Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27623 del 21/11/2017

Civile Sent. Sez. 2 Num. 27623 Anno 2017
Presidente: MAZZACANE VINCENZO
Relatore: LOMBARDO LUIGI GIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso 23714-2016 proposto da:
S.S.
– ricorrente contro

C’írlitIO ORDINE DEI GIORNALISTI DEL TRENTINO ALTO

ADIGE/ elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.G.
BELLI, 27, presso lo studio dell’avvocato GIAN MICHELE
GENTILE, rappresentato e difeso dagli avvocati ELENA
MATTEVI, ALESSANDRO MELCHIONDA, SARA MOROLLI;

Data pubblicazione: 21/11/2017

– controricorrente non chè contro

CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ORDINE DEI GIORNALISTI;
– intimato –

avverso la sentenza n. 98/2016 della CORTE D’APPELLO di

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 18/07/2017 dal Consigliere Dott. LUIGI
GIOVANNI LOMBARDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ALBERTO CELESTE che ha concluso per
l’inammissibilità, in subordine per il rigetto;
udito l’Avvocato PONCINA Alberto, difensore del
ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso,
il rigetto del controricorso previa declaratoria di
inammissibilità;
udito l’Avvocato MOROLLI Sara, difensore del resistente
che ha chiesto il rigetto del ricorso.

TRENTO, depositata il 06/04/2016;

FATTI DI CAUSA
1. – S.S., giornalista pubblicista iscritto all’Ordine dei
giornalisti del Trentino Alto Adige/Suedtirol, fu tratto in arresto a
Praga il 31/1/2001, con l’accusa di abusi sessuali su minori.
La notizia apparve sugli organi di stampa trentini e il locale Ordine
dei Giornalisti provvide a sospenderlo dal relativo Albo professionale.

del 29.6.2001, che assolvette il S.S. dai più gravi reati di
violenza sessuale su minore e prostituzione minorile, ma lo condannò
al pagamento di una pena pecuniaria per il reato (previsto
dall’ordinamento penale ceco) di “messa in pericolo dell’educazione
dei minorenni”.
Rientrato in Italia, il predetto diramò un comunicato col quale
ebbe a dichiarare che il Tribunale di Praga lo aveva assolto dai reati
ascrittigli; e l’Ordine territoriale provvide a revocare il provvedimento
cautelare di sospensione dall’Albo.
A seguito della acquisizione di copia della sentenza del Tribunale
ceco, il S.S. fu sottoposto a procedimento disciplinare dal
Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige/Suedtirol,
che gli irrogò la sanzione della radiazione dall’Albo per due distinti
illeciti disciplinari: 1) la violazione del decoro e della dignità
professionale, a seguito delle condotte accertate dal Tribunale di
Praga; 2) l’aver tenuto una condotta non conforme ai principi
deontologici per avere, nella veste di giornalista pubblicista, riferito in
un comunicato stampa – contrariamente al vero – di essere stato
assolto dall’autorità giudiziaria ceca.
Impugnata la delibera dell’Ordine professionale locale dinanzi al
Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, la sanzione disciplinare
fu confermata.
2. – Con ricorso ex art. 702 bis cod. proc. civ. del 18.3.2014, il
S.S. chiese al Tribunale di Trento l’annullamento delle delibere

3

Il processo penale fu definito con sentenza del Tribunale di Praga

emesse dagli organi disciplinari locale e nazionale; ma il Tribunale
adito respinse la domanda.
Proposto gravame dinanzi alla Corte di Appello di Trento, ai sensi
degli artt. 38 della legge n. 69 del 1963 e succ. modif. e 27 del d.lgs.
n. 150/2011, la Corte territoriale adita sostituì la sanzione disciplinare
della radiazione dall’Albo dei Giornalisti con quella della sospensione

per un terzo le spese dei due gradi del giudizio.
3. – Per la cassazione della sentenza di appello ricorre S.S. sulla base di sei motivi.
Resiste con controricorso l’Ordine dei Giornalisti del Trentino-Alto
Adige/Suedtirol.
Le altre parti, ritualmente intimate, non hanno svolto attività
difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con i primi tre motivi di ricorso, che – stante la loro stretta
connessione – vanno trattati unitariamente, si deduce:
1)

l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della

sentenza impugnata (ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) in ordine alla
effettiva corrispondenza del testo della sentenza penale di condanna
acquisito alla sentenza resa dal Tribunale di Praga;
2)

l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della

sentenza impugnata

(ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) circa la

legittimità delle modalità di acquisizione della sentenza del Tribunale
di Praga;
3)

l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della

sentenza impugnata (ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) in relazione alla
traduzione della sentenza straniera utilizzata ai fini della decisione.
I motivi sono inammissibili.

