Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27681 del 21/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 27681 Anno 2017
Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: BLASUTTO DANIELA

ORDINANZA

sul ricorso 25327-2012 proposto da:
BARBON LUCA C.F. BRBLCU83M11L407B,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA FILIPPO CORRIDONI 25, presso
lo studio dell’avvocato MARCO DE FAZI, rappresentato
e difeso dagli avvocati RENATO AMBROSIO, STEFANO
BERTONE, giusta delega in atti;
– ricorrente contro
2017
3297

MINISTERO DELLA SALUTE C.F. 80184430587, in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso
dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui
Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI
PORTOGHESI 12;

Data pubblicazione: 21/11/2017

- controricorrente

avverso la sentenza n. 279/2012 della CORTE D’APPELLO

/
/

di TORINO, depositata il 03/05/2012 R.G.N. 367/2011.

R.G. 25327/2012

RILEVATO
che con sentenza n. 279/12 la Corte di appello di Torino, accogliendo l’appello principale
proposto dal Ministero della Salute, respinto quello incidentale, ha riformato la sentenza di
primo grado e rigettato la domanda di Barbon Luca, che aveva agito per il riconoscimento
dell’indennizzo ex L. n. 210 del 1992 sul presupposto di essere affetto da “epatopatia
cronica HCV correlata alla positività per HCV”, contratta a seguito di numerose trasfusioni

che il Ministero della Salute aveva censurato la pronuncia di primo grado, in quanto i due
C.t.u. medico-legali nominati avevano concluso nel senso della insussistenza di un danno
epatico significativo, riscontrando un disturbo dell’adattamento concausato dalla
consapevolezza della positività all’anticorpo HCV e avevano ricondotto tale disturbo psichico
nella Tabella B di cui al d.P.R. n. 834/1981;
che la Corte di appello, accogliendo tali censure, ha osservando quanto segue:
– per accedere ai benefici della legge 210/1992, non è sufficiente l’accertamento di una
patologia da epatite post-trasfusionale e neppure la cronicizzazione della stessa, essendo
necessaria una situazione di “danno irreversibile”, e quindi permanente, all’integrità
psicofisica (art. 1, commi 1 e 3, L. n. 210/92), che abbia prodotto un infermità classificabile
in una delle otto categorie dalla Tabella A allegata al d.P.R. n. 834/1981; in particolare, il
beneficio non può essere riconosciuto ove si riscontri uno stato “quiescente” della malattia;
– nel caso di specie, doveva essere esclusa una situazione di danno attuale, irreversibile e
permanente sulla base della relazione del primo C.t.u., il quale aveva riferito che la
“persistente negatività dell’HCV (almeno tre controlli tra il 1998 e il 2010)” portava ad
escludere l’infezione conclamata del virus C e che il quadro sierologico (persistente positività
all’anticorpo anti-HCV) doveva essere interpretato come “reliquato anamnestico di una
epatite acuta da HCV a risoluzione spontanea insorta prima di rilievo della positività
anticorpale (1992) in età infantile…”;
– l’indennizzo ex L. n.210/1992 non poteva essere riconosciuto neppure in considerazione
della patologia psichica riscontrata a carico del Barbon, in quanto la stessa era risultata
ascrivibile alla Tabella B allegata al d.P.R. n. 384/1981, mentre la legge richiede che il
danno all’integrità psicofisica sia inquadrabile in una delle otto categorie di cui alla Tabella A
allegata allo stesso decreto;
che avverso tale sentenza Barbon Luca ha proposto ricorso affidato a nove motivi, cui ha
opposto difese il Ministero della Salute con controricorso;
CONSIDERATO
che il ricorso denuncia:

alle quali era stato sottoposto fin dal 1984, essendo emofiliaco;

R.G. 25327/2012

– con il primo e il secondo motivo, violazione e falsa applicazione della L. n. 210/92 e degli
artt. 61,62, 195 e 196 c.p.c., omessa motivazione, per avere la sentenza erroneamente
affermato che né la patologia epatica, né il disturbo dell’umore fossero ascrivibili alla Tabella
A allegata al d.P.R. n. 834/81, respingendo l’istanza di rinnovazione della consulenza tecnica
d’ufficio malgrado la specifica richiesta avanzata in tal senso dal ricorrente in primo grado e
ribadita in appello, a seguito dei rilievi critici mossi alla prima c.t.u.;
– con il terzo e il quarto motivo, violazione e falsa applicazione della L. n. 210/92 e dell’art.
195 c.p.c. in relazione al d.P.R. n. 834/1981, in connessione con l’art. 32 Cost., omessa

