Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27644 del 30/10/2018

Cassazione civile sez. II, 30/10/2018, (ud. 12/07/2018, dep. 30/10/2018), n.27644

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8423/2014 proposto da:

C.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALFREDO FUSCO

n. 3, presso lo studio dell’avvocato ADRIANO ANDRENELLI, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI TOR

VERGATA n. 12, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO DI CENSO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO BRUNI;

C.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE BRUNO

BUOZZI n. 99, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO D’ALESSIO, che

la rappresenta e difende;

CA.EN., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO

MIRABELLO n. 14, presso lo studio dell’avvocato MARIO MENDICINI, che

lo rappresenta e difende;

F.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE BRUNO BUOZZI

n. 82, presso lo studio dell’avvocato IRENE PELLICCIARI,

rappresentato e difeso dall’avvocato MASSIMO DE MARTINIS;

– controricorrenti –

e contro

SEDICI BANCA SPA, PUBBLICO MINISTERO presso la CORTE DI APPELLO

CIVILE di ROMA, RIVER HOLDING SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4945/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/07/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 23.7.1986 C.G. esponeva che con atto a rogito del notaio S. in (OMISSIS) in data (OMISSIS), regolarmente registrato e trascritto, l’Ente Maremma aveva assegnato a C.I. e C.D., in attuazione della L. n. 230 del 1950 e L. n. 841 del 1950, un fondo in Comune di (OMISSIS), località (OMISSIS), costituente il podere n. (OMISSIS); che con atto a rogito del notaio D.B. in Roma in data (OMISSIS), i due assegnatari avevano riscattato il bene; che sul terreno erano state realizzate costruzioni oggetto di domanda di condono edilizio; che il (OMISSIS) era deceduto C.D., al quale erano succeduti la moglie Cr.Ma. e le figlie C.M., E. e G.; che quest’ultima aveva chiesto lo scioglimento della comunione ereditaria. Su tali premesse, l’attrice evocava tutti gli altri comproprietari per lo scioglimento della comunione e il rendiconto della gestione dei beni ereditari.

Si costituiva C.I. deducendo che con scrittura del 28.5.1964 i due fratelli, I. e D., si erano divisi amichevolmente il podere, assegnandosi per sorteggio le quote individuate con l’ausilio di un tecnico e lasciando in comune l’area comprendente i fabbricati colonici e le pertinenze; che ciascuno dei due fratelli, e lui in particolare, aveva trattato quanto ricevuto come cosa sua propria; che, quindi, si era maturata a suo favore l’usucapione della quota a lui assegnata in virtù di possesso pacifico ultraventennale.

Si costituivano anche C.E. e M., eccependo l’indivisibilità del bene giusta le disposizioni della L. n. 1078 del 1940 e L. n. 379 del 1967.

Con distinto atto di citazione C.G. invocava la divisione in natura del podere e la condanna dei convenuti al versamento delle rendite non percepite e al risarcimento del danno derivante dall’estromissione dell’attrice dal godimento del bene de quo, avvenuta dopo la morte del suo dante causa C.D..

Si costituivano in questo secondo giudizio C.I., il quale ribadiva l’esistenza della divisione convenzionale, C.M. e C.E., la quale ultima invocava il rigetto delle domande di rendiconto e di risarcimento.

I due giudizi venivano riuniti e si costituiva Cr.Mi., invocando il rigetto della domanda di divisione proposta da C.G., se relativa all’intero podere, giusta la divisione bonaria avvenuta tra i due fratelli C.D. e I. nel 1964; ed invocando invece la divisione della metà del podere spettante a C.D. (e per esso ai suoi eredi) secondo le quote di legge e quindi quanto ai 3/9 in suo favore e quanto ai 2/9 per ciascuna delle tre figlie M., E. e G., ponendo nel passivo ereditario il controvalore dei miglioramenti apportati dai singoli condividenti ai beni ereditari.

