Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27709 del 03/12/2020

Cassazione civile sez. I, 03/12/2020, (ud. 03/11/2020, dep. 03/12/2020), n.27709

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9641/2015 proposto da:

Ge Capital Servizi Finanziari S.p.a., in persona procuratore pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Pierluigi da

Palestrina n. 63, presso lo studio dell’avvocato Contaldi Mario, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Adriano Paolo,

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l., in persona del curatore Dott.ssa

D.L.L., elettivamente domiciliato in Roma, Via XX Settembre n. 3,

presso lo studio dell’avvocato Rappazzo Antonio, rappresentato e

difeso dall’avvocato Rocco Di Torrepadula Nicola, giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 236/2015 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 06/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

03/11/2020 dal Cons. Dott. NAZZICONE LOREDANA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Viene proposto ricorso, sulla base di due motivi, avverso la sentenza della Corte d’appello di Torino del 6 febbraio 2015, n. 236, la quale, in riforma della decisione di primo grado di rigetto della domanda, ha condannato la GE Capital Servizi Finanziari s.p.a. al pagamento, in favore del Fallimento (OMISSIS) s.r.l., della somma di Euro 20.362,02, oltre accessori, in relazione al contratto di locazione finanziaria avente ad oggetto l’autovettura “Porsche Cayenne”, concluso tra le parti il 1 aprile 2005 e risolto dalla concedente nell’aprile del 2006, essendo l’utilizzatrice morosa sin dal gennaio di quell’anno per il pagamento dei canoni.

Resiste con controricorso l’intimata procedura.

Le parti hanno depositato le memorie di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso vanno così riassunti:

1) violazione o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e L. Fall., art. 96, u.c., in quanto la corte del merito, in contrasto con il disposto della legge, che prevede l’efficacia solo ai fini del concorso del decreto di esecutività dello stato passivo, ha reputato l’efficacia di giudicato con riguardo alle affermazioni del giudice delegato al fallimento, senza che questi abbia, ovviamente, potuto nemmeno quantificare le pretese della procedura, che non erano affatto oggetto del giudizio di verifica dei crediti, se non nei limiti di una eccezione di compensazione; del resto, mai il curatore, nè prima del procedimento di verifica nè durante lo stesso, aveva avanzato pretese verso la concedente;

2) violazione o falsa applicazione degli artt. 3,24 e 111 Cost., perchè, così facendo, la corte d’appello ha privato la ricorrente di tutte le garanzie di difesa, non assicurate dal rito fallimentare con riguardo al suo presunto debito verso il fallimento, e dal momento che il creditore deve essere ritenuto libero di non proporre opposizione al passivo, quando – come nella specie – esso sia incapiente, senza per questo essere penalizzato in ordine ad altre posizioni soggettive.

2. – Il due motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono fondati.

2.1. – Con la domanda di insinuazione al passivo fallimentare, la GE Capital Servizi Finanziari s.p.a. aveva chiesto l’ammissione per la somma di Euro 27.009,41, comprendente i canoni scaduti al momento della risoluzione contrattuale, i canoni a scadere ed il prezzo di acquisto attualizzati; ciò, sulla base dell’art. 15 del contratto, il quale, in deroga all’art. 1526 c.c., prevedeva, per l’ipotesi di risoluzione, che le rate riscosse sarebbero restate alla concedente, la quale aveva, però, l’obbligo di corrispondere all’utilizzatrice l’ottanta per cento del valore del veicolo, recuperato mediante la vendita del bene.

2.2. – Nel sintetico provvedimento reso dal g.d. all’esito del giudizio di verificazione, non oggetto di opposizione L. Fall., ex art. 98, dalla creditrice, l’istanza è stata respinta, con rinvito” alla procedura ad agire per la restituzione dei canoni pagati sino al momento dell’inadempimento.

Infatti, il g.d. ha stabilito: “rilevato che trattasi di leasing traslativo con conseguente applicazione dell’art. 1526 c.c., comma 1, rigetta la domanda, dovendo il concedente restituire le rate riscosse che pertanto il curatore è invitato a richiedere al medesimo concedente previo supplemento del programma di liquidazione”.

Ciò è stato motivato con l’applicazione della disposizione comune dell’art. 1526 c.c., comma 1 – secondo cui “Se la risoluzione del contratto ha luogo per l’inadempimento del compratore, il venditore deve restituire le rate riscosse, salvo il diritto a un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno” – in luogo della clausola contrattuale, reputata dal g.d. inapplicabile, per avere questi qualificato in negozio come leasing traslativo.

