Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27654 del 11/12/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 27654 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: NOBILE VITTORIO

SENTENZA

sul ricorso 20958-2008 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio
dell’avvocato PESSI ROBERTO, che la rappresenta e
difende giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

• 3189

JUHASZ ILDIKO C.F. JHSLDK56E68Z134C, elettivamente
I

domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA N. 195, presso lo
studio

dell’avvocato

VACIRCA

SERGIO,

che

la

Data pubblicazione: 11/12/2013

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LALLI
CLAUDIO, giusta delega in atti;
– controri corrente –

avverso la sentenza n. 959/2007 della CORTE D’APPELLO
di L’AQUILA, depositata il 23/08/2007, r.g.n.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 07/11/2013 dal Consigliere Dott. VITTORIO
NOBILE;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega PESSI
ROBERTO;
udito l’Avvocato VACIRCA SERGIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PAOLA MASTROBERARDINO, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

153/2006;

R.G. 20958/2008
FATTO E DIRITTO
Con sentenza n. 270 del 2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di
Teramo rigettava la domanda proposta da Juhasz Ildiko, diretta ad ottenere la

parti dal 1-12-1999 al 20-1-2000, per “esigenze eccezionali” ex art. 8 ccn1 1994
come integrato dall’acc. 25-9-97 e succ., con le pronunce consequenziali.
Il lavoratore proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la
riforma con l’accoglimento della domanda.
La società si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d’Appello degli Abruzzi — L’Aquila, con sentenza depositata il
23-8-2007, in accoglimento dell’appello, dichiarava la nullità del termine
apposto al contratto de quo, con la conseguente sussistenza di un rapporto a
tempo indeterminato dal 1-12-1999, e condannava la società alla riammissione
in servizio dell’appellante ed al pagamento in suo favore delle retribuzioni
maturate dalla messa in mora del 27-5-2003, “detratto l’aliunde perceptum
risultante dalla documentazione in atti, oltre rivalutazione e interessi fino al
saldo”.
Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso con quattro
motivi.
Il lavoratore intimato ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Infine il Collegio ha autorizzato la motivazione semplificata.
Con il primo motivo la società, sotto i diversi profili di violazione di legge
e vizio di motivazione, censura l’impugnata sentenza nella parte in cui ha
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declaratoria di nullità del termine apposto al contratto di lavoro intercorso tra le

affermato la nullità del termine apposto al contratto de quo. In particolare la
ricorrente deduce la insussistenza di un limite temporale alla stipula di contratti
a termine per la causale indicata, sostenendo la natura meramente ricognitiva
degli accordi attuativi intercorsi.

dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al
ceni del 2001 ed al d.lgs. n. 368 del 2001).
Al riguardo, sulla scia di Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588, è stato precisato
che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 della legge n. 56 del
1987, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli
previsti dalla legge n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di
considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato
del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro
diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di
lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo
indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi
specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare
contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di
procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v.
anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n.
14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei
contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi
vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste
dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale
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Il motivo è infondato in base all’indirizzo ormai consolidato in materia

in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato.” (v., fra le altre,
Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia
stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto

del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745,
Cass. 14-2-2004 n. 2866).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e
come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti
postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8
del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo,
sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la
sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli
assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998;
ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine
cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo
derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi
contratti a tempo indeterminato, in forza dell’art. 1 della legge 18 aprile 1962
n. 230” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450;
Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).
In applicazione di tale principio va quindi respinto il detto primo motivo.
Con il secondo motivo la ricorrente censura l’impugnata sentenza nella
parte in cui ha respinto l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo
consenso tacito, nonostante la mancanza di una qualsiasi manifestazione di
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collettivo) la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione

interesse alla funzionalità di fatto del rapporto, per un apprezzabile lasso di
tempo anteriore alla proposizione della domanda e la conseguente presunzione
di estinzione del rapporto stesso, con onere, in capo al lavoratore, di provare le
circostanze atte a contrastare tale presunzione.

Come questa Corte ha più volte affermato “nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo
indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un
termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del
rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del
lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze
significative — una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. 10-11-2008 n.
26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, nonché da
ultimo Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n.
16932). La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a
termine, quindi, “è di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione
del rapporto per mutuo consenso” (v. da ultimo Cass. 15-11-2010 n. 23057,
Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre “grava sul datore di lavoro”, che eccepisca
tale risoluzione, “l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la
volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni
rapporto di lavoro” (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass.
1-2-2010 n. 2279).

