Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27639 del 11/12/2013


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 27639 Anno 2013
Presidente: ODDO MASSIMO
Relatore: MANNA FELICE

SENTENZA

sul’ricorso 32014-2007 proposto da:
CAGOSSI

PAOLA

CGSPLA62M48E253R,

GORI

ROMANO

GRORMN28D06A944E, GORI ANDREA GRONDR63C08A944A,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FLAMINIA 79,
presso lo studio dell’avvocato PECORELLA MICHELE,
rappresentati e difesi dall’avvocato GORI FRANCESCA
ROMANA;
– ricorrenti contro

CASADIO DOMENICO ERNESTO CSDDNC48M11D704Q, CASADIO
DAVIDE ENZO CSDDDN53A18D704P, in qualita’ di eredi di

Data pubblicazione: 11/12/2013

Casadio Secondo, elettivamente domiciliati in ROMA,
VIA ZARA 13, presso lo studio dell’avvocato GUARNACCI
GIULIO, che li rappresenta e difende unitamente
all’avvocato CAMPISI ROBERTO, giusta procura speciale
per dottor Alessandro Torroni, Notaio in Forli’, del
16.12.2009 Rep. n. 9093 in Forli’;
– resistenti –

avverso l’ordinanza del TRIBUNALE di BOLOGNA,
depositata il 12/10/2007 R.G.n. 431/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 06/11/2013 dal Consigliere Dott. FELICE
MANNA;
udito l’Avvocato ANDREA GORI, con delega dell’Avvocato
FRANCESCA ROMANA GORI difensore dei ricorrenti che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito

l’Avvocato

dell’avvocato

ELIO

ROBERTO

DOGHERIA,
CAMPISI

con

delega

difensore

dei

resistenti, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MAURIZIO VELARDI che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso.

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ordinanza del 12.10.2007 resa ai sensi dell’art. 29 legge n. 794/42
sull’opposizione di Domenico Ernesto e Davide Enzo Casadio, il Tribunale di
Bologna, revocato il decreto ingiuntivo emesso per la somma di E 12.228,64,

minor somma di E 1.613,66, che poneva a carico degli opponenti per la quota
parte di E 322,73, oltre accessori di legge, essendo stata svolta l’attività
professionale anche in favore di altri soggetti.
Dalla narrativa di tale provvedimento si ricava che la domanda traeva
origine dall’attività giudiziale svolta dai ridetti avvocati in favore
dell’opponenti e di altri soggetti, in una causa di cognizione vinta davanti al
Tribunale di Forlì; che quanto richiesto in via monitoria era un compenso
ulteriore rispetto a quello liquidato da detto giudice, con sentenza n. 761/03, a
carico della controparte soccombente in complessivi

e

14.321,19 oltre spese

generali ed accessori di legge; e che l’opponente aveva dedotto la non
debenza del compenso richiesto “per esorbitanza, incongruità e/o inesattezza
della relativa pretesa”.
Ciò posto, il Tribunale premetteva che nei rapporti interni fra cliente e
avvocato non era vincolante la liquidazione operata dal giudice della causa
nella quale il professionista aveva svolto la propria attività. Tuttavia, in difetto
di accordi preventivi fra le parti, doveva tenersi in considerazione la somma
che gli stessi avvocati aveva chiesto in giudizio depositando la relativa notula.
Quest’ultima costituiva una valutazione, quantitativa e qualitativa, delle
prestazioni professionali eseguite, avente un valore quantomeno delimitativo
se non addirittura confessorio.
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liquidava in favore degli avvocati Andrea e Romano Gori e Paola Cagossi, la

Pertanto, poiché nel caso di specie non era stato provato l’accordo su di un
compenso pari alla somma di quanto già percepito dagli avvocati ricorrenti, a
seguito della liquidazione del Tribunale di Forlì, e dell’importo domandato in
via monitoria, doveva essere riconosciuta in favore dei predetti la differenza

del Tribunale.
Avverso tale ordinanza gli avvocati Andrea e Romano Gori e Paola
Cagossi propongono ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.
Gli intimati hanno depositato procura notarile in forza della quale ha
partecipato alla discussione della causa.
Deceduto l’avv. Romano Gori, gli eredi di lui — e cioè gli avvocati
Francesca Romana, Guido e lo stesso Andrea Gori — hanno depositato atto di
“costituzione” reiterando le richieste di cui al ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.

