Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27648 del 20/12/2011

Cassazione civile sez. I, 20/12/2011, (ud. 10/11/2011, dep. 20/12/2011), n.27648

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3450-2006 proposto da:

C.E. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA PO 24, presso l’avvocato GENTILI AURELIO, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati TICOZZI UGO, SICCHIERO

GIANLUCA, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

sul ricorso 7426-2006 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PO 24,

presso l’avvocato GENTILI AURELIO, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati TICOZZI UGO, SICCHIERO GIANLUCA, giusta

procura in calce al ricorso principale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 2101/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 03/12/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2011 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

1. In data 25 settembre 1981 il Ministero della Giustizia conferì all’architetto C.E. l’incarico di progettazione e direzione dei lavori relativi alla ristrutturazione dell’ex Istituto per i Minorenni in Venezia. Dopo che l’incaricato, anche sollecitato dall’amministrazione, aveva elaborato varie ipotesi di fattibilità dell’intervento, con missiva 27 novembre 1987 il ministero l’aveva informato della mancata approvazione da parte del competente ufficio della convenzione stipulata, con invito a presentare la parcella per l’opera prestata. Per far valere i suoi diritti, nel 1994 l’architetto citò l’amministrazione davanti al Tribunale di Venezia.

L’amministrazione eccepì che l’attore non poteva far valere i diritti nascenti dalla convenzione, che non era stata registrata dalla Corte dei Conti, e che non aveva proposto una domanda di arricchimento senza causa. Il tribunale qualificò la domanda come di risarcimento danni da responsabilità precontrattuale e liquidò il danno in relazione al compenso spettante al professionista.

2. Sull’appello del Ministero, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza 3 dicembre 2004, confermò il titolo della responsabilità dell’amministrazione, che era stato censurato dal ministero perchè introdotto tardivamente dall’attore nel giudizio di primo grado.

Osservò a questo proposito che si trattava di questione di qualificazione della domanda; che in citazione l’attore aveva fondato la sua domanda sull’avvenuta sottoscrizione della convenzione e sull’attività conseguentemente espletata; che in seguito all’impostazione difensiva dell’amministrazione, all’udienza del 28 giugno 1995, aveva negato di chiedere il pagamento di una parcella, sostenendo trattarsi di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione; che tale precisazione aveva l’unico scopo di qualificare giuridicamente la domanda espressa in citazione, e non di introdurre una nuova pretesa. L’attore aveva documentato la sottoscrizione e la successiva approvazione ministeriale dell’intesa nel luglio 1986. Il ministero, dopo aver espresso il placet il 16 luglio 1986, ed essersi avvalso della clausola di chiusura della convenzione, che ne contemplava l’immediata obbligatorietà per il professionista e l’obbligatorietà per la pubblica amministrazione solo all’esito dell’esaurimento dell’iter interno e del controllo esterno, nel novembre del 1987 aveva mutato la sua valutazione e comunicato al professionista l’esercizio dello jus poenitendi contemplato dalla clausola n. 5 dell’accordo, e non aveva conseguentemente chiesto la registrazione dell’atto presso la Corte dei Conti. Tali elementi, se potevano “dar contezza della conformità dell’originario attore alle emergenze di fatto”, andavano soppesati sulla base dei più recenti orientamenti giurisprudenziali in ordine alla responsabilità da contatto procedimentale, e ai criteri codicistici della responsabilità precontrattuale, e ritenne applicabile l’art. 1337 c.c.. Tenuto conto, peraltro, che il risarcimento per responsabilità precontrattuale deve essere limitato all’interesse negativo, riformò la decisione di primo grado sul quantum, e liquidò il danno emergente in relazione alle spese, e quello da lucro cessante per la perdita di altre occasioni lavorative, suscettibile di apprezzamento in termini equitativi, in ragione del 15% delle spese. La maggiorazione dovuta per gli accessori (interessi e rivalutazione), calcolata in termini equitativi e non ancorata ai criteri desumibili dalle tariffe professionali, non adeguatamente pertinenti, è stata determinata nella misura del 45%.

3. Per la cassazione della sentenza, non notificata, ricorre l’architetto C. con tre motivi.

Il ministero resiste con controricorso e ricorso incidentale per tre motivi.

Il ricorrente principale resiste al ricorso incidentale con controricorso notificato il 27 marzo 2006.

4. I due ricorsi proposti contro la medesima sentenza, devono essere riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c..