2.3. – La corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che tra le parti debba fare stato il provvedimento del giudice delegato, in quanto divenuto definitivo per mancata opposizione allo stato passivo e, quindi, costituente giudicato tra le parti, ai sensi della L. Fall., art. 96, u.c. e art. 120, u.c..

L’effetto di giudicato è stato affermato in ordine alla necessità di disapplicare la clausola contrattuale ed applicare, invece, l’art. 1526 c.c.; all’insussistenza del diritto del concedente ad ottenere le somme contrattualmente dovute per il caso di inadempimento; all’obbligo del medesimo di restituire le somme riscosse ed al corrispondente diritto del curatore ad ottenere la restituzione dei canoni pagati.

Si è ritenuta quindi non più contestabile, da un lato, l’inapplicabilità dell’art. 15 del contratto circa l’obbligo del venditore di restituire le rate pagate e l’applicazione, invece, dell’art. 1526 c.c., comma 1 (dovendosi semmai proporre con l’opposizione al passivo la domanda di equo compenso), e, dall’altro lato, l’insussistenza di qualsiasi credito in capo alla concedente.

2.4. – Tale statuizione non rispetta i principi di diritto elaborati da questa Corte nè in tema di leasing, nè sugli effetti dell’accertamento ai fini del concorso.

2.4.1. – In primo luogo, occorre richiamare il principio, secondo cui è ammessa la deroga all’art. 1526 c.c., ad opera di pattuizioni tra i contraenti.

Questa Corte ha chiarito come, in caso di risoluzione anticipata per inadempimento dell’utilizzatore, le parti possano convenire la deroga all’art. 1526 c.c.: ciò si è affermato, ad esempio, con riguardo al patto, avente natura di clausola penale, che stabilisca l’irripetibilità dei canoni già versati e la detrazione dalle somme dovute al concedente dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito, essendo tale clausola coerente con la previsione contenuta nell’art. 1526 c.c., comma 2 (Cass. 12 giugno 2018, n. 15202);

Circa il funzionamento dell’art. 1526 c.c., si è precisato come, anche nel leasing traslativo, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore quest’ultimo ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, ma solo dopo la restituzione della cosa, ed il concedente ha diritto, oltre che al risarcimento del danno, a un equo compenso per l’uso dei beni oggetto del contratto (Cass. 20 settembre 2017, n. 21895); e che spetta all’utilizzatore l’equo compenso, con riguardo alla remunerazione per il godimento del bene, al deprezzamento conseguente alla sua incommerciabilità come nuovo e al logoramento per l’uso, mentre è voce a sè ed ulteriore quella del risarcimento del danno per il deterioramento anormale della cosa ed il mancato guadagno (cfr. Cass. 13 novembre 2018, n. 29020); mentre spetta in ogni caso al concedente, in caso di applicazione dell’art. 1526 c.c., la proprietà della cosa, oltre a conservare i canoni maturati fino al momento della risoluzione (Cass. 24 gennaio 2020, n. 1581).

2.4.2. – In secondo luogo, i limiti del cd. giudicato endofallimentare, previsti dalla L. Fall., art. 96, comma 6 – secondo cui “Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi di cui all’art. 99, producono effetti soltanto ai fini del concorso” – implicano una precisa individuazione e limitazione dell’oggetto del processo fallimentare: che è nel senso secondo cui gli effetti della decisione non vanno oltre il concorso, perchè quella decisione non fa stato fra le parti fuori dal fallimento.

Da tempo, invero, è nota la diversa attitudine alla stabilità dei provvedimenti conclusivi dei rispettivi giudizi, ordinario e fallimentare: il primo con autorità di giudicato ex art. 2909 c.c., il secondo con valenza endoconcorsuale L. Fall., ex art. 96, comma 6.

Sin dalla riforma fallimentare del 2006, l’ordinamento concorsuale ha visto rafforzarsi i due principi fondamentali della competenza funzionale inderogabile del tribunale fallimentare (L. Fall., art. 24) e della obbligatorietà ed esclusività delle forme dell’accertamento del passivo (L. Fall., art. 52), entrambi strumentali agli obbiettivi di specializzazione, celerità e concentrazione delle procedure fallimentari e, segnatamente, del procedimento di accertamento del passivo fallimentare (così, in motivazione, Cass. 7 febbraio 2020, n. 2990 e Cass. 7 febbraio 2020, n. 2991).