decreto, se del caso anche mediante valutazione complessiva unitaria delle due distinte voci
di danno sofferto, e per avere negato la rinnovazione delle consulenze tecniche di ufficio,
malgrado la richiesta formulata dal ricorrente in tal senso;
– con il quinto motivo, omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia per mancato esame delle doglianze con cui era stata denunciata l’erroneità
della decisione di primo grado laddove non aveva ritenuto di dover valutare
cumulativamente e unitariamente i pregiudizi sofferti dal ricorrente a seguito del contagio
da HCV;
– con il sesto e il settimo motivo, violazione degli artt. 115, 116, 416 c.p.c. e art. 2697 c.c.
in materia di distribuzione dell’onere probatorio, violazione del diritto alla prova e omessa
motivazione, per mancata ammissione delle prove testimoniali dedotte per dimostrare la
sussistenza di una rilevante entità del danno psichico;
– con l’ottavo motivo, omessa motivazione su un punto decisivo della controversia per
mancato esame dei documenti prodotti nel fascicolo di primo grado, idonei a comprovare la
configurabilità di danni organici da c.d. brain fog

neuroinvasione, come dedotto nel ricorso

introduttivo e nuovamente prospettato con appello incidentale;
– con il nono motivo, violazione degli artt. 3 e 32 Cost., dell’art. 2059 c.c., della Tabella A
allegata al d.P.R. n. 834/81, in relazione alla sentenza n. 307 del 1990 della Corte
costituzionale; inadeguatezza delle Tabelle di legge per mancata previsione di pregiudizi di
natura morale, esistenziale, relazionale e familiare,
che i motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, in quanto involgono
questioni tra loro connesse, sono infondati per le ragioni che seguono:
1. innanzitutto, il vizio, denunciabile in sede di legittimità, della sentenza che abbia prestato
adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio (nel caso in esame, alla prima c.t.u.
espletata in primo grado) è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della
scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell’omissione degli accertamenti strumentali dai
quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta
diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico
che si traduce in un’inammissibile critica del convincimento del giudice; la giurisprudenza di

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motivazione, per mancata ascrivibilità dei danni psichici della Tabella A allegata al predetto

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questa Corte è del tutto consolidata al riguardo (cfr. ex multis, Cass. n. 1652 del 2012, n.
569 del 2011, n. 9988 del 2009, n. 8654 del 2008; v. pure Cass. 7041 del 2013); nel caso
di specie, le critiche si incentrano sulla diagnosi formulata dal primo C.t.u. circa
l’insussistenza di un danno epatico irreversibile e sulla pretesa errata qualificazione
diagnostica del disturbo psichico ai fini della riconducibilità nel novero di una della categorie
della Tabella A allegata al d.P.R. n. 834/81; si verte dunque evidentemente in un’ipotesi di
mero dissenso diagnostico, tanto più in presenza di ben due consulenze espletate in primo
grado per le indagini medico-legali sollecitate dal ricorrente;

corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte in materia, in quanto, in tema di
indennizzo in favore di soggetti danneggiati da epatite post-trasfusionale, l’art. 1, comma 3,
della I. n. 210 del 1992, letto unitamente al successivo art. 4, comma 4, deve interpretarsi
nel senso che l’indennizzo spetta a coloro che presentino danni irreversibili che possano
inquadrarsi – pur alla stregua di un mero canone di equivalenza e non già secondo un
criterio di rigida corrispondenza tabellare – in una delle infermità classificate in una delle
otto categorie di cui alla tabella B, annessa al testo unico approvato con d.P.R. n. 915 del
1978, come sostituita dalla tabella A allegata al d.P.R. n. 834 del 1981. Ne consegue che,
ove il soggetto, portatore di lesioni permanenti dell’integrità psicofisica da contagio HCV,
non presenti, in ragione dello stato di quiescenza della malattia, sintomi e pregiudizi
funzionali attuali, che incidano sulla capacità di produzione reddituale, non spetta alcun
indennizzo, in quanto l’infermità non rientra in alcuna delle categorie della menzionata
tabella A (Cass. n. 17158 del 2008, n. 1635 del 2012, n. 8452 del 2017);
3. le Sezioni unite della Corte hanno poi affermato che rientra nella discrezionalità del
legislatore, compatibile con il principio di solidarietà (art. 2 Cost.) e con il diritto a misure di
assistenza sociale (art. 38 Cost.), la previsione di una soglia minima di indennizzabilità del
danno permanente alla salute nel caso di trattamenti sanitari non prescritti dalla legge o da
provvedimenti dell’autorità sanitaria (Sezioni Unite, n. 8064 del 2010; conf. Cass. 22706 del
2010);
4. nel caso in esame, secondo l’accertamento compiuto dal Giudice di merito, è stata

