Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27659 del 21/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 27659 Anno 2017
Presidente: DI CERBO VINCENZO
Relatore: PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI

ORDINANZA
sul ricorso 9783-2012 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA VIALE MAZZINI 134 presso lo studio
dell’avvocato FIORILLO LUIGI che la rappresenta e
difende, giusta delega in atti;
– ricorrente contro
2017
2798

DEL BELLO LUCA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
RENO 21, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RIZZO,
che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

controricorrente

avverso la sentenza n. 640/2011 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 21/11/2017

di ROMA, depositata il 12/04/2011 R.G.N. 4883/06;

RG 9783/2012
RILEVATO

che con sentenza 12 aprile 2011, la Corte d’appello di Roma dichiarava la nullità del
termine apposto al contratto di lavoro stipulato da Poste Italiane s.p.a. con Luca Del
Bello per il periodo dal 10 giugno al 30 settembre 2001, ai sensi dell’art. 25 CCNL 11

riorganizzazione e la necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze
per ferie, la conversione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal
10 giugno 2001 e condannava la società datrice al ripristino del rapporto e al
pagamento, in favore della lavoratrice a titolo risarcitorio, delle retribuzioni (pari
all’ultima retribuzione mensile percepita) maturate dal 29 maggio 2003, oltre
accessori: così riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece respinto le
domande della lavoratrice;

che avverso tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ricorreva per cassazione con sei
motivi, cui resisteva il lavoratore con controricorso;

che era depositata dal lavoratore memoria ai sensi dell’art. 380bisl c.p.c.;

CONSIDERATO

che la ricorrente deduce omessa motivazione in ordine agli artt. 1372, primo comm ,
1175, 1375, 2697, 1427, 1431 c.c., 100 c.p.c., per omessa pronuncia sull’eccezione
datoriale di risoluzione del contratto di lavoro per mutuo consenso, di cui illustrati i
presupposti, essenzialmente individuati nell’inerzia di quasi due anni del lavoratore
nella contestazione dell’illegittimità del termine contrattuale (primo motivo); violazione
e falsa applicazione degli artt. 112, 346, 324 c.p.c., per vizio di ultrapetizione sulla
deduzione di mancato rispetto della clausola di contingentamento, solo marginalmente
trattata dal Tribunale e non riproposta espressamente in appello dalla lavoratrice, così
da intendersi rinunciata (secondo motivo); insufficiente, erronea e contraddittoria
motivazione sul punto decisivo della controversia e violazione e falsa applicazione degli
artt. 115, 116 c.p.c., 2697 c.c., in ordine alla mancata ammissione della prova orale
dedotta e all’erronea valutazione della documentazione prodotta (terzo motivo);
violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 3 I. 230/1962, per erronea

I

gennaio 2001, per esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di

RG 9783/2012
ripartizione dell’onere della prova, in capo alla società datrice anziché al lavoratore
ricorrente, di rispetto della clausola di contingentamento (quarto motivo); violazione e
falsa applicazione degli artt. 25 CCNL 2001 e 23 I. 56/1987, per l’inidoneità del
mancato rispetto della clausola di contingentamento a produrre conseguenze dirette

piuttosto sull'(in)adempimento dei vincoli obbligatori tra le parti stipulanti l’accordo
collettivo e pertanto di natura risarcitoria (quinto motivo); violazione e falsa
applicazione dell’art. 32 I. 183/2010, per la sua operatività, in ordine alle conseguenze
economiche della conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo
indeterminato, anche per tutti i giudizi in corso e non soltanto di primo grado (sesto
motivo);

che ritiene il collegio che il primo motivo sia inammissibile, attesa la non corretta
formulazione della censura, al di là dell’incongruità della rubrica (a cavallo tra il vizio di
motivazione e la violazione di legge), per l’assoluta mancanza di riferimento alla nullità
della sentenza, costituente il proprium sostanziale della denuncia di omessa pronuncia;