4

dall’esercizio della professione per la durata di un anno e compensò

Invero, in forza del nuovo testo dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.,
introdotto dal d.l. n. 83/2012 (convertito nella legge n. 134/2012) e
applicabile ratione temporis (l’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83/2012
prevede, infatti, l’applicazione del nuovo testo relativamente alle
sentenze pubblicate dopo il giorno 11 settembre 2012; e la sentenza
impugnata è stata pubblicata il 17.9.2012), il vizio di motivazione

ricorso per cassazione.
Come hanno statuito le Sezioni Unite di questa Corte, la
riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7
agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni
ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al
“minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale
che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in
quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio
risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”,
nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del
semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., Sez. Un., n.
8053 del 07/04/2014).
Nella specie, non sussiste né la mancanza assoluta di motivi sotto
l’aspetto materiale e grafico, né l’apparenza o la manifesta illogicità
della motivazione, cosicché i dedotti vizi motivazionali risultano
inammissibili.
A tale rilievo di carattere generale, vanno aggiunte le seguenti
osservazioni.

5

della sentenza non costituisce più un motivo per cui è ammesso il

Il primo motivo risulta inammissibile anche per genericità e
difetto di autosufficienza. Invero, la Corte di Appello ha spiegato che
la contestazione della corrispondenza tra il testo della sentenza
penale acquisto dagli organi disciplinari e quello della sentenza resa
dal Tribunale di Praga costituisce una censura nuova, proposta per la
prima volta in grado di appello. A fronte di tale motivazione, era

censura sarebbe stata invece dedotta in primo grado. Non avendo il
ricorrente assolto tale onere, il motivo è inammissibile.
Inammissibile per genericità è anche la doglianza relativa alla
omessa integrazione istruttoria, non avendo il ricorrente precisato
quale specifica attività istruttoria aveva chiesto ai giudici di merito.
Il secondo e terzo motivo sono inammissibili, poi, anche perché
non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata.
La Corte di Appello ha spiegato che, in sede di procedimento
disciplinare, l’incolpato non contestò mai che il testo della sentenza
penale acquisito in lingua originale corrispondesse a quello della
sentenza del Tribunale di Praga e che – anzi – fu lo stesso incolpato a
produrre la traduzione in lingua italiana della sentenza straniera poi
utilizzata dagli organi disciplinari ai fini della decisione (p. 22 della
sentenza impugnata)
Il ricorrente non ha sottoposto a critica tali argomenti, costituenti
la ratio decidendi della sentenza impugnata, cosicché le censure sul
punto risultano inammissibili.
2. – Anche il quarto motivo, col quale si deduce l’omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata
(ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) per avere la Corte territoriale
irrogato sanzioni disciplinari (in relazione alle vicende oggetto di
accertamento da parte dell’Autorità giudiziaria ceca) pur in assenza di
prove, è inammissibile.

6

onere del ricorrente quello di indicare e trascrivere il punto in cui la

Invero, a parte l’inammissibilità del motivo – per quanto dianzi
detto – in relazione al dedotto vizio di motivazione, il motivo risulta
inammissibile perché si risolve in una critica di merito circa la
valutazione dei fatti e degli elementi di prova risultanti dalla acquisita
sentenza del Tribunale ceco.
Né occorre che i fatti contestati quali illeciti disciplinari

disciplinari, infatti, prescinde dalla commissione di reati, in quanto, ai
sensi dell’art. 48 della Legge n. 69/1963, costituiscono illeciti
disciplinari le condotte dell’iscritto che risultano «non conformi al
decoro e alla dignità professionali».
3.

