Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27682 del 20/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 20/12/2011, (ud. 17/11/2011, dep. 20/12/2011), n.27682

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16507-2009 proposto da:

Z.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA STAZIONE

DELLA STORTA 2, presso lo studio dell’avvocato LAPENNA GIUSEPPE, che

lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.C.M., S.M.R., D.C.C.;

– intimati –

nonchè da:

D.C.M., S.M.R., D.C.C.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VALLORIATE 38/L, presso lo

studio dell’avvocato POLCINO VALERIA, rappresentati e difesi dagli

avvocati MASSARO PIETRO, ANGELO MASSARO, giusta delega in atti;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

Z.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2312/2008 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 09/01/2009 r.g.nb. 2591/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/11/2011 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato LA PENNA GIUSEPPE;

udito l’Avvocato MASSARO ANGELO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale, inammissibilità dell’incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Brindisi dichiarava il difetto di legittimazione passiva di Z.M.C. e confermava nel resto, sia pure con motivazione parzialmente diversa, la sentenza del Pretore di San Vito dei Lombardi del 3 maggio 1993, che, previa declaratoria della propria competenza, in relazione a rapporto “sussumibile sub art. 409 c.p.c., n. 3”, aveva rigettato la domanda proposta da Z. G. contro il padre Z.V. (al quale sono succeduti, nel corso del giudizio d’appello, gli eredi) – per ottenere quanto dovuto in dipendenza dell’accertamento della propria partecipazione alla comunione tacita familiare (dal 1962 al 1985) – essenzialmente in base al rilievo che “il rapporto dedotto potrebbe essere inquadrato, al più, come rapporto di lavoro subordinato” ma che “certamente non poteva ritenersi sussistente l’impresa familiare disciplinata dall’art. 230 bis c.c.”.

Osservava il giudice d’appello, quanto al periodo non coperto da prescrizione decennale (cioè a far tempo dal 1978), che non poteva configurarsi nè un rapporto di lavoro subordinato (“perchè la prestazione (…) era svolta sulla base dell’affectio familiae”) e neppure la partecipazione ad una impresa familiare (ex art. 230 bis c.c.), in quanto “l’azienda è stata sempre gestita, in maniera totalitaria e autoritativa, dal padre-proprietario” (con la conseguenza che esulava qualsiasi “partecipazione dei familiari alle decisioni)”; nè una comunione tacita familiare in agricoltura (ex art. 2140 c.c., abrogato dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 205), esulandone, nella specie, l’elemento essenziale della “comunione di vita, di lavoro e di interessi”.

Tale sentenza veniva ricorsa per cassazione dallo Z.. Questa Corte, con sentenza n. 20070 del 2004, accoglieva parzialmente il ricorso affermando che “il lavoro continuativamente prestato dal figlio nell’impresa del padre – che non dia luogo a rapporto di lavoro subordinato o ad altro rapporto giuridico – costituisce, comunque, partecipazione ad impresa familiare”; cassava dunque la sentenza impugnata e rinviava, in relazione al motivo accolto, alla corte d’appello di Lecce. Quest’ultima, con sentenza depositata il 9 gennaio 2009, “rigettava l’appello proposto dal Z. nei confronti di S.M.R. e degli eredi di Z.M.C.”.

Osservava il giudice del rinvio che pur “potendosi” configurare nella specie una impresa familiare, non era tuttavia riscontrabile alcun diritto azionabile dallo Z. “atteso che, oltre a difettare la prova degli ipotizzati utili ed incrementi in proporzione della quantità e qualità del lavoro da lui prestato (c.t.u. in atti), vi è la positiva acquisizione nel processo della circostanza (evidenziata già col ricorso introduttivo e ribadita con quello in riassunzione) che lo Z. dal 1977 al 1985 ha continuato a svolgere la propria attività lavorativa nell’ambito della comunione tacita familiare dividendo il ricavato col genitore … sicchè risultava per tabulas che il ricorrente percepì la sua parte del ricavato tratto dalla conduzione dell’impresa familiare”.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione lo Z., affidato a due motivi, poi illustrati con memoria. Resistono S.M.R., M. e D.C.C., con controricorso, contenente ricorso incidentale.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve pregiudizialmente disporsi la riunione dei due ricorsi avverso la medesima sentenza ex art. 335 c.p.c..

1. -Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia la violazione degli artt. 392 e 394 c.p.c. per avere la corte territoriale rigettato l’appello, non considerando che il giudizio di rinvio costituisce una fase nuova ed autonoma diretta a statuire per la prima volta sulle domande proposte dalle parti.