4. Con il primo motivo di ricorso – confusamente riferito all’art. 360, comma 1, n. 4 e, in subordine, artt. 3 e 5 in relazione all’art. 112 c.p.c. e agli artt. 1337, 1223, 1225, 1226, 1227 e 2043 c.c. si censura, in sostanza, l’affermazione del giudice di merito che la liquidazione del danno, trattandosi di responsabilità precontrattuale, deve limitarsi ai danni cagionati dalla lesione dell’interesse contrattuale negativo, e che pertanto “appare concettualmente non corretto il richiamo alla fattispecie negoziale mancata”. Si richiamano precedenti di questa corte nei quali si afferma che, a questo proposito la liquidazione deve avvenire tenendo conto della peculiarità dell’illecito e delle caratteristiche di detta responsabilità, e che l’interesse leso, cioè l’affidamento, consiste nel cosiddetto interesse negativo (Cass. 23 febbraio 2005 n. 3746, 30 agosto 1995 n. 9157). Sostiene il ricorrente che l’ipotesi in esame esulerebbe dalla comune responsabilità precontrattuale – o ne sarebbe un’ipotesi del tutto particolare – giacchè non v’è semplicemente un’occasione persa, ma un danno diretto che si concreta in termini di spese, tempo e attività intellettuale.

5. Con il secondo motivo si censura per violazione degli art. 13377, 1223, 1225, 1226, 1227 e 2043 c.c. l’affermazione del giudice di merito che, in relazione alla seconda componente di danno (lucro cessante), l’identifica con la remunerazione pretendibile per la parziale esecuzione degli obblighi contrattuali. Si sostiene che doveva tenersi conto di tutte le perdite subite, non solo in termini di spesa, ma anche di tempo e di attività compiuta, che egli non aveva mai chiesto il risarcimento dei danni per il mancato guadagno, “vale a dire per il lavoro che non ha fatto”, sicchè “mai ha chiesto l’interesse contrattuale positivo”, e si richiama la giurisprudenza di questa corte che include nel danno risarcibile quello rappresentato dalle spese, dalle perdute occasioni di stipulare altro valido contratto e dall’attività sprecata nella trattativa ad altre utili applicazioni. Diversamente opinando si attribuirebbe un ingiusto vantaggio alla pubblica amministrazione, che contravvenendo all’obbligo di dare impulso agli atti interni di approvazione delle convenzioni, sarebbe nella condizione di poter arbitrariamente risolvere un contratto.

6. I due motivi, intrinsecamente collegati e da esaminare congiuntamente, sono infondati, avendo il giudice di merito applicato esattamente il principio di diritto enunciato nelle sentenze di questa corte richiamate nel ricorso e in altre, le quali esprimono un indirizzo costante e consolidato della giurisprudenza.

E’ innanzi tutto da condividere la premessa che l’art. 1223 c.c., invocato nel ricorso, è norma di diritto comune, che si applica sia nei rapporti tra privati e sia nei rapporti con la pubblica amministrazione, laddove questa agisca jure privatorum. La norma chiarisce che il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante). Essa trova applicazione anche in materia di responsabilità precontrattuale, dove la lesione ha per oggetto non un diritto sancito dal contratto, ma la buona fede del contraente;

sicchè nessuna distinzione sarebbe, su questo piano, giustificata.

L’applicazione di questa regola alla fattispecie di cui all’art. 1337 c.c. comporta dunque, come nel caso della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale il risarcimento dell’intero danno, nelle sue due componenti indicate dalla legge, sempre che il danno stesso sia in relazione immediata e diretta con la lesione dell’affidamento, e non del contratto; ed è, appunto, in questo significato specifico e circoscritto che può parlarsi – non del tutto propriamente – di tutela dell’interesse negativo. La giurisprudenza ha avuto modo quindi di chiarire che devono essere risarcite sia le spese sostenute dal contraente in buona fede in relazione alla vicenda che ha originato la responsabilità precontrattuale, e sia il lucro cessante cagionato dalla stessa vicenda, e costituito dalle occasioni di lavoro mancate a causa dell’affidamento riposto nella sua valida conclusione; mentre rimane escluso quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso: in questo caso, la retribuzione del lavoro contemplato nel contratto, sia esso stato svolto o no.