– Col quinto motivo, si deduce l’omessa, insufficiente e

contraddittoria motivazione della sentenza impugnata (ex art. 360 n.
5 cod. proc. civ.) circa la sussistenza della prova del secondo illecito
contestato, relativo al comunicato stampa.
Anche questo motivo è inammissibile per il fatto di dedurre un
vizio – quello di motivazione – non più previsto dalla legge.
Il motivo, in ogni caso, è inammissibile, anche perché si risolve in
una censura di merito relativa all’accertamento dei fatti (i giudici di
merito hanno accertato che il ricorrente, nel comunicato-stampa,
spendendo la qualità di giornalista pubblicista, riferì fatti non veri,
facendo credere che il Tribunale di Praga lo aveva assolto e che la
multa gli era stata irrogata per coprire i costi del procedimento),
accertamento che è insindacabile in sede di legittimità, laddove come nella specie – la motivazione della sentenza impugnata risulta
non apparente né manifestamente illogica (cfr. Cass., Sez. Un., n.
8053 del 07/04/2014).
4. – Col sesto motivo, si deduce, infine, l’omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione della sentenza impugnata (ex art. 360 n.
5 cod. proc. civ.) circa la tipologia e la durata della sanzione.

7

costituiscano reato secondo la legge italiana. L’irrogazione di sanzioni

Anche questo motivo è inammissibile, sia perché si deduce un
vizio della sentenza impugnata non più consentito dall’art. 360 cod.
proc. civ., sia – in ogni caso – perché la doglianza si riduce ad una
censura di merito relativa alla scelta e alla quantificazione della
sanzione, profili del giudizio che sono insindacabili in sede di
legittimità, in presenza – come nella specie – di una motivazione della

illogica, ma anzi ampia e logicamente argomentata, in forza della
quale peraltro l’incolpato ha ottenuto la sostituzione della sanzione
precedentemente irrogata (la radiazione dall’albo) con la sospensione
dall’esercizio della professione per la durata di un anno.
5. – In definitiva, risultando inammissibili tutti i motivi di ricorso,
il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente
condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento
delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
6. – Ritiene la Corte che sussistano le condizioni di cui all’art. 96,
terzo comma, cod. proc. civ., per condannare la parte soccombente al
pagamento di un’ulteriore somma in favore del controricorrente.
Il Collegio ritiene di doversi soffermare sull’istituto previsto dal
terzo comma all’art. 96 cod. proc. civ., onde coglierne la esatta
portata giuridica.
6.1. – Com’è noto, con l’art. 96 cod. proc. civ. (intitolato
“Responsabilità aggravata”) il codificatore ha previsto – nei primi due
commi che originariamente componevano la disposizione – due
fattispecie di responsabilità processuale della parte soccombente; a
tali tradizionali figure, il legislatore del 2009 ha aggiunto un’ulteriore
fattispecie, prevista dal terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.,
introdotto dall’art. 45, comma 12, della legge n. 69 del 2009.
Orbene, la fattispecie di cui al novello terzo comma dell’art. 96
cod. proc. civ., sebbene segua nel testo della disposizione e sotto il
medesimo titolo le due originarie forme di “responsabilità aggravata”,

8

sentenza impugnata (p. 31) non apparente né manifestamente

in realtà differisce del tutto da queste ultime per presupposti e per
funzione.
I primi due commi, infatti, configurano due fattispecie di
responsabilità di natura risarcitoria, che si inquadrano
concettualmente nel genus della responsabilità aquiliana o per fatti
illeciti.

“regola generale” secondo cui «Se risulta che la parte soccombente
ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice,
su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al
risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza»; il
secondo comma prevede poi alcune “ipotesi speciali” di responsabilità
processuale, che il codificatore ha ritenuto opportuno disciplinare
separatamente per il fatto di riguardare talune condotte processuali
(ma non solo) che, per la loro particolare “aggressività”, sono
potenzialmente in grado di cagionare più grave danno a chi li subisce,
sanzionandole più severamente col richiedere, ai fini del risarcimento
del danno, non più che la parte abbia agito con mala fede o colpa
grave, ma solo che abbia agito «senza la comune prudenza» («Il
giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un
provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta
ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su
istanza della parte danneggiata, condanna al risarcimento dei danni
l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale
prudenza»).
Si tratta di due

figurae iuris

che assolvono indubbiamente

funzione risarcitoria e che si inquadrano nella responsabilità
extracontrattuale per violazione del precetto generale del “neminem
laedere”;

esse, attenendo alla condotta processuale della parte

(soccombente), costituiscono “figure speciali” della più generale

9

In particolare, il primo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. detta la