L’attuazione, nella sede fallimentare, delle domande intese a ottenere il riconoscimento del diritto di partecipare al concorso, o di un diritto reale o restitutorio su beni acquisiti all’attivo, è riconducibile al principio, dettato dall’art. 52, della obbligatorietà ed esclusività del procedimento di verifica del passivo per quanti intendano far valere pretese verso il fallimento (Cass. 2439/2006); e, si noti, il principio è ancora ribadito dal D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, art. 204, secondo cui il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all’esito dei giudizi impugnatori producono effetti soltanto ai fini del concorso.

Ne deriva il principio della natura endofallimentare dell’accertamento del credito nell’ambito del procedimento di ammissione al passivo e delle sue impugnazioni, con effetti dunque limitati al concorso allo stato passivo (e multis: Cass. 19 febbraio 2018, n. 3957; Cass. 23 gennaio 2018, n. 1646; Cass. 14 marzo 2017, n. 6524; Cass. 13 settembre 2017, n. 21201; Cass. 14 gennaio 2016, n. 525; Cass. 6 ottobre 2015, n. 19960; Cass. 29 marzo 2012, n. 5095; Cass. 9 luglio 2008, n. 18832).

Ed anche il disposto della L. Fall., art. 120, comma 4, secondo cui il decreto o la sentenza con la quale il credito è stato ammesso al passivo costituisce prova scritta per ottenere un decreto ingiuntivo contro il debitore tornato in bonis, lascia permanere, pur sempre, in capo al debitore la facoltà di proporre opposizione al decreto ingiuntivo e, dunque, contestare l’esistenza del credito.

In definitiva, il giudicato endofallimentare copre solo la statuizione di rigetto o di accoglimento della domanda di ammissione, precludendone il riesame, mentre non si estende alla eventuali pretese vantate dal curatore nei confronti del creditore, che non formano oggetto della pronuncia del g.d..

2.4.3. – Nella specie, pacifica la risoluzione del contratto di leasing prima del fallimento a causa dell’inadempimento dell’utilizzatore – che pagò solo le prime nove su trentacinque rate dei canoni previste nel contratto avente ad oggetto una “Porsche Cayenne”, e fu inadempiente sin dal gennaio 2006 – onde la concedente si avvalse della clausola risolutiva espressa, sulle conseguenze di tale risoluzione restava, dunque, da stabilire la situazione dei reciproci debiti e crediti.

Come risulta dalla decisione impugnata e dal ricorso e controricorso in sede di legittimità, da una parte – applicando la clausola n. 15 del contratto – l’esito sarebbe quello del sorgere dell’obbligo, in capo all’utilizzatore, di pagare i canoni a scadere ed il prezzo finale di acquisto, attualizzati al momento della risoluzione, e scomputato il prezzo recuperato dalla vendita del bene (nella misura dell’80%); dall’altra parte, ove fosse stata, invece, invalida tale clausola, applicandosi l’art. 1526 c.c., l’esito sarebbe stato allora quello dell’obbligo, in capo alla concedente, di restituire i canoni già ricevuti in pagamento al momento della risoluzione per inadempimento, nonchè il suo diritto al cd. equo compenso ed al risarcimento del danno patito.

Nella specie, la concedente agì in sede fallimentare, atteso il fallimento della società utilizzatrice dichiarato nelle more, chiedendo applicarsi l’art. 15 del contratto, con le conseguenze sopra indicate: tesi disattesa dal g.d., che negò, dunque, l’esistenza di tale credito. Nessuna opposizione L. Fall., ex art. 98, fu proposta, con la conseguente definitività dello stato passivo ed esclusione del credito de quo nell’ambito del cd. giudicato endofallimentare.

Tuttavia, altra è la predetta conclusione del procedimento volto all’insinuazione al fallimentare, altro è il giudizio di merito, intrapreso innanzi al giudice di merito con l’ordinario processo di cognizione dal fallimento, ove questo ha sostenuto la seconda tesi esposta.

In tale giudizio, invero, non può avere effetti di giudicato l’esito della questione sull’ammissione al passivo del credito della concedente, risolta in sede fallimentare: dovendosi in sede ordinaria di cognizione, al contrario, valutare ex novo, in definitiva, se la clausola contrattuale derogatoria dell’art. 1526 c.c., sia valida oppur no e, di conseguenza, gli effetti della risoluzione, con esclusivo riguardo al diritto del fallimento di ottenere, oppure no, la restituzione anche dei canoni versati prima del suo inadempimento.

3. – La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, perchè provveda alla decisione della domanda proposta dal fallimento, applicati i principi esposti.

Alla stessa si demanda pure la liquidazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2020

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