Interveniva in giudizio anche F.D., il quale allegava che con il consenso dei due originari comproprietari egli aveva posseduto una porzione di 2000 mq. di terreno posto a confine con la via (OMISSIS) sin dal 1968, apportandovi miglioramenti e costruendovi la propria casa di abitazione e la propria falegnameria; chiedeva quindi che detta area venisse esclusa dalla divisione e che fosse accertato il suo diritto a ritenerla, in uno ai sovrastanti fabbricati.

Con ordinanza del 17.3.1998 il Tribunale riteneva che il fondo fosse assoggettato a vincolo di indivisibilità ex lege; che quindi fossero da ritenere nulli gli atti di disposizione, sia inter vivos che mortis causa, prevedenti il frazionamento del bene; che fosse applicabile la speciale procedura in camera di consiglio prevista dalla L. n. 1078 del 1940, art. 7; che vi fossero creditori pignoratizi nei confronti dei quali il contraddittorio doveva essere integrato.

Veniva quindi integrato il contraddittorio, tanto nei confronti dei creditori che del P.M., e nel contempo C.G. proponeva regolamento di competenza avverso la predetta ordinanza. Con sentenza del 22.5.2000 la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso compensando le spese.

Il giudizio veniva quindi interrotto a causa del decesso di Cr.Ma. e riassunto ad istanza di C.G., sia in proprio che nella qualità di erede della madre.

All’esito di ulteriori vicende il Tribunale di Roma, con decreto del 3.5.2005, riteneva che al giudizio non fosse applicabile il procedimento speciale previsto dalla L. n. 1078 del 1940, art. 7 e revocava la precedente ordinanza del 17.3.1998.

Infine, con sentenza n. 9812/2009, il Tribunale respingeva tanto la domanda principale proposta da C.G. che quelle riconvenzionali formulate rispettivamente da C.I. e da F.D..

La decisione veniva impugnata ad istanza di C.G. e, con appello incidentale, sia da Ca.En., unico erede di C.I., nel frattempo deceduto, che da F.D..

Con la sentenza impugnata n. 4945/2013 la Corte di Appello di Roma respingeva tanto gli appelli principali che quelli incidentali, compensando le spese, sul presupposto che ai fini della individuazione del regime giuridico applicabile alla fattispecie si dovesse fare riferimento alla data dell’apertura della successione e non a quella di proposizione della domanda giudiziale, in coerenza con il principio posto dalla sentenza n. 12060 del 2009 della Corte di Cassazione. Pertanto, poichè la successione si era aperta prima del 1992, sussisteva il vincolo di indivisibilità ravvisato dal Tribunale.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione C.G., affidandosi a quattro motivi. Resistono con separati controricorsi C.E., C.M., Ca.En. e F.D.. C.M. ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 184 c.p.c., nella formulazione applicabile ratione temporis, perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente ritenuto nuova la domanda di reintegrazione nel possesso proposta dalla ricorrente, senza tener conto che essa – che era stata proposta in sede di precisazione delle conclusioni di prime cure – non era stata espressamente contestata dalle altre parti. Ad avviso della ricorrente, in assenza di eccezione di parte il giudice di merito non avrebbe potuto rilevare ex officio la novità della domanda in esame.

La doglianza è infondata, posto che “Con riguardo a procedimento pendente alla data del 30 aprile 1995 – per il quale trovano applicazione le disposizioni degli artt. 183,184 e 345 c.p.c., nel testo vigente anteriormente alla “novella” di cui alla L. n. 353 del 1990 (D.L. n. 432 del 1995, art. 9, conv. nella L. n. 534 del 1995) – il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado risulta posto a tutela della parte destinataria della domanda; pertanto la violazione di tale divieto – che è rilevabile dal giudice anche d’ufficio, non essendo riservata alle parti l’eccezione di novità della domanda – non è sanzionabile in presenza di un atteggiamento non oppositorio della parte medesima, consistente nell’accettazione esplicita del contraddittorio o in un comportamento concludente che ne implichi l’accettazione. A quest’ultimo fine, l’apprezzamento della concludenza del comportamento della parte va effettuato dal giudice attraverso una seria indagine della significatività dello stesso, senza che assuma rilievo decisivo il semplice protrarsi del difetto di reazione alla domanda nuova, nè potendosi attribuire, qualora questa sia formulata all’udienza di precisazione delle conclusioni, valore concludente al mero silenzio della parte contro la quale la domanda è proposta, sia essa presente, o meno, a detta udienza” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4712 del 22/05/1996, Rv. 497728; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3813 del 02/05/1997, Rv. 504037; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3635 del 08/04/1998, Rv. 514367; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11508 del 16/11/1998, Rv. 520706; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2805 del 10/03/2000, Rv. 534759).