fattispecie della responsabilità per fatto illecito prevista dall’art. 2043
cod. civ.
Coerentemente con la loro natura risarcitoria, le figure di
responsabilità aggravata previste nei primi due commi dell’art. 96
cod. proc. civ. sono ancorate alla domanda della parte interessata,
essendo esclusa la pronuncia d’ufficio; inoltre, la parte vittoriosa che

soccombente ha l’onere di allegare e provare la sussistenza dei
presupposti normativi della responsabilità della controparte, ossia la
sussistenza dell’elemento “oggettivo” e di quello “soggettivo” della
fattispecie.
Invero, per poter ottenere il risarcimento del danno, la parte
vittoriosa deve, da un lato, allegare e provare l’esistenza e l’entità di
un danno concreto ed effettivo patito nonché il nesso di causalità tra
l’illecita condotta processuale del soccombente e il danno stesso;
dall’altro, allegare e provare la sussistenza dell’elemento soggettivo
della fattispecie, costituito, per la figura di cui al primo comma, dalla
“mala fede” o dalla “colpa grave” e, per la fattispecie di cui al secondo
comma, dalla mancanza di “normale prudenza”.
Si comprende bene come, in presenza di fattispecie di
responsabilità aggravata così costruite, che impongono alla parte
vittoriosa oneri probatori così gravosi, le figure di responsabilità
aggravata previste nei primi due commi dell’art. 96 cod. proc. civ.
abbiano avuto e abbiano – nella pratica – un’applicazione molto
limitata.
6.2. – È avvenuto così che il legislatore del 2006, nel quadro del
potenziamento della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione
e nel tentativo di contenere il numero dei ricorsi, è intervenuto col
d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, aggiungendo all’art. 385 cod. proc. civ.
un quarto comma, che è venuto a configurare una nuova forma di

10

assume di essere stata danneggiata dalla condotta processuale del

responsabilità aggravata della parte soccombente, sia pure limitata al
giudizio di cassazione.
Stabilisce l’art. 385, quarto comma, cod. proc. civ., che «Quando
pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 375, la
Corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al
pagamento, a favore della controparte, di una somma,

tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito
anche solo con colpa grave».
La ratio della norma è quella di agire sulla leva economica per
scoraggiare i litiganti ad accedere alla Corte suprema con ricorsi
manifestamente infondati o inammissibili. La norma, però, configura
una fattispecie di responsabilità processuale che nulla ha a che fare
con le fattispecie previste dall’art. 96, primo e secondo comma, cod.
proc. civ.
Decisivo, in tal senso, è il rilievo che la condanna ai sensi dell’art.
385, quarto comma, cod. proc. civ. non richiede la sussistenza di un
danno patito dalla parte vittoriosa e dipendente dalla illecita condotta
processuale della parte soccombente; coerentemente, la pronunzia di
condanna non è subordinata alla domanda della parte, ma può essere
pronunciata d’ufficio dal giudice.
Tali elementi caratterizzanti la fattispecie giuridica di cui all’art.
385, quarto comma, cod. proc. civ. valgono ad escludere che essa
possa avere “funzione risarcitoria” del danno patito dalla parte
vittoriosa e che possa essere inquadrata – quale species ad genus nella più generale figura della responsabilità aquiliana.
In realtà, la nuova figura di responsabilità processuale, prevista
dall’art. 385 quarto comma cod. proc. civ., ha “funzione
sanzionatoria” dell’abuso del processo perpetrato dalla parte
soccombente nel giudizio di legittimità. La condanna irrogata dal
giudice, ex art. 385 quarto comma cod. proc. civ., ha natura di

11

equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi

“sanzione di ordine pubblico”, da irrogare nell’interesse generale, allo
scopo di reprimere l’abuso del ricorso per cassazione. Si tratta di una
“sanzione processuale” per l’abuso del giudizio di legittimità.
Inequivoca conferma di ciò si ricava dal fatto che l’entità della
sanzione da irrogare non va rapportata, come è previsto nei primi
due commi dell’art. 96 cod. proc. civ., all’entità del danno da risarcire

la legge non parla più di liquidazione del danno (come nell’art. 96,
primo e secondo comma), ma di pagamento di una

