Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27653 del 03/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 03/12/2020, (ud. 08/09/2020, dep. 03/12/2020), n.27653

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. PANDOLFI Catello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7273-2014 proposto da:

VEDI SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 96, presso

lo studio dell’avvocato DI PAOLO LUCA, rappresentato e difeso

dall’avvocato RAGOZZINO RENATO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE II DI MILANO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 10/2013 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 28/01/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

08/09/2020 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO;

lette le conclusioni scritte del PM in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. DE MATTEIS STANISLAO che ha concluso per

il rigetto del ricorso (infondato primo e quarto motivo,

inammissibili secondo e terzo). Conseguenze di legge.

 

Fatto

PREMESSO

Che:

La VE.DI. srl ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 10/13/2013, depositata il 28.01.2013 dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, la quale, accogliendo parzialmente l’appello dell’Agenzia delle entrate avverso la decisione del giudice di primo grado, ha rideterminato le imposte accertate dall’Amministrazione finanziaria nei confronti della società relativamente all’anno 2005 ai fini Ires e Irap.

Ha riferito che, a seguito di verifica fiscale nei confronti del Laboratorio Analisi Mediche Montesanto s.r.l. (successivamente incorporata nella società ricorrente), era stato emesso l’avviso di accertamento con cui l’Ufficio finanziario aveva recuperato costi non inerenti o non provati, nonchè altre voci, rideterminando l’imponibile dell’anno 2005, con conseguente accertamento di maggiori imposte.

All’atto impositivo era seguito il contenzioso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano, che con sentenza n. 328/40/2010 aveva accolto gran parte delle ragioni della contribuente, ad eccezione di talune contestazioni relative a costi di importo marginale, attribuibili per competenza al precedente anno d’imposta o non inerenti.

La sentenza era stata appellata dall’Agenzia delle entrate dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, che con la decisione ora al vaglio della Corte ha accolto in parte l’impugnazione, recuperando ad imponibile l’importo di Euro 126.000,00, corrispondente al costo che la società aveva affermato di aver sopportato per l’utilizzo di una porzione di immobile. In particolare il giudice regionale ha ritenuto che quel costo non fosse stato adeguatamente documentato, così confermando la prospettazione dell’Amministrazione finanziaria.

La società ha censurato la sentenza con quattro motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 1, comma 1, nonchè per l’omesso esame circa un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa motivazione o contraddittoria motivazione;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, dell’art. 111 Cost., nonchè per l’omesso esame circa un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver erroneamente reputato inesistenti le prove dell’occupazione ed utilizzazione di un immobile nel quale esercitare la propria attività, con conseguente erroneo disconoscimento dei costi sostenuti per tale utilizzazione;

con il terzo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, per omessa decisione sull’eccepita nullità dell’avviso di accertamento per carenza di motivazione;

con il quarto per violazione ed erronea applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 4, per non aver riconosciuto l’inerenza del costo sostenuto per l’utilizzo di una porzione di immobile.

Ha dunque chiesto la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale statuizione.

Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che ha contestato i motivi di ricorso, del quale ha chiesto il rigetto.

Sono state depositate memorie difensive, con le quali si è costituita la Affidea Lombardia s.r.l., quale società incorporante per fusione la Ve.Di s.r.l. La causa è stata trattata e decisa nell’adunanza camerale dell’8 settembre 2020.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

Con il primo motivo la società ha denunciato, sotto il profilo della violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione, che il giudice d’appello non si sarebbe pronunciato sulle doglianze indirizzate dalla contribuente all’avviso di accertamento, per l’assenza della motivazione o per la sua contraddittorietà con riguardo alle riprese fiscali attuate.