Ad illustrazione del motivo formulava il prescritto quesito di diritto. Il motivo è per un verso inammissibile, risultando la censura così come proposta priva di effettivo interesse, per altro verso infondato. Se è infatti vero che il giudizio di rinvio costituisce una fase autonoma, ed autonomamente disciplinata (ad esempio quanto al suo svolgimento entro i limiti segnati dalla sentenza di annullamento, Cass. 12 gennaio 2010 n. 327), ciò non toglie che in esso “le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza annullata” ex art. 394 c.p.c., comma 2 (Cass. 2 febbraio 2007 n. 2309; Cass. 6 maggio 2011 n. 199), sicchè non risulta erronea la statuizione della corte territoriale di rigetto dell’appello (Cass. 29 marzo 2006 n. 7243, Cass. 30 ottobre 2003 n. 16387). La citata sentenza n. 2309 del 2007, espressamente chiarisce che “Nel giudizio di rinvio, le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza annullata, e ogni riferimento a domande ed eccezioni pregresse e, in genere, alle difese svolte, ha l’effetto di richiamare univocamente ed integralmente domande, eccezioni e difese assunte e spiegate nel giudizio originario, atteso che, a seguito della riassunzione, prosegue il processo originario”.

2. -Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 230 bis c.c. e artt. 101 e 102 c.p.c., lamentando che il giudice del rinvio ritenne che l’impresa familiare avrebbe dovuto includere altri familiari (parenti o affini) pretermessi invece dal giudizio, chiedendo, nel quesito di diritto, alla Corte se il partecipante all’impresa familiare possa o meno richiedere giudizialmente al titolare unico dell’impresa l’adempimento delle prestazioni di cui all’art. 230 bis c.p.c..

La censura si appalesa inammissibile sotto un duplice profilo.

In primo luogo tale risultando il quesito di diritto che, secondo il costante orientamento di questa Corte “deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

E’, pertanto, inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge”, Cass. 17 luglio 2008 n. 19769.

Nella specie, inoltre, la denunciata statuizione della corte di merito risulta un mero inciso privo di alcun rilievo decisorio (“a parte la considerazione che …”, pag. 5 sentenza), avendo essa in effetti esaminato il merito della domanda a prescindere dalla presenza in giudizio degli altri familiari.

3. – Con ulteriore motivo lo Z. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e segg. e 2909 c.c., lamentando che secondo la corte salentina emergeva dagli atti “la circostanza (evidenziata già col ricorso introduttivo e ribadita con quello in riassunzione) che lo Z. dal 1977 al 1985 ha continuato a svolgere la propria attività lavorativa nell’ambito della comunione tacita familiare dividendo il ricavato col genitorè … sicchè risultava per tabulas che il ricorrente percepì la sua parte del ricavato tratto dalla conduzione dell’impresa familiare”.

Il ricorrente principale si duole, in contraddizione rispetto al primo motivo di ricorso, che in nessuna precedente fase del giudizio era emerso che egli avesse già regolato le sue ragioni di credito con il padre. Che anzi il Tribunale di Brindisi dispose c.t.u. per accertare la quantità e qualità del lavoro prestato dallo Z. e gli acquisti effettuati con l’apporto dei suoi utili. Che sussisteva giudicato sul fatto che egli non aveva percepito alcunchè nell’ambito dell’impresa familiare e che la parola dividere (col padre i ricavati), non significava spartire ma condividere, giusta l’essenza dell’impresa familiare.

Anche tale motivo risulta in parte inammissibile e per il resto infondato.

Deve in primo luogo osservarsi che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex plurimis, Cass. 16 luglio 2010 n. 16698). Il quesito di diritto proposto, inoltre (“se allorquando la fase rescissoria venga devoluta dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio a seguito dell’annullamento della sentenza di appello, questo possa sindacare la fattispecie reinterpretandola si da renderla difforme da come già esaminata ed a lui pervenuta”), risulta in contrasto col consolidato orientamento di legittimità (ex plurimis, Cass. sez. un. 12 marzo 2008 n. 6530, secondo cui “La formulazione del quesito di diritto prevista dall’art. 366 bis c.p.c. postula l’enunciazione, da parte del ricorrente, di un principio di diritto diverso da quello posto a base del provvedimento impugnato e, perciò, tale da implicare un ribaltamento della decisione assunta dal giudice di merito”), e presuppone inoltre, come chiarito nel motivo di cui costituisce illustrazione, un indimostrato giudicato sul mancato percepimento di qualsivoglia incremento patrimoniale conseguente la sua partecipazione all’impresa familiare, invocando allo scopo sia la c.t.u. disposta nel giudizio dinanzi al Tribunale – che in contrasto col principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non viene nè allegata, nè riprodotta in ricorso (nè indicatane l’esatta ubicazione all’interno dei fascicoli di causa, Cass. sez. un., ordinanza 25 marzo 2010 n. 7161) – sia una statuizione in tal senso contenuta nella sentenza rescindente, che si è limitata ad affermare la sussistenza nella specie di una impresa familiare.

L’accertamento compiuto dal giudice di rinvio, basato sulla menzionata c.t.u. e sulla interpretazione della domanda originaria, non specificamente censurata, rendono dunque lo stesso incensurabile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010 n. 7394) 4. – Il ricorso principale deve pertanto respingersi.

5. – Il ricorso incidentale (avente ad oggetto il difetto di legittimazione passiva dei fratelli M. e D.C.C.), risulta inammissibile, essendo la notifica del ricorso principale del 26 giugno 2009 e risultando la notifica dell’incidentale in data 21 settembre 2009.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale. Condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 40,00, Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2011

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