«somma

equitativamente determinata» (purché «non superiore al doppio dei
massimi tariffari»), indipendente dalla sussistenza e dall’entità di un
danno patito dalla parte vittoriosa.
L’unico elemento in comune, tra la fattispecie di cui all’art. 385
quarto comma cod. proc. civ. e quelle di cui ai primi due commi
dell’art. 96 cod. proc. civ., è costituito dall’elemento “soggettivo”
richiesto dalla legge per integrare la fattispecie: l’art. 385, ultimo
comma, cod. proc. civ., continua a pretendere – come il primo
comma dell’art. 96 cod. proc. civ. – che la parte soccombente abbia
agito o resistito in giudizio («ha proposto il ricorso o vi ha resistito»)
almeno «con colpa grave» (letteralmente «anche solo con colpa
grave»), è necessaria, cioè, la dimostrazione, eventualmente in via
indiziaria, che la parte soccombente abbia agito, se non con dolo,
almeno con “colpa grave”, intendendosi con tale formula – come ha
precisato la giurisprudenza di questa Corte – la condotta
consapevolmente contraria alle regole generali di correttezza e buona
fede tale da risolversi in un uso strumentale ed illecito del processo,
in violazione del dovere di solidarietà di cui all’art. 2 della
Costituzione (Cass., Sez. Un., n. 25831 del 11/12/2007; Sez. 3, n.
22812 del 07/10/2013).
La funzione di sanzione di ordine pubblico della figura di cui al
quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ. non è, d’altra parte,

12

(che può essere del tutto insussistente), ma è indipendente da esso;

contraddetta dal fatto che “la somma equitativamente determinata”
deve essere corrisposta, non allo Stato (come potrebbe apparire – in
astratto – più coerente), ma alla controparte, essendo questa una
scelta del legislatore adottata per sollevare gli uffici pubblici dagli
oneri di complesse esazioni e per assicurare una più sicura e
tempestiva riscossione della sanzione sulla spinta dell’interesse della

Nonostante la semplificazione della fattispecie (rispetto a quanto
previsto nei primi due commi dell’art. 96 cod. proc. civ.), la
disposizione dell’art. 385 quarto comma cod. proc. civ. è rimasta
praticamente inapplicata, se non in casi del tutto marginali: non solo
perché è stata accompagnata da un diritto transitorio che – senza
tener conto del fatto che la disposizione era dettata specificamente
per il giudizio di cassazione – ne ha retrodatato l’applicabilità alle sole
cause iniziate in primo grado dopo la data dell’entrata in vigore della
legge n. 40 del 2006; non solo perché ha avuto vita assai breve,
essendo stata abrogata dall’art. 46 della legge n. 69 del 2009 (ma
sulla efficacia intertemporale della norma, v. Cass., Sez. 2, n. 21550
del 2016, non massimata); ma anche perché la fattispecie
configurata dall’art. 385, quarto comma, cod. proc. civ. ha continuato
a richiedere l’accertamento della “colpa grave” della parte
soccombente, ha preteso cioè dal giudice un giudizio in termini di
negligenza e di colposità della condotta della parte e – per essa – del
suo difensore, non sempre agevole da formulare.
6.3. – A fronte delle difficoltà applicative riscontratesi, il
legislatore è intervenuto ancora una volta, configurando, col novello
terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., introdotto dalla legge 18
giugno 2009 n. 69 (art. 45, comma 12), una nuova figura di
responsabilità aggravata.
Con la nuova disposizione, il legislatore del 2009 ha inteso
generalizzare ed estendere ad ogni grado di giudizio la possibilità per

13

parte vittoriosa.

il giudice di reprimere l’abuso del processo con una condanna di tipo
sanzionatorio in favore della parte vittoriosa; coerentemente, ha
abrogato il quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ., previsto per il
solo giudizio di cassazione. Tuttavia, come si vedrà, la nuova norma,
semplifica ulteriormente la fattispecie, rispetto a quanto previsto
dall’art. 385 quarto comma cod. proc. civ., rendendone più agevole