Sotto questo profilo, il fatto, in sè, che la parte danneggiata abbia dedicato tempo e lavoro all’esecuzione della prestazione contrattuale non rileva, se non nella misura in cui ciò si sia tradotto in perdite patrimoniali (spese sostenute) o in perdita di altre occasioni di lavoro. Ora, lo stesso ricorrente rifiuta di trattare il tema delle diverse opportunità che egli avrebbe lasciato cadere per dar corso agli impegni assunti con l’amministrazione, per sostenere la tesi – infondata, per quel che s’è detto – secondo la quale una perdita patrimoniale sarebbe ravvisabile nel tempo e nelle attività intellettuali spesi per l’esecuzione dell’incarico. Si tratta, in realtà, di tesi incompatibile con le premesse sopra ricordate, e che non trova riscontro nella sentenza di questa corte 27 ottobre 2006 n. 23289, richiamata dal ricorrente. Al di là del modo in cui quella sentenza è stata massimata, la sua lettura integrale dimostra che in quel caso è stata soltanto ritenuta congrua, esente da vizi logici e da errori di diritto e pertanto insindacabile la motivazione della Corte territoriale, che aveva accertato l’intempestività della rottura delle trattative con gli artisti, giunta solo a ridosso dell’inizio delle prove, quando regista, sceneggiatore e costumista avevano già eseguito sulla parola i rispettivi compiti preparatori e la Compagnia era già in viaggio per la Sicilia, “tal che per tutti era manifestamente troppo tardi per trovare occasioni alternative di lavoro durante la stagione estiva”. In quel caso, dunque, era stato accertato in punto di fatto quanto con il ricorso si pretende essere superfluo nei casi di svolgimento di lavoro intellettuale, e cioè la perdita di occasioni alternative di lavoro.

Concludendo sul punto ritiene la corte che non possa accedersi alla tesi, implicata dall’impostazione difensiva del ricorso, che per il professionista che svolga la sua attività in modo autonomo lo svolgimento di opera intellettuale, se non retribuito, costituirebbe di per sè un danno emergente (come si ritiene, in forza del precetto contenuto nell’art. 36 Cost. per il solo lavoro dipendente). Il tempo utilizzato senza corrispettivo in tale attività, qualora lo si volesse per ciò stesso considerare sprecato, sarebbe al più valutabile come un danno non patrimoniale, che in questo caso non è risarcibile.

6. Con il terzo motivo si censura per violazione degli artt. 1337, 1224, 1282, 1226 e 2043 c.c. la maggiorazione del danno, in relazione ad interessi e rivalutazione, nella misura calcolata in termini equitativi, del 45%, con l’argomento che i criteri desumibili dalle tariffe professionali, indicati dal C., non sono “adeguatamente pertinenti”. Questo argomento non costituirebbe una motivazione della decisione, e l’indicazione del tasso di maggiorazione non offrirebbe la possibilità di controllare la scelta fatta.

Anche questo motivo è infondato. Secondo l’insegnamento delle sezioni unite di questa corte, che il collegio condivide, in caso di ritardato pagamento di un debito di valore – nella fattispecie giudicata, il risarcimento del danno da fatto illecito – gli interessi non costituiscono un autonomo diritto del creditore, ma svolgono una funzione compensativa tendente a reintegrare il patrimonio del danneggiato, qual era all’epoca del prodursi del danno, e la loro attribuzione costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria. Ne consegue che il giudice può procedere alla riliquidazione della somma dovuta a titolo risarcitorio e dell’ulteriore danno da ritardato pagamento, utilizzando la tecnica che ritiene più appropriata al fine di reintegrare il patrimonio del creditore, riconoscendo gli interessi nella misura legale o in misura inferiore, oppure non riconoscendoli per nulla, potendo utilizzare parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria o dalla redditività media del denaro nel periodo considerato (Cass. Sez. un. 5 aprile 2007 n. 8520). Lo stesso principio deve trovare applicazione nel caso in esame, in cui si tratta di risarcimento del danno cagionato da responsabilità precontrattuale, costituente a sua volta debito di valore.

7. Con il primo motivo del ricorso incidentale si censura, per violazione degli artt. 101 e 112 c.p.c. e per vizio di motivazione, l’affermazione del giudice di merito, che, tenuto conto di quanto dichiarato dal difensore del C. all’udienza del 28 giugno 1995, la domanda proposta in causa sarebbe una domanda di responsabilità precontrattuale e non contrattuale, sebbene il C. avesse chiesto il pagamento dell’importo di cui alla parcella, senza alcun accenno al comportamento colposo dell’amministrazione.

8. Con il secondo motivo del suo ricorso incidentale, il ministero censura, per violazione dell’art. 1337 c.c. e per vizio di motivazione, l’accertamento della sua responsabilità precontrattuale. Le trattative, alle quali fa riferimento l’art. 1337 c.c., si erano concluse con la stipulazione di una convenzione il 25 settembre 1981, e il C. non aveva mai sostenuto l’inosservanza da parte della pubblica amministrazione dei principi di lealtà e correttezza nella fase delle trattative che hanno preceduto tale convenzione. Non era configurabile una culpa in contrahendo per la mancata registrazione del decreto ministeriale di approvazione della convenzione.