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Il motivo è infondato.

Tale principio, del tutto conforme al dettato di cui agli art. 1372 e 1321
c.c., va ribadito anche in questa sede, così confermandosi l’indirizzo prevalente
ormai consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei
comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara

rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e
neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.
Orbene nella fattispecie la Corte di merito dopo aver richiamato la
giurisprudenza di legittimità in materia, ha rilevato che “nel caso di specie si è
eccepito soltanto l’elemento temporale.. .che da solo non basta” ed ha aggiunto
che le scelte del lavoratore “sono state condizionate dalla speranza (o timore)
di essere (o non essere) richiamata a lavorare presso Poste Italiane”,
considerata anche la volontà espressa dalla società in una circolare indirizzata a
tutti i direttori di filiale.
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta
altresì congruamente motivato e resiste alla censura della ricorrente.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, poi, violazione ed erronea
applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli arti. 421 e 437 c.p.c., nonché vizio di
motivazione. Critica la sentenza impugnata perché nell’affermare l’illegittimità
del contratto a termine anche per violazione della quota numerica prevista dal
ceni, ha ritenuto che l’onere di fornire la prova in proposito incombeva sulla
società anziché sulla lavoratrice, la quale aveva dedotto l’illegittimità del
contratto. Sostiene inoltre che la Corte di merito avrebbe dovuto comunque
esercitare i suoi poteri istruttori officiosi, ordinando una consulenza contabile
d’ufficio al riguardo, prima di concludere per la violazione del limite numerico.
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manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del

Il motivo è inammissibile in quanto rivolto contro una argomentazione
svolta soltanto ad abundantiam (v. Cass. 22-11-2010 n. 23635, Cass. 23-1 12005 n. 24591) dai giudici di merito, i quali hanno affermato la illegittimità del
termine apposto al contratto de quo per essere stato lo stesso stipulato, per la

“ultroneo l’esame delle altre doglianze” “relative alla prova dell’insussistenza
in concreto delle esigenze eccezionali” e “del rispetto della percentuale
massima prevista per le assunzioni a termine”, affermando, però, altresì che
questa “comunque” non risultava “provata in atti”.
Infine con il quarto motivo la società ricorrente, in ordine alle richieste
economiche, deduce che nella fattispecie la lavoratrice non avrebbe fornito la
prova dell’effettivo danno subito, che comunque andrebbe ridotto in ragione
dell’aliunde perceptum, e che neppure vi sarebbe stata una effettiva offerta
della prestazione con conseguente mora accipiendi del datore di lavoro.
Tale motivo risulta del tutto generico e astratto (così come, peraltro, il
relativo quesito conclusivo formulato ex art. 366 bis applicabile ratione
temporis, cfr. fra le altre Cass. 21-2-2012 n. 2499, 2615/2012, 12954/2012,
15461/2012, 1211/2013, 3819/2013).
Posto, infatti, che la impugnata sentenza ha condannato la società al
pagamento delle retribuzioni maturate dalla messa in mora ravvisata
nell’espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, “detratto
l’aliunde perceptum, risultante dalla documentazione in atti”, la ricorrente
censura tale decisione in modo assolutamente generico, senza riportare il
contenuto dell’atto che, secondo il suo assunto, non avrebbe integrato la offerta
della prestazione e la messa in mora (contrariamente a quanto affermato dalla
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detta causale, oltre il 30-4-1998, rilevando espressamente che ciò rendeva

Corte di merito) e senza neppure considerare che i giudici di merito hanno già
espressamente limitato la condanna con la detrazione dell’aliunde perceptum,
di guisa che la censura risulta altresì inconferente con il decisum.
Così risultato inammissibile il quarto motivo, riguardante le conseguenze

modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dall’art. 32,
commi 5 0 , 60 e 7° della legge 4 novembre 2010 n. 183.
Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di
principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di
legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva,
una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in
qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso,
in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 272-2004 n. 4070).
In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe,
anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad
essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v.
frate altre Cass. 4-1-2011 n. 80).
Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.
Il ricorso va pertanto respinto e la ricorrente va condannata al pagamento
delle spese in favore del controricorrente.
P.Q.M.

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economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società a pagare al
controricorrente le spese, liquidate in euro 100,00 per esborsi e euro 3.500,00
per compensi, oltre accessori di legge.

Roma 7 novembre 2013

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