Certamente, la figura di responsabilità processuale configurata dal
terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ. si muove nel solco della
figura – che ne è stata progenitrice – prevista dall’art. 385, quarto
comma, cod. proc. civ.
La disposizione dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. prevede,
infatti, che «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi
dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la
parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una
somma equitatívamente determinata».
Come la fattispecie di cui all’art. 385 ultimo comma cod. proc.
civ., anche la fattispecie di cui all’art. 96 terzo comma è una figura
iuris evidentemente estranea alla responsabilità aquiliana.
La norma – come ha rilevato la dottrina più avvertita – configura
una “sanzione di ordine pubblico”, dettata, con finalità di deflazione
del contenzioso, nell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso del
processo e di quelle condotte processuali che determinano una
violazione delle regole del giusto processo e della sua ragionevole
durata.
Con l’istituto previsto nell’art. 96 terzo comma cod. proc. civ., il
legislatore ha inteso affidare al giudice uno strumento per reprimere,
nell’interesse generale della collettività, il c.d. “abuso del processo”;
abuso che ricorre quando lo strumento processuale viene piegato a
finalità devianti rispetto alla “tutela dei diritti e degli interessi

14

l’applicazione.

legittimi” per il quale l’art. 24, primo comma, Cost. garantisce il
ricorso al giudice.
Questa visione dell’istituto, d’altra parte, è stata fatta propria
dalla Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 152 del 2016
– nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., in relazione agli artt. 3, 24

natura non tanto risarcitoria del danno cagionato alla controparte
dalla proposizione di una lite temeraria, quanto più propriamente
sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del diritto di azione e
di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori,
aggravando il volume del contenzioso; ciò – secondo il giudice delle
leggi – è confermato, sul piano testuale, dal riferimento al
“pagamento di una somma”, che segna una netta differenza
terminologica rispetto al “risarcimento dei danni” di cui ai precedenti
commi del medesimo articolo, e dall’adottabilità della condanna
“anche d’ufficio”, che la sottrae all’impulso di parte e ne attesta la
finalizzazione alla tutela di un interesse trascendente quello della
parte stessa e colorato di connotati pubblicistici.
La stessa Corte costituzionale non ha mancato di osservare che la
motivazione che ha indotto il legislatore a porre a favore della
controparte la condanna del soccombente è plausibilmente
ricollegabile all’obiettivo di assicurare una maggiore effettività ed una
più incisiva efficacia deterrente allo strumento deflattivo, sul
verosimile presupposto che la parte vittoriosa possa provvedere alla
riscossione in tempi e con oneri inferiori a quelli gravanti su un
soggetto pubblico; osservando poi che l’istituto così modulato è
suscettibile di rispondere anche ad una concorrente finalità
indennitaria nei confronti della parte vittoriosa (pregiudicata da
un’ingiustificata chiamata in giudizio) nelle non infrequenti ipotesi in

15

e 111 Cost. – ha rilevato che la previsione di tale disposizione ha

cui sia per essa difficile provare, ai fini del risarcimento per lite
temeraria, l’an o il quantum del danno subito.
Va tuttavia osservato come l’art. 96 terzo comma cod. proc. civ.
non abbia recepito del tutto il testo del precedente art. 385 quarto
comma cod. proc. civ.
Vi è, infatti, un forte ed evidente “elemento di discontinuità” tra il

cod. proc. civ.
Tale elemento di discontinuità consiste nel fatto che la fattispecie
di cui all’art. 96 terzo comma non prevede più alcun elemento
soggettivo, quale suo elemento costitutivo; non è più richiesto cioè, ai
fini della condanna al pagamento di una somma equitativamente
determinata, che la parte soccombente abbia agito o resistito in
giudizio “con colpa grave”.
Certo, non è mancato in dottrina chi ha sostenuto che presupposti
per l’applicazione del nuovo istituto sarebbero sempre la “mala fede”
o la “colpa grave” previsti dal primo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.
(in questo senso, in giurisprudenza, Cass., Sez. 6 -3, n. 3376 del
22/02/2016); ma si tratta di una interpretazione manipolativa della
norma, contrastante con i dati testuali.
Innanzitutto, l’idea della sopravvivenza, nella nuova fattispecie,
dell’elemento soggettivo previsto dai primi due commi dell’art. 96
cod. proc. civ., appare smentita dalla inequivoca volontà del
legislatore di sopprimere qualsiasi riferimento ai profili soggettivi di
responsabilità. Sul punto, va rilevato che l’elemento soggettivo della
“colpa grave” era transitato – col d.lgs. n. 40 del 2006 – dall’art. 96
primo comma all’art. 385 quarto comma cod. proc. civ. Il fatto che il
legislatore del 2009, nel ricollocare il testo dell’art. 385 quarto
comma nell’ambito dell’art. 96 cod. proc. civ., non abbia replicato
l’elemento della “colpa grave” ivi previsto, non può essere ascritto ad
una dimenticanza; costituisce, invece, una scelta legislativa adottata