Con l’unico motivo d’impugnazione parte ricorrente deduce la

violazione degli artt. 1, 2, 4 e 5 del D.M. n. 585/94, in relazione al n. 3
dell’art. 360 c.p.c.
Premesso che nei rapporti interni fra cliente ed avvocato è irrilevante la
statuizione operata dal giudice sulle spese giudiziali, parte ricorrente sostiene
che il non aver pattuito il compenso non esclude che l’avvocato possa
richiedere le ulteriori competenze ex art. 2 della tariffa di cui al D.M. cit.
Richiamando giurisprudenza di questa Corte in materia, parte ricorrente
sostiene che la motivazione dell’ordinanza viola, in particolare, l’art. 5 della
tariffa, che detta i criteri di liquidazione del compenso a carico del cliente. Le
somme liquidabili a tal fine, potendo tener conto dei vantaggi, anche
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tra la notula depositata nella causa e l’importo liquidato con la citata sentenza

patrimoniali, conseguiti dal cliente, possono essere maggiori di quelle
liquidate a carico della controparte soccombente, sicché è inconferente il
richiamo alla nota spese depositata nella causa, la quale non può costituire un
limite invalicabile, né un parametro approssimativo per la successiva

carico della parte soccombente risponde al principio di causalità, mentre
quella che grava sul cliente si fonda sul contratto di prestazione d’opera
intellettuale.
Formula, pertanto, il seguente quesito di diritto ai sensi dell’art. 366-bis
c.p.c., applicabile ratione temporis (ex art. 27, 2° comma D.Lgs. n. 40/06) alla
fattispecie: “dica la Suprema Corte se è obbligo del cliente corrispondere gli
onorari e i diritti all’avvocato ed al procuratore indipendentemente dalle
statuizioni del Giudice sulle spese giudiziali, e quindi indipendentemente
dall’avvenuto pagamento delle spese legali come liquidate a carico della parte
soccombente, in conformità alla tariffa vigente al momento della prestazione
dell’opera ed indipendentemente anche dal fatto che il professionista abbia o
non abbia previamente concordato con il cliente il quantum da quest’ultimo
dovutogli anche in caso di esito vittorioso della causa”.
2. – Il motivo è inammissibile per l’inidoneità del quesito di diritto.
2.1. – Deve rilevarsi preliminarmente che questa Corte, con sentenza
n.11392/11 resa su analogo ricorso ex art. 111 Cost. degli avv.ti Andrea e
Romano Gori e Paola Cagossi, proposto nei confronti di altra parte tra quelle
stesse difese dai ridetti avvocati nel giudizio svoltosi innanzi al Tribunale di
Forlì e concluso con sentenza n. 761/03, basato sullo stesso motivo e
corredato da un quesito di diritto perfettamente identico a quello in esame, ha
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liquidazione nei confronti del cliente. Infatti, la liquidazione delle spese a

dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo il quesito non rispondente alle
prescrizioni dell’art. 366-bis c.p.c.
Si legge nella motivazione di detta pronuncia, che conviene riportare per la
compiutezza dei suoi richiami: «costituisce un dato ormai ampiamente

dell’indispensabilità, a pena di inammissibilità, della individuazione dei
quesiti di diritto e dell’enucleazione della chiara indicazione del “fatto
controverso” per i vizi di motivazione imposti, ratione temporis, dall’art. 366
bis cod. proc. civ., secondo una prospettiva volta a riaffermare la cultura del
processo di legittimità, risponde all’esigenza di soddisfare l’interesse del
ricorrente ad una decisione della controversia diversa da quella cui è
pervenuta il provvedimento impugnato, e, nel contempo, con più ampia
valenza, di estrapolare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di
cassazione (costituente l’asse portante della legge delega presupposto dal
D.Lgs. n. 40 del 2006), il principio di diritto applicabile alla fattispecie.
Pertanto, il quesito di diritto integra il punto di congiunzione tra la risoluzione
del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando
altrimenti inadeguata, e quindi inammissibile, l’investitura stessa del giudice
di legittimità (in questi termini v., ex multis, S.U. sent. nn. 14385/2007;
22640/2007, 3519/2008, 11535/2008, S.U., n. 26020/2008 e ordinanza, sez. 1,
n. 20409/2008). Quanto ai requisiti ed alle caratteristiche del quesito, che
deve necessariamente essere presente nel ricorso con riferimento a ciascun
motivo (Cass. SU 2007 n. 36), ulteriormente è stato precisato che il quesito
deve essere: a) esplicito (SU 2007 n. 7258; SU 2007 n. 23732; SU 2008 n.
4646) e non implicito; b) specifico, e cioè riferibile alla fattispecie e non
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recepito nella giurisprudenza della suprema Corte che la previsione

generico (SU 2007 n. 36, SU 2008 n. 6420 e 8466); c) conferente, attinente
cioè al decisum impugnato e rilevante rispetto all’impugnazione (SU 2007 n.
14235). Il principio di diritto deve, quindi, consistere in una chiara sintesi
logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità,

ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del
gravame. Da ciò discende che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il
suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo
inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione; ovvero sia
formulato in modo implicito, sì da dovere essere ricavato per via di
interpretazione dal giudice; od ancora sia formulato in modo tale da richiedere
alla Corte un inammissibile accertamento di fatto, od, infine, sia formulato in
modo del tutto generico. In altri termini, “il quesito non può consistere in una
mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della S.C. in ordine
alla fondatela della censura così come illustrata nello svolgimento dello stesso
motivo, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la
medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciamone di una
“regula iuris” che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in
casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha
pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità
deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi
logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamene compiuto dal
giudice e quale sia, secondo la prospettazioni del ricorrente, la regola da
applicare” (S.U. sent. n. 3519/2008, cit). Si è, perciò, ulteriormente chiarito
che “il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve
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formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che

compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al
giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata da
quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si
sarebbe dovuta applicare al caso di specie. È, pertanto, inammissibile il

puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di
una determinata disposizione di legge” (v., da ultimo, ordinanza, sez. 3, n.
19768/2008 e sentenza, sez. 3, n. 24339/2008). Infine, si è ribadito in
proposito che “il quesito di diritto richiesto dall’art. 366 bis c.p.c. a pena di
inammissibilità del motivo di ricorso cui accede, oltre a dover essere
conferente rispetto al “decisum”, deve essere formulato in modo da poter
circoscrivere la pronuncia del giudice nei limiti di un accoglimento o un
rigetto del quesito medesimo, senza che esso debba richiedere, per ottenere
risposta, una scomposizione in più parti prive di connessione tra loro (v.
sentenza, sez. L., 17064/2008)».
Quindi, detta sentenza ha osservato, con riferimento allo specifico quesito
di diritto formulato: «esso appare carente di specificità e di conferenza
rispetto al decisum. Infatti, la prima parte del quesito (…) pone alla Corte lo
scrutinio di un principio di diritto conforme all’orientamento prevalente della
Corte stessa, ma condiviso anche dal giudice del provvedimento impugnato.
Infatti il Tribunale ha affermato che ai sensi del D.M. 5 ottobre 1994, n. 585,
art. 2 gli onorari ed i diritti sono sempre dovuti all’avvocato dal cliente
indipendentemente dalle statuizioni del giudice sulle spese giudiziali,
ulteriormente osservando che nel rapporto negoziale intercorso tra l’avvocato
ed il cliente, non sono vincolanti e, quindi, non sono necessariamente
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ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C.

esaustive delle ragioni creditorie del professionista le liquidazioni (ma anche
le eventuali compensazioni) operate in sentenza dal Giudice, restando,
conseguentemente, salvo il diritto dell’avvocato di esigere da cliente gli
ulteriori compensi non riconosciuti in sede giudiziale. Quindi, alla risposta

motivata dal Tribunale. Con riguardo alla seconda parte del quesito (…), il
quesito appare ininfluente, posto che al riguardo il Tribunale ha escluso
l’esistenza di accordi sul compenso, affermando che non è stata fornita la
prova documentale dell’esistenza tra le parti di un preventivo accordo
sull’entità complessiva del dovuto compenso professionale e, segnatamente,
su un compenso pari alla sommatoria di quello già percepito a seguito di
liquidazione del Tribunale di Forlì e quello preteso in questa sede.
I ricorrenti non hanno colto la ratio decidendi adottata dal Tribunale, che ha
invece ritenuto che con la presentazione di una dettagliata nota spese nel
giudizio per il quale era stata avanzata la pretesa in questione “… l’avvocato
opera, ex se, una valutazione, quantitativa e qualitativa, delle prestazioni
professionali espletate e ne determina il relativo compenso dovuto sulla base
dei parametri dettati dalle tariffe professionali di riferimento, rimettendone al
vaglio definitivo del Giudice la concreta liquidazione ovviamente entro e non
oltre i limiti della domanda di pagamento in essa insita, concludendo che in
difetto di accordi preventivi circa l’entità del compenso finale, la nota spese
come sopra predisposta, in quanto espressione di una libera e consapevole
valutazione operata dal professionista secondo specifici criteri tariffari, deve
rivestire, anche nel rapporto interno con il cliente, per ragioni non solo
strettamente giuridiche ma pure di trasparenza, un valore quantomeno
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positiva data al quesito non consegue alcun effetto rispetto alla decisione

delimitativo, se non addirittura confessorio, del credito spettante al primo nei
termini in cui lo stesso avvocato lo ha ritenuto, con la nota spese, dovuto e
congruo, con la conseguenza che il professionista, ove non soddisfatto dalla
liquidazione giudicale, potrà, giusto il disposto del citato D.M., art. 2 esigere

riconosciutagli dal Giudice, ma pur sempre nel rispetto dei limiti aggettivi
tracciati dallo stesso con la parcella prodotta in giudizio”. Il Tribunale, quindi,
ha valutato il comportamento dei professionisti nel senso indicato e ha tratto
le relative conclusioni. Il punto della decisione non risulta all’evidenza
oggetto del quesito».
2.2. – Tale motivazione è pienamente condivisa da questa Corte, giacché
s’inserisce in un indirizzo giurisprudenziale costante, che non registra, nei
termini sopra richiamati, scostamenti di sorta.
3. – Per quanto sopra, s’impone la declaratoria d’inammissibilità del
ricorso.
4. – Le spese, liquidate come in dispositivo e con esclusivo riguardo alla
sola atticità difensiva svolta dal difensore della parte intimata, seguono la
soccombenza dei ricorrenti.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti alle
spese, che liquida in E 1.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA
come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile
della Corte Suprema di Cassazione, il 6.11.2013.

dal cliente il pagamento di quella quota-parte del compenso professionale non

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