Peraltro, il motivo appare anche non sufficientemente specifico, posto che da esso non si ricava la dimostrazione dell’atteggiamento non oppositivo che sarebbe stato tenuto dalle parti convenute rispetto alla domanda di reintegrazione nel possesso di cui si discute. Al contrario, emerge dai controricorsi di C.E. e F.D. che costoro contestarono, con la comparsa di costituzione in appello, la domanda nuova proposta dalla odierna ricorrente solo in sede di precisazione delle conclusioni in prima istanza.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., perchè la Corte di Appello avrebbe omesso di pronunciarsi su una serie di domande proposte dalla ricorrente, e segnatamente su quelle indicate ai numeri da 7 a 14 delle conclusioni rassegnate in seconda istanza. Ad avviso della ricorrente, la Corte avrebbe errato nel ritenere che tutte dette domande fossero conseguenziali rispetto alla domanda di scioglimento della comunione e, quindi, a ritenerle assorbite dal rigetto di quest’ultima a cagione della ritenuta indivisibilità del fondo.

La doglianza è fondata, limitatamente alla sola domanda di pagamento degli utili, delle rendite e dei frutti (proposta sub nn. 8 e 9 da C.G. nelle conclusioni rassegnate in grado di appello), la quale dev’essere interpretata come domanda di rendiconto a fronte del godimento esclusivo del bene comune realizzato dagli altri condividenti. Infatti, premesso che l’odierna ricorrente aveva sin dal principio agito per la divisione del fondo e per il rendiconto dei beni in comune, allegando che questi ultimi erano stati posseduti – dopo la morte del suo dante causa C.D. – solo dagli altri condividenti, la seconda domanda non è certamente conseguenziale, nè rispetto a quella di scioglimento della comunione, nè rispetto a quella di reintegrazione nel possesso, proposta invece – come già detto – soltanto in sede di precisazione delle conclusioni in prime cure.

In argomento, va ribadito il principio secondo cui “Nell’ambito dei rapporti tra coeredi, la resa dei conti di cui all’art. 723 c.c., oltre che operazione inserita nel procedimento divisorio, può anche costituire un obbligo a sè stante, fondato – così come avviene in qualsiasi situazione di comunione – sul presupposto della gestione di affari altrui condotta da uno dei partecipanti; ne consegue che l’azione di rendiconto può presentarsi anche distinta ed autonoma rispetto alla domanda di scioglimento della comunione pur se le due domande abbiano dato luogo ad un unico giudizio, sicchè le medesime possono essere scisse e decise senza reciproci condizionamenti” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 30552 del 30/12/2011, Rv. 620792; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6358 del 07/06/1993, Rv. 482697 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5720 del 13/11/1984, Rv. 437401).

Relativamente a tutte le altre domande, invece, non vi è omessa pronuncia in quanto la Corte territoriale le ha espressamente ritenute assorbite dal rigetto della domanda di divisione del bene de quo.

Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 1078 del 1940 e dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art.360 n.3 c.p.c. perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente respinto il motivo di gravame spiegato dalla ricorrente in relazione all’effetto di giudicato derivante dal decreto collegiale del Tribunale del 3.5.2005, con il quale era stata revocata la precedente ordinanza del 17.3.1998 ed era stata esclusa la sussistenza del vincolo di indivisibilità del fondo di cui è causa, in quanto superata dal decorso del trentennio dalla prima assegnazione, giusta le disposizioni della L. n. 191 del 1992, che avevano modificato, sul punto, l’originaria stesura della L. n. 1078 del 1940. Ad avviso della ricorrente questa affermazione, contenuta nella motivazione del richiamato decreto, costituirebbe un accertamento suscettibile di passare in giudicato, onde il Tribunale non avrebbe poi potuto, nella sentenza definitiva, affermare l’indivisibilità del fondo.

