Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27634 del 03/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 03/12/2020, (ud. 11/11/2020, dep. 03/12/2020), n.27634

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16548/2019 R.G. proposto da:

A.A., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al

ricorso, dall’avv. Amedeo GRASSOTTI, ed elettivamente domiciliato in

Roma, al largo Somalia, n. 67, presso lo studio legale dell’avv.

Rita GRADARA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro

tempore, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e

difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è

domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5268/25/2018 della Commissione Tributaria

Regionale della LOMBARDIA, Sezione staccata di BRESCIA, depositata

il 29/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del giorno 11/11/2020 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. In controversia relativa ad impugnazione di tre avvisi di accertamento di maggiori redditi di impresa emessi ai fini IVA, IRAP ed IRPEF nei confronti di A.A., quale titolare della ditta individuale denominata “Luna Cart. di A.A.”, con riferimento agli anni di imposta 2011, 2012 e 2013, con la sentenza in epigrafe indicata la CTR lombarda rigettava l’appello del contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado ritenendo regolare la notifica degli atti impositivi, effettuata con spedizione diretta da parte dell’amministrazione finanziaria a mezzo raccomandata postale; legittimo l’accertamento di maggiori ricavi, fondato su riscontri documentali; dovuta l’IVA sui ricavi derivanti dai prelievi bancari accertati; dovute le sanzioni applicate. Infine, in accoglimento dell’appello incidentale dell’Agenzia delle entrate avverso il capo di sentenza della CTP che aveva ritenuto illegittimi i recuperi a tassazione dei prelevamenti bancari, confermava integralmente gli avvisi di accertamento impugnati.

2. Avverso tale statuizione il ricorrente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati con memoria, cui replica con controricorso l’Agenzia delle entrate.

3. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo mezzo di cassazione il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, dell’art. 149 c.p.c., del D.L. n. 78 del 2010, art. 26, comma 1, lett. a) e b), convertito con modificazioni dalla L. n. 122 del 2010, e della L. n. 890 del 1982, art. 14.

1.1. Sostiene che aveva errato la CTR a ritenere regolare la notifica degli avvisi di accertamento impugnati, non avendo i giudici di appello distinto tra atti impoesattivi “primari” e quelli “secondari”, come operata dal D.L. n. 78 del 2010, art. 29, convertito con modificazioni dalla L. n. 122 del 2010, che prevede per gli stessi un differente regime di notificazione, in particolare quello a mezzo raccomandata postale è modalità prevista solo per gli atti impoesattivi “secondari”, di cui alla citata disposizione, comma 1, secondo periodo, lett. a).

2. Il motivo è manifestamente infondato e va rigettato.

3. Il D.L. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. a), convertito, così dispone:

“Le attività di riscossione relative agli atti indicati nella seguente lett. a) emessi a partire dal 1 ottobre 2011 e relativi ai periodi d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2007 e successivi, sono potenziate mediante le seguenti disposizioni:

a) l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni, devono contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15. L’intimazione ad adempiere al pagamento è altresì contenuta nei successivi atti da notificare al contribuente, anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento, in tutti i casi in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto ed ai connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni ai sensi del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 8, comma 3-bis, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 48, comma 3-bis, e art. 68, e del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 19, nonchè in caso di definitività dell’atto di accertamento impugnato. In tali ultimi casi il versamento delle somme dovute deve avvenire entro sessanta giorni dal ricevimento della raccomandata; la sanzione amministrativa prevista dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, non si applica nei casi di omesso, carente o tardivo versamento delle somme dovute, nei termini di cui ai periodi precedenti, sulla base degli atti ivi indicati”.

3.1. Orbene, anche a voler definire “primario” “l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni” contenente “anche l’intimazione ad adempiere”, e “secondario” l’eventuale successivo atto da notificare al contribuente “in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento”, la disposizione in esame, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non introduce alcuna distinzione tra l’uno e l’altro tipo di atto quanto a modalità di notificazione e sicuramente nessuna limitazione per gli atti “primari”.