I due motivi sono intrinsecamente collegati, e possono essere esaminati insieme. Essi sono infondati.

La domanda di accertamento della responsabilità precontrattuale è validamente proposta sulla base della rappresentazione di elementi di fatto idonei a dimostrare la lesione della buona fede tenuta dalla parte nel corso della vicenda, e con ciò dell’obbligo sancito dall’art. 1337 c.c.. La citata disposizione, infatti, delinea completamente la fattispecie sostanziale tutelata, costituita dal rapporto particolare che con la trattativa s’istituisce tra le parti, alle quali è normativamente imposto un obbligo di comportamento in buona fede; una fattispecie, pertanto, ben distinta dalla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui la lesione precede l’instaurazione di un qualsiasi rapporto particolare tra le parti. La violazione di quest’obbligo particolare, dunque, costituisce un caso di responsabilità compreso tra quelli indicati dall’art. 1173 c.c.. Sulla base di queste premesse, l’interpretazione della domanda, compiuta dal giudice di merito, appare giuridicamente corretta e immune da censure.

Quanto alla mancata allegazione del profilo della colpa, va ricordato che questa corte è da tempo pervenuta a qualificare la responsabilità da contatto sociale in termini di responsabilità contrattuale, nella quale, conseguentemente, il danneggiato deve dimostrare – oltre al danno sofferto – solo la condotta antigiuridica, e non anche la colpa (tra le molte, in particolare, Cass. 22 gennaio 1999 n. 589, e Sez. un. 26 giugno 2007 n. 14712).

Come si è già osservato, la responsabilità precontrattuale, nella quale v’è certamente un contatto sociale qualificato dallo stesso legislatore, con la previsione specifica di un obbligo di buona fede, presenta tutti gli elementi dell’art. 1173 c.c., sicchè deve ritenersi che l’attore, il quale intenda far valere tale responsabilità, abbia l’onere di provare solo l’antigiuridicità del comportamento (la violazione dell’obbligo di buona fede) e il danno.

Il motivo, pertanto, deve essere rigettato in base al principio che, in tema di responsabilità precontrattuale, la parte che agisca in giudizio per il risarcimento del danno subito ha l’onere di allegare, e occorrendo provare, oltre al danno, l’avvenuta lesione della sua buona fede, ma non anche l’elemento soggettivo dell’autore dell’illecito, versandosi – come nel caso di responsabilità da contatto sociale, di cui costituisce una figura normativamente qualificata – in una delle ipotesi previste nell’art. 1173 c.c..

9. Con il terzo motivo si censura la violazione degli artt. 1223, 1226, 1337, 2056 e 2697 c.c. per aver liquidato a favore del C., a titolo di occasioni lavorative perdute, il 15% della somma liquidata per spese. L’art. 1226 non esonera l’attore dall’onere di provare il danno subito e trova applicazione solo quando il danno, di cui è stata provata l’esistenza, non può essere determinato nel suo preciso ammontare.

10. L’amministrazione si limita a censurare la liquidazione del danno da “occasioni lavorative perdute” attraverso l’incremento del 15% della somma liquidata per spese, e si duole del richiamo dell’art. 1226 c.c., ma non indica in modo puntuale l’affermazione dell’impugnata sentenza che sarebbe incorsa nella denunciata violazione, e sotto questo profilo è viziata da genericità. La corte constata peraltro che la denunciata violazione di legge non si legge nel testo della sentenza. In essa si afferma bensì che la “obiettiva difficoltà di fornire il riscontro, esauriente, della perdita di analoghe occasioni lavorative” giustifica l’applicazione della norma contenuta nell’art. 2056 c.c., che in tali casi consente la liquidazione equitativa. Ma quest’affermazione – nell’ipotesi che sia quella che la ricorrente intenda denunciare – sembra riferirsi piuttosto alla liquidazione dell’ammontare del danno, che non alla prova di esso, specie tenuto conto delle affermazioni che seguono circa l’identificazione di dati di riferimento. Peraltro, in difetto di censura sulla motivazione, ogni ulteriore indagine è preclusa nel presente giudizio di legittimità.

11. In conclusione i ricorsi devono essere rigettati. La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese del giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del giudizio di legittimità tra le parti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione della Corte suprema di cassazione, il 10 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2011

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