La censura è inammissibile, posto che la ricorrente la ha proposta non già come motivo di appello principale, ma soltanto in sede di appello incidentale conseguente all’impugnazione svolta dalle altre parti avverso la medesima sentenza di prime cure. Dovendosi ritenere, ratione temporis, di natura incidentale queste ultime impugnazioni, in quanto successive alla prima, introdotta dall’odierna ricorrente, costei non poteva proporre ulteriori censure in via incidentale, avendo già consumato il proprio potere di impugnazione con l’appello principale, nell’ambito del quale non v’è cenno alla questione del dedotto giudicato interno.

Con il quarto motivo, infine, la ricorrente lamenta la violazione della L. n. 1078 del 1940 e L. n. 191 del 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè la Corte territoriale avrebbe errato nel non rilevare che della L. n. 1078 del 1940, art. 5,comma 4, disponeva che ciascuno dei comproprietari, trascorso un anno dall’inizio della comunione, ha la facoltà di chiederne lo scioglimento mediante vendita dell’intera unità poderale. Inoltre, la Corte di Appello non avrebbe valorizzato la circostanza che i condividenti, avendo indicato nella denuncia di successione del de cuius il bene come in comunione pro quota, avrebbero manifestato l’intenzione di istituire la comunione tra loro.

La doglianza è parzialmente fondata.

Ed invero, ferma restando l’irrilevanza del contenuto della dichiarazione di successione, che non ha valore di atto negoziale e quindi non è idonea a dimostrare l’intenzione delle parti, va considerato che la comunione tra i condividenti, eredi del comune stipite C.D., è sorta ope legis per effetto del decesso di quest’ultimo, risalente al (OMISSIS). La domanda di scioglimento della comunione, invece, è stata introdotta con l’atto di citazione del 23.7.1986.

Se è vero che della L. n. 1078 del 1940, art. 5, comma 4, sembra riferirsi soltanto alla comunione prevista dal comma precedente, ovverosia a quella disposta dall’Autorità Giudiziaria, ad istanza dei titolari della maggioranza delle quote, a favore dei coeredi che manifestino l’intenzione di vivere in comunione, tuttavia la situazione non è dissimile da quella in cui, in difetto di alcun provvedimento del giudice, sia comunque decorso oltre un anno dall’apertura della successione e dalla conseguente insorgenza della comunione incidentale tra i coeredi dell’originario proprietario. Nel primo caso come nel secondo, infatti, quel che rileva è la presenza di una comunione, la sua costituzione da oltre un anno e la presenza della domanda di divisione proposta da almeno uno dei comproprietari.

Del resto, il fatto che in mancanza di domande di subentro, individuali o collettive, nella titolarità del podere si debba procedere alla vendita dell’intero fondo e alla divisione del ricavato si ricava della L. n. 1078 del 1940 stesso art. 5,comma 2.

Ed invero, la legge speciale non preclude affatto lo scioglimento della comunione, che – anzi – è dettagliatamente regolato proprio dall’art. 5, appena richiamato, ma vieta soltanto il frazionamento del bene, a condizione che il relativo vincolo sia stato trascritto e sia quindi utilmente opponibile ai terzi (cfr. L. n. 1078 del 1940, art. 2, comma 2).

In definitiva, il primo motivo va respinto, il terzo dichiarato inammissibile, mentre vanno accolti il secondo e – in parte – il quarto, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte di Appello di Roma, che dovrà pronunciarsi sulla domanda di scioglimento della comunione, tenendo conto dell’ormai acquisita infrazionabilità del podere, nonchè sulla domanda di rendiconto proposte da C.G..

P.Q.M.

la Corte rigetta il primo motivo, dichiara inammissibile il terzo ed accoglie, per quanto in motivazione, il secondo e il quarto. Cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa ad altra sezione della Corte di Appello di Roma anche per le spese del presente grado.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 12 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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