Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27679 del 29/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 29/10/2019, (ud. 10/09/2019, dep. 29/10/2019), n.27679

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24409-2018 proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

VIGLIOTTI DANIELA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il306/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CAMPESE

EDUARDO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 6 luglio 2018, il Tribunale di Milano ha respinto l’opposizione proposta dal cittadino pakistano M.F., nei confronti del Ministero dell’Interno, avverso il provvedimento di diniego della sua domanda di protezione internazionale.

1.1. Ha ritenuto il tribunale che: a) il ricorrente (sprovvisto di passaporto e, dunque, non compiutamente generalizzato), che aveva posto a fondamento della domanda di protezione sussidiaria il timore di essere ucciso dal gruppo talebano di Mullah Fazzlullah per essersi rifiutato di partecipare alla jihad, avesse narrato una vicenda non credibile per una pluralità di incongruenze e contraddizioni; b) avuto riguardo alla situazione sociale e politica del Paese di provenienza, le deduzioni del difensore del ricorrente fossero assolutamente generiche e totalmente prive di agganci alla vicenda personale del suo assistito, e comunque non tali da impedire un rientro ivi di quest’ultimo, atteso che, da quanto desumibile dal sito viaggiaresicuri del Ministero degli Esteri, aggiornato al 21 giugno 2018, oltre che dalle azioni di ferma reazione poste concretamente in essere dallo Stato Pakistano contro i tentativi destabilizzatori di matrice terroristica, doveva escludersi, nella zona di provenienza del ricorrente, l’esistenza di un conflitto armato interno nel senso indicato dalla Corte di Giustizia, Sez. IV, nella sentenza Diakitè del 30 gennaio 2014; c) a fondamento della domanda di protezione umanitaria non potesse invocarsi la generale situazione di incertezza di quel Paese, necessitando, invece, un potenziale rischio specifico ed individuale di violazione di diritti umani fondamentali correlato alla predetta situazione. Il ricorrente, peraltro, nemmeno aveva raggiunto un sufficiente grado di integrazione sociale ed indipendenza economica, vivendo in una casa in cui disponeva solo di un posto letto, lavorando, in nero, per 24 ore settimanali presso un locale di vendita di kebab, a Lecco, gestito da un suo connazionale.

2. Per la cassazione del decreto M.F. ha proposto ricorso per tre motivi. Il Ministero non ha spiegato difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Le formulate doglianze prospettano, rispettivamente:

I) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 51 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere il Tribunale di Milano riconosciuto la sussistenza di una minaccia grave alla vita dell’odierno deducente in ragione della generale situazione sociale e politica del suo Paese di provenienza;

Il) violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, per non avere il Tribunale assolto l’onere di cooperazione istruttoria gravante in capo all’autorità giudiziaria adita, censurando la decisione impugnata per essersi il giudice limitato ad una valutazione sommaria e superficiale della situazione attuale del Pakistan e in particolare della zona di provenienza del ricorrente, giacchè, come risultante da diversi siti Internet e dalle informazioni comunemente utilizzate nella materia, tale Paese sarebbe caratterizzato da una situazione riconducibile alla previsione normativa tale da giustificare la protezione sussidiaria;

III) violazione e falsa applicazione del testo unico sull’immigrazione, art. 5, comma 6, e art. 19, per non avere il tribunale riconosciuto la protezione umanitaria in ragione del livello di integrazione e di radicamento raggiunto dal ricorrente nel nostro Paese, tenuto conto delle condizioni generali di quello di provenienza

2. Il primo motivo è inammissibile.

2.1. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) e h), conformemente al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. g) e g), definisce “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il “cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può, o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

2.1.1. La definizione di “danno grave” è fornita dal successivo art. 14, il quale lo identifica: a) nella condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) nella tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) nella minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

2.2. Posto che nel caso di specie è stata dedotta a fondamento della domanda di protezione sussidiaria l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, occorre rammentare che, come questa Corte ha già chiarito (Dott. Cass. n. 780 del 2019; Cass. n. 14006 del 2018; Cass. n. 13858 del 2018), in tema di protezione sussidiaria dello straniero, prevista nella fattispecie contemplata dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. t), l’ipotesi considerata implica, alternativamente: i) o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale; ii) ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel Paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia.