che, pur senza accedere al più rigoroso indirizzo di deduzione, anche formale, di
censura dell’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello e in genere su una
domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integrante una
violazione dell’art. 112 c.p.c. (sostanzialmente denunciata nel caso di specie),
esclusivamente ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c. (Cass. 15 maggio
2013, n. 11801; Cass. 27 ottobre 2014, n. 22759; Cass. 16 marzo 2017, n. 6835),
deve essere ritenuta l’inammissibilità del mezzo anche secondo un insegnamento più
elastico, che esclude la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta
indicazione numerica di una delle censure espressamente e tassativamente previste
dall’art. 360, primo comma c.p.c.: con la conseguenza che, ove il ricorrente lamenti
l’errore processuale consistito nell’aver ritenuto ammissibile una domanda in violazione
delle preclusioni processuali ovvero in un’omessa pronuncia, non sia indispensabile
l’esplicita menzione della fattispecie prevista dall’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c.,
con riguardo alla norma processuale violata, purché il motivo rechi univoco riferimento
alla nullità della decisione derivante dalla relativa violazione (Cass. s.u. 24 luglio 2013,

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sul contratto di lavoro individuale, cagionandone l’illegittimità, riverberando effetti

RG 9783/2012
n. 17931; Cass. 31 ottobre 2013, n. 24553; Cass. 28 settembre 2015, n. 19124; Cass.
29 novembre 2016, n. 24247);
che anche il secondo motivo è inammissibile, per la non corretta formulazione della
censura, alla stregua di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, per l’assoluta

della denuncia di omessa pronuncia (con richiamo della giurisprudenza citata in
riferimento al mezzo precedente);
che il terzo motivo è pure inammissibile, siccome generico, attesa la genericità della
confutazione, senza alcuna puntuale indicazione (né tanto meno trascrizione) delle
prove dedotte non ammesse né della documentazione prodotta (con palese violazione
del principio di specificità, anche sotto il profilo del difetto di autosufficienza del ricorso:
Cass. 30 luglio 2010, n. 17915, con principio affermato ai sensi dell’art. 360bis, primo
comma c.p.c.; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 3 gennaio 2014, n. 48), della
ritenuta carenza di prova (al quarto capoverso di pg. 5 della sentenza): in violazione
dell’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c., che esige l’illustrazione del mezzo, con
esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la
sentenza impugnata e l’analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al
motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della
sentenza (Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass.
3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 6 luglio 2007, n. 15952);
che esso deduce solo formalmente violazioni di legge in realtà inconfigurabili, in
assenza dei requisiti loro propri (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio
2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984):
in particolare, regolando l’art. 2697 c.c. l’onere della prova, non anche (come
concretamente censurata nella specie) la materia della valutazione probatoria,
viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c. e la cui erroneità ridonda comunque
in vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. 17
giugno 2013, n. 15107; Cass. 29 novembre 2012, n. 21234; Cass. 5 settembre 2006,
n. 19064; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707), neppure tali norme riguardando la
valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del

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mancanza di riferimento alla nullità della sentenza, costituente il proprium sostanziale

RG 9783/2012
giudice, al cui prudente apprezzamento (salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale)
è rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali, indicando gli elementi sui
quali si fonda il suo convincimento e l’iter argomentativo seguito, con apprezzamento
insindacabile in cassazione in presenza di congrua motivazione, immune da vizi logici e

che il quarto motivo è infondato, posto che la Corte territoriale ha fatto esatta
applicazione delle norme denunciate (come affermato al terzo capoverso, ultima parte
di pg. 5 della sentenza), secondo l’insegnamento di questa Corte, per cui, in tema
di clausola di contingentamento dei contratti di lavoro a termine ai sensi dell’art. 23 I.
56/1987, l’onere della prova dell’osservanza del rapporto percentuale tra lavoratori
stabili e a termine previsto dalla contrattazione collettiva, da verificarsi
necessariamente sulla base dell’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo
indeterminato, è a carico del datore di lavoro, sul quale incombe la dimostrazione, a
norma dell’art. 3 I. 230/1962, dell’oggettiva esistenza delle condizioni che giustificano
l’apposizione di un termine al contratto di lavoro (Cass. 10 marzo 2015, n. 4764; Cass.
26 gennaio 2015, n. 1351; Cass. 28 giugno 2011, n. 14284);
che anche il quinto motivo è infondato, posto che l’apposizione di un termine ad un
contratto di lavoro stipulato con riferimento ad una fattispecie per la quale il contratto
collettivo non contiene l’espressa indicazione della percentuale dei lavoratori da
assumere rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato, è illegittima, non
corrispondendo ad un tipo legale di contratto a termine;
che se, infatti, l’unica condizione per il legittimo esercizio della c.d. “delega in bianco”,
conferita dal legislatore alla contrattazione collettiva, è quella della specifica
indicazione della percentuale dei lavoratori da assumere rispetto a quelli impiegati a
tempo indeterminato, il difetto di tale specificazione non permette di considerare
legittime le ipotesi di apposizione del termine a quelle fattispecie, pur previste dalla
contrattazione collettiva, nelle quali appunto manchi la predeterminazione di una
percentuale, avendo il legislatore espressamente ancorato a siffatta predeterminazione
le previsioni di legittime fattispecie di apposizione del termine ulteriori rispetto a quelle
legali stabilite dalla I. 230/1962 e dalla I. 79/1983: sicchè, evidenti esigenze di

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giuridici (Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 settembre 2013, n. 21603);

RG 9783/2012
certezza impongono la necessità che gli accordi ai sensi dell’art. 23 I. 56/1987,
avvengano secondo forme prestabilite, tali da consentire un controllo in itinere delle
parti sociali e degli stessi lavoratori, in un ambito “procedimentalizzato” (Cass. 13
giugno 2005 n. 12632), in cui la clausola in questione venga anch’essa fissata in forma

che invece è fondato il sesto motivo, tenuto preliminare conto dell’applicabilità dell’art.
32 I. 183/2010, secondo l’interpretazione della Corte costituzionale con la sentenza n.
303 del 2011, anche in sede di legittimità ove sia pertinente alle questioni dedotte nel
ricorso;

che occorre infatti prescindere, alla luce di una interpretazione costituzionalmente
conforme della disciplina transitoria, nell’applicazione dello ius superveniens, dalla fase
in cui il processo si trovi e che tale soluzione trova conferma nella lettera del secondo
periodo del settimo comma che, nel prevedere che “il giudice fissa alle parti un termine
per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri
istruttori ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile”, premette l’inciso “ove
necessario” con valore disgiuntivo/inclusivo, a dimostrazione che la possibilità di
modifiche del petitum e di esercizio dei poteri istruttori va modulata in ragione dello
stato e del grado in cui si trova il processo (Cass. 2 marzo 2012, n. 3305);

che è stata ritenuta corretta l’interpretazione dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.
nel senso che la violazione di norme di diritto possa concernere anche disposizioni
emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, qualora siano applicabili al
rapporto dedotto in giudizio perché dotate di efficacia retroattiva: in tal caso essendo
ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta; neppure nel
caso di specie sussistendo il limite del giudicato, precluso anche, qualora la sentenza si
componga di più parti connesse tra loro in un rapporto per il quale l’accoglimento
dell’impugnazione nei confronti della parte principale determini necessariamente anche
la caducazione della parte dipendente, dalla proposizione dell’impugnazione nei
confronti della parte principale, pur in assenza di impugnazione specifica della parte
dipendente (Cass. s.u. 27 ottobre 2016, n. 21691);

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scritta (Cass. 17 marzo 2014, n. 6108; Cass. 3 marzo 2006, n. 4677);

RG 9783/2012
che pertanto il ricorso deve essere accolto in relazione al sesto motivo, rigettati gli
altri, con la cassazione della sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto e
rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma in
diversa composizione, che dovrà limitarsi a quantificare l’indennità spettante

la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice ha
ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (per tutte: Cass. 10 luglio 2015, n.
14461), con interessi e rivalutazione su detta indennità da calcolarsi a decorrere dalla
data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della illegittimità della clausola appositiva
del termine al contratto di lavoro subordinato (per tutte: Cass. 17 febbraio 2016, n.
3062);

P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso, rigettati gli altri; cassa la sentenza, in
relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di
legittimità, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso nella Adunanza camerale del 21 giugno 2017

all’odierna parte contro ricorrente ai sensi dell’art. 32 cit. per il periodo compreso fra

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