3.2. Al riguardo, infatti, è sufficiente ricordare che la disciplina della “notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente” è contenuta nella L. n. 890 del 1982, art. 14, che prevede espressamente, nel comma 1, prima parte, che essa “sia eseguita” (di regola) “a mezzo della posta, direttamente dagli uffici finanziari” e solo “ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria, secondo le modalità previste dalla presente legge”.

3.3. Tale disposizione non è stata abrogata e nemmeno derogata dal D.L. n. 78 del 2010, art. 29, convertito con modificazioni dalla L. n. 122 del 2010, sicchè la tesi sostenuta dal ricorrente, che ciò lascia presumere, non ha giuridica consistenza.

3.4. E’ ben vero che la L. n. 890 del 1982, art. 14, prevede che “Sono fatti salvi i disposti di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 26 e 45 e ss., e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, nonchè le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta”, ma tale disposizione non si pone affatto in conflitto con la modalità di notificazione prevista nella prima parte della medesima disposizione (direttamente a mezzo posta), limitandosi a lasciare inalterata la facoltà dell’amministrazione finanziaria di procedere comunque alla notificazione dei vari atti tributari con modalità alternative alla prima, ovvero quelle previste dalle norme espressamente elencate nel citato art. 14, o da quelle “relative alle singole leggi di imposta”.

3.5. Pertanto, diversamente da quanto si sostiene nel motivo di ricorso in esame, il D.L. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. a), seconda parte, convertito, non fa altro che attribuire all’amministrazione finanziaria la facoltà di effettuare la notificazione degli atti “in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento”, emanati successivamente a questo, “anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento”, senza in alcun modo incidere sulle modalità di notificazione degli avvisi di accertamento, vietandone la notificazione diretta a mezzo posta.

4. Da quanto detto consegue che è legittima la notificazione degli avvisi di accertamento emessi nei confronti del contribuente, effettuata direttamente dall’Agenzia delle entrate a mezzo raccomandata postale, osservandosi al riguardo che in tale ipotesi non è richiesta nè può essere pretesa la redazione della relata di notificazione, nè altro adempimento che non sia espressamente previsto dalle norme concernenti il servizio postale ordinario (cfr. Cass. n. 29642 del 2019, secondo cui “In caso di notificazione a mezzo posta dell’atto impositivo eseguita direttamente dall’Ufficio finanziario ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c., sicchè non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, senza necessità dell’invio della raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., la quale opera per effetto dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione ed è superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prenderne cognizione”).

5. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 53 Cost., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, del TUIR, artt. 56 e 109 (D.P.R. n. 917 del 1986), sostenendo che aveva errato la CTR nel ritenere che i prelievi bancari costituissero ricavi senza considerare che detti prelievi rappresentavano “necessariamente, per inferenza legale, il costo produttivo del correlato ricavo presunto”.

6. Anche a voler prescindere dal profilo di inammissibilità del motivo di ricorso ex art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1, atteso che la condizione di ammissibilità del ricorso, indicata nella citata disposizione processuale, non è integrata dalla mera dichiarazione, espressa nel motivo, di porsi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, là dove non vengano, come nel caso di specie, individuate le decisioni e gli argomenti sui quali l’orientamento contestato si fonda (cfr. Cass. n. 3142 del 2011, n. 19190 del 2017 e n. 28070 del 2018), il motivo è comunque infondato e va rigettato in quanto “secondo consolidato orientamento di questa Corte, da cui non vi è motivo di discostarsi, in tema di iva (così come in tema di accertamento delle imposte sui redditi), e con riferimento all’acquisizione dei movimenti di un conto corrente bancario riconducibili ad un’attività d’impresa, debbono essere considerati ricavi sia le operazioni attive (versamenti) che quelle passive (prelevamenti), salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari; e ciò senza che si debba procedere alla deduzione presuntiva di oneri e costi deducibili, giacchè, in forza della disposta inversione dell’onere della prova, grava sul contribuente l’onere di superare la contraria presunzione di legge (relativa), attestando la ricorrenza di specifici costi deducibili con concreti elementi di prova e non mediante affermazioni di carattere generale, semplici presunzioni o il richiamo all’equità (cfr. Cass. 7813/10, 26312/09, 24055/09, 2821/08, 25365/07, 14 675/06)” (Cass. n. 6425 del 2011).