2.2.1. A tale ultimo riguardo, il giudice è, come è noto, tenuto, anche d’ufficio, a verificare – elettivamente attraverso lo scrutinio delle cd. c.o.i., country of origin informations, oppure di altra documentazione, comunque, disponibile – se nel Paese di provenienza sia oggettivamente sussistente una situazione di violenza indiscriminata talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente. Per converso, non è configurabile un dovere di cooperazione istruttoria con riguardo alla situazione personale del richiedente, dovendo a tal riguardo viceversa il giudice soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista, nel suo complesso, dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

2.2.2. Tanto premesso, il tribunale milanese ha correttamente tenuto ben distinto il piano della situazione personale del richiedente da quello della situazione complessiva del Paese di provenienza: i) quanto al primo aspetto, il giudice di merito, con valutazione non sindacabile in questa sede, ha ritenuto che il racconto del ricorrente, laddove aveva esposto il timore di essere ucciso dal gruppo talebano di Mullah Fazzlullah per essersi rifiutato di partecipare alla jihad, avesse narrato una vicenda non credibile per una pluralità di incongruenze e contraddizioni; ii) circa il secondo aspetto, il medesimo giudice ha affermato che, sulla base degli accertamenti effettuati attraverso l’analisi della documentazione di cui si è già detto, potesse escludersi la sussistenza, nella zona di provenienza del ricorrente, di una situazione di conflitto armato e quindi di violenza indiscriminata.

2.2.3. Tale valutazione, compiuta sulla base della pertinente documentazione indicata, attiene al merito della controversia e si sottrae al sindacato di legittimità di questa Corte, tanto più che la censura si richiama a provvedimenti giudiziari asseritamente pervenuti a soluzioni diverse, ma in considerazione di documentazione informativa risalente ad epoca antecedente.

3. Parimenti inammissibile è il secondo motivo.

3.1. Il dovere di cooperazione istruttoria, indubbiamente gravante sul giudice nella materia in discorso, non è infatti richiamato a proposito, dal momento che il tribunale ha effettuato compiutamente l’accertamento che doveva, utilizzando la documentazione già menzionata, mentre il motivo fa riferimento (cfr. in particolare, pag. 10-11) ad elementi istruttori di segno diverso la cui esistenza non risulta dedotta nella fase di merito, sicchè per tale aspetto la censura risulta essere nuova.

4. Inammissibile, infine, ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., è anche il terzo motivo, in disparte il tema dell’applicabilità alla fattispecie del D.L. n. 113 del 2018, convertito dalla L. n. 132 del 2018, questione non rilevante nel caso concreto, non prospettando il motivo di ricorso alcun riferimento a circostanze di fatto riconducibili alle specifiche previsioni di detto testo di legge.

4.1. Questa Corte ha già avuto modo di affermare, recentemente ribadendolo (fr. Cass. n. 780 del 2019), che tra i motivi per i quali è possibile accordare la protezione umanitaria non rientrano, di per sè, l’integrazione sociale e lavorativa in Italia (cfr. Cass. n. 25075 del 2017). In tale prospettiva, è stato ulteriormente chiarito che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

4.1.1. Emerge, allora, con chiarezza che i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al cit. D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6. Di guisa che la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede, di per sè, alcun rilievo, salvo emerga che essa ha prodotto specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale.

4.2. Nella specie, il tribunale ha fatto debita applicazione del principio che precede, osservando che il ricorrente, maggiorenne, non ha raggiunto un sufficiente grado di integrazione sociale ed indipendenza economica, vivendo in una casa in cui disponeva solo di un posto letto, lavorando, in nero, per 24 ore settimanali presso un locale di vendita di kebab, a Lecco, gestito da un suo connazionale. In ragione di ciò, delle sue buone doti di autonomia, dell’essere controllata farmacologicamente la patologia cronica (diabete insipido) di cui era affetto e del fatto che nel suo Paese vive la sua famiglia, il giudice a quo ha ritenuto non sussistere insormontabili difficoltà ad un suo reinserimento sociale e lavorativo nel suo Paese di provenienza. Affermazione, questa, conforme al principio di diritto di cui si è dato conto e, nel merito, evidentemente insindacabile in sede di legittimità.

5. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile, senza necessità di pronuncia in ordine alle spese del giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, altresì rilevandosi che, dagli atti, il processo risulta esente dal contributo unificato, sicchè non trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

6. Non compete, infine, a questa Corte di provvedere sull’istanza dell’Avv. Vigliotti Daniela di liquidazione del compenso per aver esercitato il patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019

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