in motivazione come “fatto costitutivo” non contestato); alla luce di tale dato ha affermato di poter condividere la conclusione, “sia pure induttiva”, del c.t.u. circa la provenienza delle infiltrazioni dall’impianto idrico sanitario del bagno dell’appartamento soprastante, anche in ragione dell’accertato mancato ripetersi delle infiltrazioni dopo l’esecuzione di tali lavori e della diversa collocazione e provenienza delle tracce successivamente rinvenute.

2. Avverso tale sentenza G.N. propone ricorso per cassazione con due mezzi.

L’intimato non svolge difese nella presente sede.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., ed omesso esame circa un fatto decisivo della controversia” per avere la Corte d’appello accolto la domanda in virtù di una motivazione che essa definisce “apparente e smentita dal compendio testimoniale escusso”.

Sostiene, in sintesi, che una corretta valutazione delle deposizioni testimoniali avrebbe consentito, in accordo con il primo giudice, di ritenere dimostrata: la totale assenza di perdite d’acqua dalle tubature del bagno in epoca antecedente ai lavori di ristrutturazione; la persistenza di fenomeni infiltrativi in epoca successiva ai predetti lavori; la verosimile riconducibilità dei danni a un difetto di impermeabilizzazione del lucernaio in vetrocemento della copertura dell’intercapedine condominiale.

2. Con il secondo motivo deduce ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 115,116 e 191 c.p.c., ed omesso esame circa un fatto decisivo della controversia” per avere la Corte d’appello ritenuto che la consulenza tecnica d’ufficio valesse a dimostrare la riconducibilità dell’evento dannoso all’appartamento soprastante, benchè si trattasse -essa assume – di relazione “del tutto “esplorativa, deduttiva, presuntiva””, priva di riscontri.

3. I motivi, congiuntamente esaminabili per la loro intima connessione, sono inammissibili.

3.1. La ricorrente – al di là del formale richiamo al vizio di violazione e falsa applicazione di legge – lungi dall’indicare le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie astratta applicabile alla vicenda processuale, allega un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito.

3.2. Le censure poi che su tale piano propriamente sono svolte si appalesano del pari inammissibili, in quanto estranee al paradigma censorio del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e risolventisi nella mera inammissibile sollecitazione di una nuova valutazione delle prove.

3.3. Anche la censura di violazione dell’art. 115 c.p.c., non risulta articolata nel modo in cui le Sezioni Unite di questa Corte l’hanno detto deducibile: “per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115, è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”” (Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598; v. anche Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074; Cass. 10/06/2016, n. 11892; Cass. 20/10/2016, n. 21238).

Devesi altresì ricordare che “se spetta indubbiamente alle parti proporre i mezzi di prova che esse ritengono più idonei ed utili, e se il giudice non può fondare la propria decisione che sulle prove dalle parti stesse proposte (e su quelle eventualmente ammissibili d’ufficio), rientra però nei compiti propri del giudice stesso stabilire quale dei mezzi offerti sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l’indagine sollecitata dalle parti, ed è perciò suo potere, senza che si determini alcuna violazione del principio della disponibilità delle prove, portato dall’art. 115 c.p.c., ammettere esclusivamente le prove che ritenga, motivatamente, rilevanti ed influenti al fine del giudizio richiestogli e negare (o rifiutarne l’assunzione se già ammesse: v. art. 209 c.p.c.) le altre (fatta eccezione per il giuramento) che reputi del tutto superflue e defatigatorie” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 21238 del 2016; Cass. n. 2141 del 1970).

3.4. Quanto poi alla dedotta violazione dell’art. 116 c.p.c., è appena il caso di rilevare come, in tema di ricorso per cassazione, la violazione di detta norma processuale (la quale, come noto, sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime) (Cass. 10/06/2016, n. 11892).

Peraltro il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. n. 11892 del 2016, cit.).

La ricorrente, per vero, in memoria, cita correttamente detto principio, ma ne propone una applicazione concreta contraddittoria, ben al di là dei detti ristretti limiti entro i quali detta violazione può configurarsi.

Ed invero, lungi dal denunciare il mancato rispetto, da parte del giudice a quo, del principio del libero apprezzamento delle prove (ovvero del vincolo di apprezzamento imposto da una fonte di prova legale) – ovvero lungi dall’evidenziare l’omesso esame, da parte del giudice a quo, di uno specifico fatto decisivo idoneo a disarticolare, in termini determinanti, l’esito della scelta decisoria adottata o un vizio costituzionalmente rilevante della motivazione (entro lo schema di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – si è limitata a denunciare un (preteso) cattivo esercizio, da parte della Corte di merito, del potere di apprezzamento del fatto sulla base delle prove selezionate, spingendosi a prospettare una diversa lettura nel merito dei fatti di causa, in coerenza ai tratti di un’operazione critica del tutto inammissibile in questa sede di legittimità.

Ancora in memoria essa invero insiste nella doglianza di omesso esame di fatto costitutivo asseritamente decisivo costituito dall’avvenuto rifacimento del bagno; è però evidente che, proprio alla luce del principio richiamato: a) si tratterebbe di vizio estraneo al dedotto error in procedendo, ma piuttosto riconducibile, in astratto, alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; b) in tale prospettiva non è certamente predicabile alcun “omesso esame”, trattandosi di circostanza invece espressamente considerata dal giudice a quo e in relazione alla quale esso anzi essenzialmente motiva il proprio diverso convincimento; c) ad essere contestati sono per vero proprio la ricognizione di tale fatto alla luce delle prove acquisite e l’esito del ragionamento logico deduttivo che, a partire da esso, è svolto in sentenza a giustificazione del convincimento espresso circa la provenienza delle infiltrazioni: ciò che colloca evidentemente la censura su di un piano prettamente valutativo e di merito, distante da alcuno dei tassativi vizi per i quali è consentito un sindacato di legittimità.

3.5. Ed invero anche la critica che, con il secondo motivo, sembra muoversi – al di là della formale enunciazione della rubrica – alla correttezza del ragionamento logico-deduttivo posto a base dell’espresso convincimento della sussistenza di un nesso causale, si muove secondo schemi estranei al giudizio di cassazione e impingenti piuttosto nella tipica valutazione di merito.

Giova in proposito rammentare che, come chiarito da Cass. Sez. U. 24/01/2018, n. 1785, “la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare (come altrove venne sostenuto: Cass. n. 17457 del 2007; successivamente. Cass. n. 17535 del 2008; di recente: Cass. n. 19485 del 2017) sotto i seguenti aspetti:

“aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;

“bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.

“Con riferimento a tale secondo profilo, si rileva che, com’è noto, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile -che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B (non è condivisibile, invece, l’idea che vorrebbe sotteso alla “gravità” che l’inferenza presuntiva sia “certa”).

“La precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad un indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti.

“La concordanza esprime – almeno secondo l’opinione preferibile – un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

“Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.

“Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.

“In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito – assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

“Occorre, dunque, una preliminare attività di individuazione del ragionamento asseritamente irrispettoso di uno o di tutti tali paradigmi compiuto dal giudice di merito e, quindi, è su di esso che la critica di c.d. falsa applicazione si deve innestare ed essa postula l’evidenziare in modo chiaro che quel ragionamento è stato erroneamente sussunto sotto uno o sotto tutti quei paradigmi.

“Di contro la critica al ragionamento presuntivo svolto da giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato daì paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali).

“In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti.

Terreno che, come le Sezioni Unite (Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente il nuovo n. 5 dell’art. 360 c.p.c., è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito ha omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria”.

Ebbene, nella specie, l’illustrazione del motivo non prospetta la falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, nei termini su indicati, ma si risolve nella generica contestazione della gravità dell’indizio, ovvero della validità logica del ragionamento probabilistico che lo correla al fatto da dimostrare senza però nemmeno indicare quale esso sia nè tanto meno le ragioni che dovrebbero farlo ritenere inidoneo nei sensi sopra detti.

Ne segue che il motivo non presenta – nemmeno nella sostanza – le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1.

4. Il ricorso, in definitiva, deve essere dichiarato inammissibile.

Non avendo l’intimato svolto difese nella presente sede, non v’è luogo a provvedere sul regolamento delle spese.

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019

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