7. Questa Corte ha altresì precisato che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, nella parte in cui prevede che i prelevamenti effettuati nell’ambito dei rapporti bancari siano posti, come ricavi, a base delle rettifiche ed accertamenti dell’amministrazione finanziaria, se il contribuente non ne indichi il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, poichè, come osservato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 225 del 2005, detta norma non viola nè l’art. 53 Cost., risolvendosi, quanto alla destinazione dei prelievi non risultanti dalle scritture contabili, in una presunzione di ricavi suscettibile di prova contraria attraverso l’indicazione del beneficiario dei prelievi, non lesiva del principio di ragionevolezza, non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dei conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano quindi considerati, detratti i relativi costi, in termini di reddito imponibile, nè il principio di eguaglianza in danno dei titolari dei conti bancari, essendo la disponibilità di tali conti elemento idoneo a legittimare il rilievo meramente probatorio attribuito al prelievo non giustificato di somme” (Cass. n. 13036 del 2012).

8. Con specifico riguardo ai costi, questa Corte ha inoltre affermato il principio secondo cui “In tema di accertamento, la considerazione dell’incidenza percentualizzata dei costi corrispondenti alla ricostruzione dei ricavi è applicabile alla rettifica induttiva e non anche a quella fondata su indagini bancarie, atteso che, in questa ipotesi, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 (e, per l’IVA, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2), opera a favore dell’Amministrazione finanziaria una presunzione legale rispetto ai dati emergenti dalle movimentazioni bancarie, che il contribuente ha l’onere di superare” (Cass. n. 24442 del 2018; in termini Cass. n. 4589 del 2009).

9. deve, quindi, pervenirsi alla conclusione che l’equiparazione operata dal ricorrente nel mezzo di cassazione in esame tra prelievi bancari e “costo produttivo del presunto ricavo” non è supportata da alcuna valida ragione logica e giuridica.

10. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 18, 19 e 51, sostenendo la presunzione legale di cui al citato art. 51, opera con riferimento ai versamenti bancari e non ai prelevamenti.

11. Il motivo, oltre che inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1, per le medesime ragioni esposte al precedente punto 6, è manifestamente infondato ponendosi in insanabile contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “tanto la presunzione, stabilita dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, in tema di accertamento dell’IVA (secondo la quale i singoli dati ed elementi risultanti dai conti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 54 e 55 del medesimo decreto presidenziale, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili), quanto la presunzione di cui alla analoga norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in difetto di indicazione del soggetto beneficiario o in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati ricavi o compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi del citato decreto, artt. 38-41, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile), presentano un contenuto complesso, consentendo di riferire a redditi/ricavi imponibili tutti i movimenti bancari rilevati dal conto all’attività economica svolta dal contribuente, qualificando gli “accrediti” come ricavi, e” (ove trattasi di imprenditori) anche “gli “addebiti” egualmente come manifestazione di ricchezza in quanto considerati spese per corrispettivi versati per acquisti di beni e servizi reimpiegati nella produzione di maggiori ricavi di ammontare non inferiore agli importi prelevati” (così in Cass. 26111 del 2015; in termini, Cass. n. 9103 del 2001 e n. 26312 del 2009; v. anche Cass. n. 14420 del 2005 e n. 9761 del 2017, secondo cui i prelevamenti operati sui conti correnti bancari vanno considerati “uscite di cassa”).

12. In estrema sintesi, il ricorso va rigettato ed il ricorrente, rimasto soccombente, condannato al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 17.200,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2020

 

 

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