A parte l’erroneo richiamo del vizio di motivazione e non dell’errore processuale, cui deve ricondursi la denuncia di violazione dell’art. 112 c.p.c., il motivo è infondato quando non inammissibile. Esso è innanzitutto generico perchè in primo grado, a parte alcuni costi di importo marginale per i quali la Commissione provinciale aveva confermato l’avviso di accertamento, ritenendoli indeducibili (Euro 5.189,82 per multe e ammende; Euro 4.119,00 perchè costi non di competenza), la società era risultata vittoriosa. In conseguenza con l’appello incidentale aveva impugnato solo il recupero ad imponibile delle multe e ammende (poi confermato dal giudice regionale). Nella formulazione del motivo sarebbe stato dunque necessario contestualizzare il vizio denunciato rispetto alle varie poste prese in esame in sede d’appello.

In ogni caso, dalla semplice lettura della sentenza, emerge che il giudice d’appello, esaminando voce per voce tutte le contestazioni elevate dall’Amministrazione finanziaria, ha analizzato la motivazione dell’atto impositivo, condividendo alcune riprese ad imponibile (una) e rigettandone (molte) altre, proprio sulla base delle ragioni esposte nell’avviso di accertamento. Ne consegue che, all’opposto di quanto denuncia la società, la Commissione con puntuali riferimenti ha mostrato di valutare l’eventuale carenza o contraddittorietà della motivazione dell’avviso di accertamento.

Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

Con esso la società, anche qui sovrapponendo l’invocazione di norme (D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 36 e 61) afferenti al contenuto della sentenza (in particolare la motivazione, la cui carenza implicherebbe la nullità della stessa) e l’omesso esame di un fatto decisivo, attinente a un vizio motivazionale, lamenta un erroneo ragionamento del giudice regionale, che a suo dire non avrebbe tenuto conto di elementi decisivi per il giudizio.

Occorre premettere che la sentenza è stata depositata il 28 gennaio 2013, ossia nella vigenza dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

Con esso non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure per contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità su di essa resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; 20/11/2015, n. 23828; 12/10/2017, n. 23940). Sicchè con la nuova formulazione del n. 5 lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Pertanto l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., 29/10/2018, n. 27415).

Ebbene, nel caso di specie, con riguardo alla ripresa a tassazione della somma di Euro 126.000,00, mentre la società ha sostenuto che si trattasse di costo sopportato per l’utilizzazione di una porzione di immobile (il pianterreno di un fabbricato sito in (OMISSIS)), il giudice regionale ha ritenuto non adeguatamente documentata la stessa sua disponibilità ed utilizzazione per l’esercizio dell’attività commerciale.

Le argomentazioni addotte nella decisione sono esenti da censure sotto il profilo del vizio motivazionale, e ciò persino ove fosse stato ancora applicabile l’art. 360 c.p.c., n. 5), nella sua precedente formulazione. La Commissione ha affermato che la documentazione allegata non era sufficiente a provare che la Diafin, società presunta locatrice, avesse la disponibilità di quella porzione di immobile. E non risultava provato neppure che la contribuente avesse effettivamente occupato quella porzione di fabbricato, per l’inidoneità della documentazione, compreso il verbale di sopralluogo dell’ASL di Milano, attestante la sua idoneità all’esercizio di una attività sanitaria ma non anche il soggetto che ne aveva la disponibilità.

Si tratta di un accertamento in fatto, che in assenza di errori o salti logici, non può essere rivalutato dal giudice di legittimità. D’altronde la ricostruzione dei fatti, riportata nelle pagg. 11-14 del ricorso rappresenta solo un tentativo di riproposizione di una valutazione di merito, inibita in sede di legittimità.

La esaminata motivazione esclude poi il vizio processuale della carenza di motivazione.

Il terzo ed il quarto motivo, rispettivamente riferiti alla denuncia di omessa decisione sull’eccepita nullità dell’avviso di accertamento per carenza di motivazione e al disconoscimento dell’inerenza del costo sostenuto per l’utilizzo di una porzione di immobile, sono assorbiti dal rigetto del secondo motivo.

In conclusione il ricorso va rigettato.

All’esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la contribuente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura di Euro 4.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 -quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 8 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2020

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