16

testo dell’art. 96, terzo comma, e quello dell’art. 385, quarto comma,

sulla via della semplificazione della fattispecie, allo scopo di favorirne
una più agevole applicazione.
L’opinione richiamata, d’altra parte, è smentita dall’inciso «In ogni
caso», che apre il testo della disposizione e che, secondo corretti
canoni interpretativi, non può che significare “al di fuori di quanto
previsto dai commi che precedono”, ossia a prescindere dai

La stessa previsione, contenuta nell’art. 96 terzo comma cod.
proc. civ., che vuole che il giudice pronunci condanna

«quando

pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91», se da un lato implica che
vi sia stata condanna del soccombente all’integrale pagamento delle
spese processuali e che non vi siano state ragioni per compensarle
(neanche in parte), lascia intendere, dall’altro, l’applicabilità della
disposizione a tutte le ipotesi di soccombenza, a prescindere da ogni
valutazione circa la mala fede o la colpa grave della parte.
Infine, conferma della volontà del legislatore di non esigere più
che il giudice accerti la “mala fede” o la “colpa grave” della parte
soccombente si ricava dai lavori parlamentari che hanno preceduto
l’approvazione della legge; in particolare, dalla circostanza che, nel
corso dei lavori parlamentari, l’incipit del nuovo terzo comma dell’art.
96 cod. proc. civ. è stato modificato, laddove la precedente
formulazione «Nei casi previsti dai commi precedenti, il giudice
condanna altresì…» è stata sostituita dall’attuale «In ogni caso».
L’adozione di tale diverso testo attesta inequivocabilmente il
mutamento della volontà del legislatore, che ha determinato, di fatto,
un altrettanto evidente mutamento della struttura della fattispecie.
In definitiva, deve ritenersi che, col terzo comma dell’art. 96 cod.
proc. civ., il legislatore ha voluto configurare non già una fattispecie
ancillare rispetto alle figure risarcitorie previste nei primi due commi
dell’art. 96 cod. proc. civ., ma una figura di responsabilità
indipendente e autonoma, che prevede una “sanzione di carattere

17

presupposti richiesti dai primi due commi dell’art. 96 cod. proc. civ.

pubblicistico”, priva di natura risarcitoria, destinata a reprimere la
parte soccombente che abbia fatto “abuso” dello strumento
processuale.
Il rafforzamento della repressione dell’abuso del processo si è
manifestato nella scelta legislativa di sopprimere l’elemento
soggettivo della fattispecie.

è più tenuto a svolgere complessi – quanto delicati – apprezzamenti
sulla colposità e negligenza della condotta della parte e del suo
difensore. Egli – invece – deve limitarsi a valutare “oggettivamente”
la sussistenza di un “abuso del processo”, quale emerge dagli atti
processuali e dal loro contenuto.
Naturalmente, dalla diversa natura delle fattispecie previste dai
primi due commi dell’art. 96 cod. proc. civ. rispetto alla fattispecie
prevista dal terzo comma, discende – come ha ritenuto la dottrina la cumulabilità delle condanne (quella al risarcimento del danno ex
art. 96, primo o secondo comma; e quella al pagamento di “una
somma equitativamente determinata” ex art. 96, terzo comma).
6.4. – Il nuovo istituto affida al giudice il più ampio potere
discrezionale, che – tuttavia – deve essere esercitato con la dovuta
ragionevolezza.
Se non occorre che il giudice accerti che la parte soccombente
abbia agito o resistito in giudizio con “mala fede” o con “colpa grave”
(art. 96, primo comma) o “senza la normale prudenza” (art. 92
secondo comma), ciò non significa – naturalmente – che la mera
infondatezza della domanda o della difesa possa comportare
responsabilità ex art. 96, terzo comma, cod. proc. civ.
Il fatto che non sia più necessario l’accertamento di un profilo
soggettivo di responsabilità significa semplicemente che il giudice, nel
verificare la sussistenza delle condizioni per pronunciare condanna ex
art. 96 terzo comma, deve prescindere dal compiere alcuna indagine

