Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2771 del 02/02/2017

Cassazione civile, sez. I, 02/02/2017, (ud. 01/12/2016, dep.02/02/2017),  n. 2771

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERNABAI Renato – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16288-2014 proposto da:

C.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI

CORRIDORI 48, presso l’avvocato ISIDORO TOSCANO, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato PIERLUIGI VULCANO, giusta procura

a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CO.CA.DA., nella qualità di amministratore unico e

legale rappresentante della ESSEDIEMME S.R.L., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE GAETANO KOCH 42, presso l’avvocato

VITANTONIO AMODIO, rappresentato e difeso dall’avvocato RAFFAELE

PADRONE, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 315/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 13/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO VALITUTTI;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato ALDO VERINI SUPPLIZI, con

delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato RAFFAELE PADRONE che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con ricorso in data 9 settembre 2009, Co.Ca.Da., in proprio e quale legale rappresentante della Essediemme s.r.l. adiva il Tribunale di Bari, chiedendo dichiararsi risolto il contratto di comodato stipulato con i coniugi Co.Do. (figlio dell’istante) e C.M.A., avente ad oggetto due appartamenti siti in (OMISSIS), il primo di sua proprietà, di quattro vani ed accessori, l’altro di tre vani e accessori di proprietà della società, con condanna dei medesimi al rilascio ed al risarcimento dei danni. I resistenti si costituivano eccependo che i due immobili – unificati in un unico appartamento – erano stati assegnati alla C., affidataria del figlio minore C., con il provvedimento di omologa della separazione personale dei coniugi in data 19 gennaio 2009. Con sentenza n. 166/2010, il Tribunale adito rigettava la domanda.

2. L’appello proposto dal Co. veniva parzialmente accolto dalla Corte di Appello di Bari con sentenza n. 315/2014, depositata il 13 marzo 2014 e notificata il 16 aprile 2014. Il giudice del gravame riteneva che l’esigenza di rispetto, da parte del comodante (padre del marito e legale rappresentante della società proprietaria di uno degli immobili), della destinazione dei due appartamenti per cui è causa a casa coniugale potesse considerarsi limitata, attesa la sopravvenuta separazione dei coniugi, ad uno solo di essi, considerato l’evidente sovradimensionamento rispetto alle esigenza di vita della sola madre, affidataria del figlio minore, e di quest’ultimo.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto, quindi, ricorso C.M.A. nei confronti di Co.Ca.Da., in proprio e quale legale rappresentante della Essediemme s.r.l., affidato a due motivi. Il resistente ha replicato con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo di ricorso C.M.A. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

1.1. Si duole la ricorrente del fatto che la Corte di Appello abbia dichiarato cessato il comodato relativamente ad uno dei due appartamenti, sebbene l’appellante non avesse in alcun modo dedotto che gli alloggi, di mq. 140 ciascuno, sarebbero sovradimensionati rispetto alle esigenze di vita della C. e del figlio minore. Il recesso di Co.Ca.Da. dal comodato sarebbe stato, invero, “esercitato ad nutum con riferimento ad entrambi gli appartamenti”, essendo stati tutti e due adibiti dai coniugi, Co.Do. (figlio dell’odierno resistente) e C.M.A. a casa coniugale. Di qui l’evidente vizio di ultrapetizione nel quale sarebbe incorsa l’impugnata sentenza.

1.2. Il motivo è inammissibile.

1.2.1. La ricorrente non ha, invero, nè riprodotto almeno nei punti essenziali, nè allegato al ricorso, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, l’atto di appello del Co., al fine di consentire alla Corte di valutare – nel rispetto del principio di autosufficienza – l’eventuale sussistenza del vizio di extrapetizione dedotto.

1.2.2. E’ bensì vero, infatti, che la Corte di cassazione, chiamata ad accertare un “error in procedendo” è giudice anche del fatto, ed abbia, pertanto, il potere di accedere agli atti di causa. E tuttavia, tale potere-dovere della Corte presuppone pur sempre l’ammissibilità della relativa censura, il che comporta che gli atti dai quali dovrebbe desumersi l’error in procedendo, oltre che indicati, siano anche riprodotti (nelle parti essenziali), nel rispetto del principio di autosufficienza, ai sensi delle disposizioni succitate (cfr., ex plurimis, Cass. 1170/2004; 8575/2005; 16245/2005). Tanto più che, nel caso concreto, l’allegazione da parte dell’appellante del sovradimensionamento dell’immobile adibito a casa coniugale si desume – al contrario di quanto assume la ricorrente – dalla parte di atto in appello trascritta, invece, dal Co. nel controricorso (p. 5), nel quale si fa espressa menzione del fatto che la nuora dell’appellante non avrebbe potuto “pretendere di vivere con l’unico figlio in una magione di 300 mq. pur disponendo di un proprio appartamento”.

1.3. Il mezzo, poichè inammissibile, non può, pertanto, trovare accoglimento.

2. Con il secondo motivo di ricorso, C.M.A. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 155 e 155 quater (nel testo applicabile ratione temporis), nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione s un punto decisivo del giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2.1. La ricorrente si duole del fatto che la Corte di Appello abbia erroneamente ritenuto – peraltro con motivazione del tutto incongrua e contraddittoria – che l’esigenza, sancita dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte, cui lo stesso giudice di appello ha affermato di aderire, di rispetto da parte del comodante (padre del marito e legale rappresentante della società proprietaria di uno degli immobili) della destinazione dei due appartamenti per cui è causa a casa coniugale potesse considerarsi limitata, attesa la sopravvenuta separazione dei coniugi, ad uno solo di essi, considerato l’evidente sovradimensionamento rispetto alle esigenza della sola madre, affidataria del figlio minore e di quest’ultimo. Osserva, per contro, l’istante che il provvedimento di assegnazione, disposto nell’interesse del minore, aveva avuto ad oggetto l’intero complesso immobiliare, ossia i due appartamenti unificati dai comodatari, e che, pertanto, esso non fosse rivedibile da parte del giudice di appello, perdurando la loro destinazione ad utilizzazione come casa familiare.

2.2. La censura è infondata.

2.2.1. La sentenza di appello ha, invero, accertato che i due appartamenti per cui è causa erano stati concessi in comodato ai coniugi e che “li stessi tutt’ora li abitavano” (p. 4), come affermato dallo stesso appellante Co.Ca.Da., e che entrambi gli immobili erano stati assegnati alla moglie convivente con il figlio minore (p. 5). In tale prospettiva, la Corte territoriale ha respinto il motivo di appello con il quale il Co. aveva dedotto che gli immobili in discussione sarebbero stati adibiti a studi professionali e sarebbero stati solo saltuariamente occupati. Il giudice di seconde cure ha, tuttavia, dichiarato cessato il comodato limitatamente all’appartamento di proprietà della società, disponendo, pertanto, il rilascio parziale dell’immobile, considerando che, per effetto della separazione e dell’allontanamento del marito dal nucleo familiare, l’occupazione dei due appartamenti – per un’estensione complessiva di ben 280 mq. – fosse spropositata in relazione alle esigenze abitative della sola madre e del figlio minore.

2.2.2. Ebbene, le conclusioni cui è pervenuto il giudice di seconde cure sono condivisibili, sebbene la motivazione debba essere integrata.

2.2.2.1 Va osservato, al riguardo, che il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa familiare, può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi – salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorchè diverso dal comodatario – il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare. Ne consegue che, in tale evenienza, il rapporto, riconducibile al tipo regolato dagli artt. 1803 e 1809 c.c., sorge per un uso determinato ed ha – in assenza di un’espressa indicazione della scadenza – una durata determinabile “per relationem”, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall’insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che avevano legittimato l’assegnazione dell’immobile (cfr. Cass. S.U. 20448/2014; Cass. 2506/2016).

2.2.2.2. Ne consegue che, in sede di valutazione della domanda di rilascio dell’immobile adibito a casa familiare, proposta dal comodante, il giudice è tenuto ad accertare, ai sensi dell’art. 1810 c.c., se l’uso cui il bene attribuito in comodato è stato adibito perduri, atteso che nel comodato senza determinazione di durata la restituzione del bene è dovuta quando è cessato l’uso cui la cosa era stata destinata. E non può revocarsi in dubbio che – essendo possibile, perfino in sede di assegnazione della casa familiare da parte del giudice della separazione, un’assegnazione parziale al coniuge affidatario di figli minori, se essa non contrasta con l’interesse preminente di questi ultimi ex art. 155 quater c.c. (applicabile ratione temporis) (Cass. 8580/2014) – siffatta verifica vada condotta in relazione all’intero bene, nel senso che esso debba nella sua totalità essere adibito a casa familiare, nell’interesse dei figli minori (o maggiorenni non autosufficienti) conviventi con il coniuge. In caso contrario, il giudice non potrà che procedere alla restituzione, quanto meno parziale, del bene al terzo comodante, legittimo proprietario, il cui diritto dominicale non può essere ulteriormente compresso, laddove non sia giustificato dall’utilizzazione dell’intero immobile come casa familiare, nell’interesse dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti. Dal disposto dell’art. 1022 c.c. si evince, infatti, un principio generale secondo il quale il diritto di abitazione di una casa può essere esercitato, da colui che ne sia titolare, solo nei limiti del soddisfacimento dei bisogni suoi e della sua famiglia. Ed è del tutto evidente che tale accertamento, vertendo su una situazione di fatto contingente, non può che essere demandato al giudice di merito.

2.2.3. Orbene, nel caso di specie, la Corte di Appello ha accertato in fatto che entrambi gli alloggi avevano un’estensione di ben 140 mq. ciascuno e che l’appellante Co.Ca.Da. aveva evidenziato come il godimento di quasi 300 mq. di immobile in capo alla nuora ed al nipote fosse sovradimensionato rispetto allo stesso interesse di quest’ultimo, soprattutto dopo che anche il figlio Co.Do., a seguito della separazione, aveva lasciato l’abitazione familiare. La Corte territoriale ha, altresì, accertato che, a fronte di tali allegazioni dell’appellante, i coniugi appellati “nulla hanno dedotto al riguardo”. Ed, in verità, neppure nel presente giudizio di legittimità la ricorrente ha dedotto, con la censura in esame, specifiche circostanze o elementi probatori tali da evidenziare che sia conforme all’interesse del minore il perdurare dell’uso dell’intero immobile per la considerevolissima consistenza suindicata.

2.2.4. Va, infine, rilevato che il denunciato vizio di motivazione dell’impugnata sentenza, sotto il profilo della insufficienza e contraddittorietà, non può ritenersi sussistente. nella vigenza del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (applicabile ratione temporis). L’anomalia motivazionale costituzionalmente rilevante, posta a fondamento della previsione novellata, si esaurisce, invero, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. S.U. 8053 e 8054/2014; Cass. 21257/2014; 23828/2015). E non può revocarsi in dubbio che siffatto radicale vizio della motivazione della sentenza di appello, sia da escludere nel caso di specie.

2.3. La doglianza suesposta va, pertanto, disattesa.

3. Il ricorso proposto da C.M.A. deve essere, di conseguenza, integralmente rigettato.

4. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, nella misura di cui in dispositivo.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione;

rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 7.000,00, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie ed accessori di legge. Ai sensi del c D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2017

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