2. quanto all’interpretazione della legge n. 210 del 1992, la Corte di appello ha fatto

esclusa una situazione di danno attuale, irreversibile e permanente, stante la persistente
negatività dell’HCV a successivi, reiterati controlli; le risultanze degli accertamenti peritali
portavano a concludere per la presenza di un “reliquato anamnestico di un epatite acuta da
HCV a risoluzione spontanea…”;
5. del pari, la patologia psichica – secondo l’accertamento compiuto dal giudice di appello,
come diagnosticata in sede di accertamento peritale – era riconducibile nella Tabella B e non
nella Tabella A allegata al d.P.R. n. 834 del 1981; anche in questo caso, le censure si
risolvono in un dissenso diagnostico circa la corretta diagnosi della patologia;
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6. in ordine al mancato esercizio dei poteri di rinnovazione della c.t.u. in appello e la
mancata ammissione della prova testimoniale, è ben vero che, nel rito del lavoro, la
necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.,
nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, secondo comma,
Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo
scopo del processo – costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito – che
impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte
(cfr. Cass. n. 18410 del 2013); tuttavia, la maggiore pregnanza del dovere del giudice di

non interferisce direttamente sulle regole che presiedono all’esercizio del potere istruttorio
d’ufficio (artt. 421 e 437 c.p.c.);
7. nel processo del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello
presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l’insussistenza di colpevole inerzia della
parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali,
l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti,
l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una
tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi
della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa (Cass. n. 5878
del 2011; n. 154 del 2006);
8. nel caso di specie, l’implicito rigetto delle istanze istruttorie è basato sul raggiunto
convincimento giudiziale della completezza degli elementi di conoscenza già acquisiti; il
giudice di merito, con la sentenza impugnata, ha dato conto, senza incorrere in vizi logici di
giudizio, della completezza del quadro diagnostico, alla stregua delle risultanze della c.t.u.
condivisa;
9. per il resto, il ricorso in esame sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in

iudicando, un riesame dei fatti, inammissibile in questa sede, mentre le censure per vizi di
motivazione non vertono su errori di logica giuridica, ma denunciano un’errata valutazione
del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile
intento di sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal
Giudice del merito;
10. secondo costante giurisprudenza di questa Corte, il ricorso per cassazione conferisce al
giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale
sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza
giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito,
al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento,
di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del
processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi
sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquis

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pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito

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salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n.
24679 del 2013);
11. quanto all’onere delle spese, alla fattispecie è applicabile l’art. 152 disp. att. c.p.c., nel
testo modificato dall’art. 42, comma 11 del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n.
326 del 2003, secondo cui “L’interessato che, con riferimento all’anno precedente a quello di
instaurazione del giudizio, si trova nelle condizioni indicate nel presente articolo formula
apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclusioni dell’atto introduttivo e si
impegna a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti

autocertificativo imposto alla parte ricorrente deve essere assolto con il ricorso introduttivo
del giudizio di primo grado ed esplica la sua efficacia, senza necessità di ulteriore
reiterazione, anche nelle fasi successive, valendo, fino all’esito definitivo del processo,
l’impegno di comunicare le variazioni reddituali eventualmente rilevanti che facciano venire
meno le condizioni di esonero (cfr. ex plurimis, Cass. n. 10875 del 2009; Cass. n. 17197 del
2010; Cass. nn. 13367 e 16284 del 2011);
12. nel caso in esame, i Giudici di appello hanno compensato tra le parti le spese di lite di
entrambi i gradi di giudizio e l’odierno ricorrente non allega, nel ricorso per cassazione, di
avere provveduto al suddetto onere autocertificativo; pertanto, difetta uno dei presupposti
per l’esonero dal pagamento delle spese di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c. e resta assorbita
ogni ulteriore verifica riguardante la sussistenza del requisito reddituale. Ne consegue che il
ricorrente va condannato al pagamento delle spese nei confronti del Ministero della Salute,
in applicazione della regola della soccombenza;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in
1.500,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso nella Adunanza camerale del 18 luglio 2017

di reddito verificatesi nell’anno precedente”. Tale norma si interpreta nel senso che l’onere

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