18

Il giudice, nell’applicare l’art. 96 terzo comma cod. proc. civ., non

sulla sussistenza dell’elemento psicologico colposo: la condanna può
essere pronunciata ogni volta che “oggettivamente” risulti che si è
agito o resistito in giudizio in modo pretestuoso, con abuso dello
strumento processuale.
Incorrono, perciò, in responsabilità per abuso del processo coloro
che abbiano proposto domande od eccezioni o formulato difese

sotto il profilo giuridico (in quanto proposte in totale ed evidente
carenza dei presupposti previsti dalla legge) vuoi sotto il profilo
fattuale (allegando, ad es., fatti di cui si accerti la manifesta falsità).
Tra costoro vi saranno certamente parti che hanno agito o resistito in
giudizio con “mala fede” o con “colpa grave” o “senza la normale
prudenza”; ma il giudizio che il giudice è chiamato a formulare attiene
alla condotta processuale nella sua “oggettività”, e non
all’atteggiamento psicologico – di mala fede o di negligenza più o
meno grave – della parte.
La norma affida al giudice un’ampia discrezionalità anche nella
determinazione dell’importo della sanzione.
A differenza di quanto stabiliva l’art. 385 quarto comma cod.
proc. civ., a tenore del quale la “somma equitativamente
determinata” dal giudice doveva mantenersi entro il limite del
«doppio dei massimi tariffari» previsti per i compensi dei difensori,
nessun limite quantitativo – né massimo, né minimo – è previsto dal
terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.
Il giudice, tuttavia, nella determinazione della sanzione deve
osservare il “criterio equitativo”, potendo la sanzione essere calibrata
anche sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, e non
può – in nessun caso – superare il limite della “ragionevolezza” (in
questo senso, Cass., Sez. 6-2, n. 21570 del 30/11/2012, che, in
applicazione di tale principio, ha respinto il ricorso avverso la
decisione di merito, che aveva condannato il soccombente a pagare

19

macroscopicamente inammissibili o manifestamente infondate vuoi

una somma non irragionevole in termini assoluti e pari al triplo di
quanto liquidato per diritti e onorari).
6.5. – Alla stregua dei principi sopra esposti, deve ritenersi che il
ricorrente abbia abusato dello strumento processuale. Egli, infatti,
dopo ben quattro gradi di giudizio (due amministrativi e due
giurisdizionali), ha proposto ricorso alla Suprema Corte, formulando

e tali da sottoporre questioni di fatto che non possono trovare
ingresso in sede di legittimità, per di più trascurando di considerare le
ragioni, ampiamente argomentate, che la Corte territoriale aveva
posto a giustificazione della decisione impugnata.
Tenuto conto del valore della controversia e dell’importo delle
spese processuali, il Collegio ritiene di determinare equitativamente
in un ulteriore importo pari a quello liquidato per le spese processuali
la somma che il ricorrente, ai sensi dell’art. 96 terzo comma cod.
proc. civ., deve corrispondere al controricorrente Ordine dei
Giornalisti del Trentino-Alto Adige/Suedtirol.
7. – Ai sensi dell’art. 13, comma

1 quater D.P.R. n. 115/02,

applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto dopo il
30 gennaio 2013), sussistono i presupposti per il raddoppio del
versamento del contributo unificato da parte del ricorrente, a norma
del comma 1 bis dello stesso art. 13.

P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione
dichiara inammissibile il ricorso e condanna la parte ricorrente al
pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del
giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.700,00
(duemilasettecento) di cui 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie
nella misura del 15% ed accessori di legge;

20

motivi palesemente inammissibili, in quanto non consentiti dalla legge

condanna altresì la parte ricorrente al pagamento, in favore della
parte controricorrente, dell’ulteriore somma di euro 2.700,00,
(duemilasettecento) ai sensi dell’art. 96 terzo comma cod. proc. civ.;
ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002,

dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato

1 bis dello

stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda
Sezione Civile, addì 18 luglio 2017.
IL CONSIGLIERE EST.

IL PRESIDENTE

Vincenzo Mazzacane

DEPOSITATO IN CANCELLERIA
Roma,

21 NOV. 2017

pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA