Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27676 del 21/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 27676 Anno 2017
Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: BLASUTTO DANIELA

ORDINANZA
sul ricorso 2466-2012 proposto da:

in persona

COMUNY, DT ASCOLI PICENO C.E. 00229010412,

del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA CRESCENZIO 82, presso lo studio
dell’avvocato STEFANO BASSI, rappresentato e difeso
dall’avvocato MARCELLA TOMBESI, giusta delega in atti;
– ricorrente contro
2017

FARES ADELINA MARISA;

3220

intimata

avverso la sentenza n. 786/2011 della CORTE D’APPELLO
di ANCONA, depositata il 19/10/2011 R.G.N.

709/2010.

Data pubblicazione: 21/11/2017

R.G. 2466/2012

RILEVATO
che la Corte di appello di Ancona, con sentenza n. 786/2011, in riforma della pronuncia di
primo grado, dichiarava che tra Fares Adelina Marisa e il Comune di Ascoli Piceno era
intercorso un rapporto di lavoro subordinato in relazione alle prestazioni rese dalla Fares in
qualità di “farmacista collaboratore” e, preso atto che nel corso del giudizio l’appellante
aveva riconosciuto di avere percepito un’adeguata retribuzione, condannava il Comune a

compenso per l’attività svolta, con gli interessi legali maturati, e alla regolarizzazione della
posizione contributiva e previdenziale, adeguata al rapporto di lavoro subordinato;
che avverso tale sentenza il Comune di Ascoli Piceno ha proposto ricorso affidato a cinque
motivi;
che Fares Adelina Marisa è rimasta intimata;
CONSIDERATO
che il primo motivo di ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 115
c.p.c. e 2697 c.c., erronea e incongrua valutazione delle risultanze istruttorie, violazione e
falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., vizio di motivazione (art. 360, primo comma, nn. 3 e
5 c.p.c.), addebita alla sentenza il mancato e/o insufficiente esame della documentazione
prodotta dall’Amministrazione e, in particolare, dei contratti di collaborazione coordinata e
continuativa sottoscritti tra le parti, nonché il travisamento delle risultanze dell’istruttoria
testimoniale, da cui era emerso che la Fares godeva di autonomia e di una certa elasticità
nell’articolazione dell’orario di lavoro;
che il secondo motivo censura la sentenza per mancata considerazione del nomen iuris del
contratto stipulato tra le parti (art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 c.p.c.): il rapporto si era
svolto mediante il conferimento di incarichi di prestazione d’opera professionale,
formalmente deliberati dall’Ente territoriale in conformità alle norme pubblicistiche;
che il terzo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. e vizio di
motivazione (art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 c.p.c.), censura la sentenza nella parte in
cui ha ritenuto sussistente la prova dell’assoggettamento della lavoratrice al potere
direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro;
che con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 3 Legge 24.12.2003 n. 350 e
dell’art. 29, co. 15, Legge n. 289 del 2002, e vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.)
per avere la Corte territoriale omesso di esaminare la disciplina legale che vietava al
Comune di assumere personale dipendente anche a tempo determinato, per cui la scelta
dello strumento contrattuale in concreto adottato (stipulazione di contratti di collaborazione

pagare alla Fares il trattamento di fine servizio alla stregua di quanto corrisposto come

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coordinata e continuativa) costituiva una scelta obbligata per il Comune in virtù del
combinato disposto delle suddette norme;
che con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.,
oltre che vizio di motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.), per avere la Corte d’appello
condannato il Comune al pagamento le spese processuali omettendo di considerare che
l’appellante aveva rinunciato alla domanda relativa differenze retributive e limitato l’oggetto
del contendere al trattamento di fine rapporto e alla ricostruzione della posizione

che occorre premettere, in punto di diritto, quanto segue:
– si desume dal tenore della sentenza impugnata che oggetto della domanda giudiziale era
l’accertamento del carattere subordinato dell’attività lavorativa svolta dalla Fares; la
ricorrente aveva dedotto che, contrariamente a quanto pattuito nel contratto di
collaborazione autonoma, vi era stato l’assoggettamento al potere direttivo e di controllo del
datore di lavoro, lo stabile inserimento della lavoratrice nell’organizzazione dell’ente di
appartenenza, l’osservanza di un preciso orario;

la stipulazione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con

un’amministrazione pubblica, al di fuori dei presupposti di legge, non può mai determinare
la conversione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, potendo il
lavoratore conseguire una tutela in termini meramente risarcitori, nei limiti di cui all’articolo
2126 c.c., qualora il contratto di collaborazione abbia la sostanza di rapporto di lavoro
subordinato, con conseguente diritto anche alla ricostruzione della posizione contributiva e
previdenziale;
– il tratto fondamentale che distingue il rapporto di pubblico .impiego dal settore privato
concerne la mancata applicazione della sanzione della conversione in rapporto di lavoro a
tempo indeterminato, come precisa l’art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165/01; le norme
imperative vanno individuate nella regola generale imposta dall’art. 97 Cost., che prevede
che il concorso pubblico costituisce la modalità generale ed ordinaria di accesso nei ruoli
delle pubbliche amministrazioni, anche degli enti locali (Corte Cost. 180/2015, 134/2014,
277/2013; Cass. SSUU 4685/2015; Cass. 24808/2015, 25165/2015), e che ammette
deroghe solo in presenza di peculiari situazioni giustificatrici, individuate dal legislatore
nell’esercizio di una discrezionalità non irragionevole, che trova il proprio limite specifico
nella necessità di meglio garantire il buon andamento della Pubblica Amministrazione (C.
Cost. 134/2014, 217/2012, 310/2011, 9/2010, 293/2009, 215/2009, 81/2006, 190/2005);
che, dall’eventuale qualificazione come subordinato, in sede giudiziale, di un rapporto di
lavoro intercorrente con la P.A. non potrebbe comunque conseguire l’acquisizione di un
posto di ruolo da parte del prestatore, ma la sola possibilità di un ristoro pecuniario ex art.
2126 c.c.;

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contributiva e previdenziale;

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e la sentenza impugnata, benché concisamente motivata, ha fatto applicazione di tali
principi, poiché il trattamento di fine servizio e la ricostruzione della posizione contributiva e
previdenziale sono statuizioni coerenti con il disposto di cui all’art. 2126 c.c.;
che, tanto premesso, deve osservarsi quanto segue:
– il ricorso per cassazione, in tutte le sue articolazioni, è inammissibile; esso
sostanzialmente tende a proporre una diversa valutazione dei fatti con formulazione, in
definitiva, di una richiesta di duplicazione del giudizio di merito;

legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al
suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della
coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta,
in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne
l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo,
quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi,
dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi
tassativamente previsti dalla legge;
– nella specie, la Corte di merito ha ricostruito, alla stregua delle risultanze istruttorie, gli
elementi atti a configurare, nel loro concorso, il carattere subordinato e non autonomo della
prestazione lavorativa resa dalla Fares in favore del Comune di Ascoli Piceno;
– il Comune ricorrente, sotto l’apparente veste dell’error in iudicando, tende a contestare la
ricostruzione della vicenda accreditata dalla sentenza impugnata; in proposito, giova
ribadire che il vizio di falsa applicazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea
ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una
norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa;
viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle
risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla
tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità,
sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110
del 2015, n. 195 del 2016); è dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto
errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione
fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa
interpretazione delle risultanze di causa;
che è inammissibile altresì il quarto motivo, che allude ad una questione giuridica di cui non
vi è traccia nella sentenza impugnata; qualora una determinata questione giuridica – che
implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata nella sentenza impugnata, il ricorrente
che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione
di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta

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– costituisce principio consolidato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di

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eduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di
autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo
abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione,
prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. n. 14590 del 2005, nn. 8206 e
25546 del 2006, n. 4391 del 26 febbraio 2007, n. 20518 del 28 luglio 2008; n. 5070 del
2009);
che, in ordine al quinto motivo, vertente sulla condanna al pagamento delle spese di lite, è

di spese processuali, solo la compensazione dev’essere sorretta da motivazione, e non già
l’applicazione della regola della soccombenza cui il giudice si sia uniformato; la relativa
statuizione è sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione di legge, quale si
verificherebbe nell’ipotesi in cui, contrariamente al divieto stabilito dall’art. 91 c.p.c., le
stesse venissero poste a carico della parte totalmente vittoriosa; la valutazione
dell’opportunità della compensazione totale o parziale rientra, invece, nei poteri discrezionali
del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del
mancato uso di tale sua facoltà; pertanto, la pronuncia di condanna alle spese, anche se
adottata senza prendere in esame la eventualità di una compensazione, non può essere
censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. nn.
1898, 10861, 16012 del 2002, n. 1274 del 2003, nn. 11318, 13071 e 14473 del 2004, nn.
9260, 14276 e 15030 del 2005; SU. n. 14989 del 2005, Cass. n. 28492 del 2005, n. 7607
del 2006),
che, in conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile; nulla va disposto quanto alle
spese del giudizio di legittimità, stante l’assenza di attività difensiva di parte intimata
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; nulla per le spese.
Così deciso nella Adunanza camerale del 12 luglio 2017.
Il Presidente
Giuseppe Napoletano

sufficiente ribadire il principio, già più volte affermato da questa Corte, secondo cui, in tema

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