Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27610 del 29/10/2019

Cassazione civile sez. III, 29/10/2019, (ud. 11/09/2019, dep. 29/10/2019), n.27610

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 5650/2018 R.G. proposto da:

T.U., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Carlo Zauli e

Fabrizio Gizzi, con domicilio eletto presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Oslavia, n. 30;

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l., dall’Avv. Davide Compagni;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 218/2018 della Corte d’appello di Bologna,

depositata il 22 gennaio 2018;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’11 settembre

2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;

udito l’Avvocato Fabrizio Gizzi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. Soldi Anna Maria, che ha concluso chiedendo il

rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Bologna con sentenza depositata il 19 marzo 2010 ha accolto l’azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento della (OMISSIS) S.r.l. nei confronti del suo amministratore, T.U., condannando quest’ultimo al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, della somma di Euro 327.895,03, oltre rivalutazione e interessi.

2. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Bologna ha confermato tale decisione, respingendo il gravame interposto dal soccombente.

Respinte le reiterate eccezioni di nullità della procura apposta a margine dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, di prescrizione del credito risarcitorio e di nullità della domanda, la Corte territoriale ha nel merito rilevato che:

– l’omessa tenuta della contabilità e l’omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali per gli esercizi dal 2004 al 2007 è un fatto pacifico (e comunque, grazie alla verifica fiscale della Gdf, documentalmente provato);

– è incontestabile che almeno le sanzioni fiscali irrogate per l’omesso versamento dei tributi e dei contributi previdenziali siano un danno causalmente ricollegabile alla condotta del T. in modo immediato e diretto;

– il Tribunale ha quantificato il danno cagionato dal T. nella misura di Euro 327.895,03 facendo richiamo all’equità, ossia applicando la percentuale del 30% al complessivo credito di Equitalia iscritto al passivo;

– la determinazione equitativa del tribunale deve essere condivisa, sia perchè non è stata specificamente contestata dall’appellante, sia perchè essa corrisponde al maggior importo che mediamente e notoriamente deriva a carico dell’imprenditore per l’omissione degli adempimenti tributari e contributivi.

2. Avverso tale decisione T.U. propone ricorso per cassazione articolando ventitre motivi, cui resiste la curatela, depositando controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Premessa sui criteri espositivi.

I numerosi motivi di ricorso verranno qui di seguito sinteticamente descritti, attraverso la trascrizione testuale delle rispettive rubriche (in grassetto) e, di seguito, una sintesi della loro illustrazione (omessa nei casi in cui la rubrica risulti già di per sè esaustivamente esplicativa del contenuto della censura).

Seguirà, al termine di ciascuno dei paragrafi dedicati ai singoli motivi, ovvero a più di essi raggruppati se congiuntamente esaminabili (per sostanziale sovrapposizione e/o per comunanza di tema trattato), l’esposizione della valutazione operata dal Collegio.

2. Primo motivo: l’eccezione di nullità della procura rilasciata a margine dell’atto introduttivo del giudizio di primo arado.

Violazione di legge per non aver ritenuto la nullità della procura ex art. 83 c.p.c..

Viene riprodotta la parte della sentenza dedicata alla questione; da essa si ricava che l’eccezione era basata:

a) sul rilievo che la procura sarebbe stata “rilasciata in data (18/6/2010) precedente ai fatti descritti nella stessa prima pagina dell’atto di citazione (29/6/2010)”, dal che la sua natura di “procura in bianco” non consentita nel nostro ordinamento;

b) sull’ulteriore rilievo della illeggibilità della sottoscrizione.

La Corte d’appello ha ritenuto l’eccezione:

a) infondata quanto al primo rilievo (per essere richiesta, ai fini della validità della procura, solo la certezza e la conoscibilità del potere rappresentativo del difensore che sostituisce in giudizio la parte);

b) inammissibile quanto al secondo (per non essere stato in precedenza dedotto) e, comunque, manifestamente infondata.

Con il motivo in esame il ricorrente contesta che il secondo dei predetti rilievi possa considerarsi nuovo ed afferma che l’invalidità della procura è evidente “risultando non solo illeggibile la sottoscrizione e la persona o l’ente dalla quale la stessa è conferita (sicchè se ne deve presumere la riferibilità al curatore) ma è in bianco e non si riferisce all’oggetto della causa” (così testualmente in ricorso).

2.1. Il motivo si appalesa inammissibile, sotto diversi profili.

2.1.1. Anzitutto per evidente aspecificità.

Il ricorrente si limita invero a riferire genericamente le ragioni della dedotta nullità della procura dell’atto introduttivo (peraltro assai brevemente e in termini che non consentono di coglierne il senso, non essendo precisato quali siano i “fatti descritti nella prima pagina della citazione” e perchè la loro asserita posteriorità rispetto alla data della procura dovrebbe dimostrare che questa sia stata rilasciata “in bianco”, tanto più se si considera che l’azione di responsabilità è riferita alle cause ed alle conseguenze di una insolvenza emersa diversi anni prima e sfociata in una dichiarazione di fallimento del marzo del 2010 e considerato che tra le eccezioni opposte in primo grado e, come detto, respinte, vi era anche quella di prescrizione del credito risarcitorio: il che presuppone che, secondo la stessa prospettazione difensiva dell’odierno ricorrente, i fatti posti a fondamento della domanda erano talmente anteriori alla sua proposizione da risultare questa addirittura, in tesi, tardiva rispetto al termine prescrizionale).

Il ricorrente in ogni caso omette di riprodurre in ricorso il contenuto dell’atto di cui afferma la nullità, nè indica in quale sede processuale lo stesso risulti prodotto, violando così palesemente l’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, a pena di inammissibilità, di specificamente indicare gli atti e i documenti su cui il ricorso si fonda.

E’ noto c e al riguardo che, oltre ad una compiuta descrizione in ricorso – nella specie come detto mancante – del contenuto dell’atto o documento che possa consentire una immediata verifica delle ragioni e delle pertinenza della censura, è necessario anche che si provveda alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass. 16/03/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 09/04/2013, n. 8569; 06/11/2012, n. 19157; 16/03/2012, n. 4220; 23/03/2010, n. 6937; ma v. già, con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, Cass. 25/05/2007, n. 12239), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. Sez. U. 19/04/2016, n. 7701).

Un tale onere, come noto, si impone anche in relazione alle censure di carattere processuale, avendo questa Corte costantemente affermato che, anche in ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, il potere dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali è condizionato all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza de ricorso per cassazione, dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice una loro autonoma ricerca, ma solo una loro verifica (v. e plurimis Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726; Sez. U. 27/03/2008, n. 7930; Sez. U. 28/07/2005, n. 15781; Cass. 13/06/2014, n. 13546; 19/3/2007, n. 6371).

2.1.2. Mette conto comunque rilevare che, pur riguardata nella sua astratta prospettazione, la tesi della invalidità della procura speciale, perchè rilasciata “in bianco”, è destituita di fondamento, palesandosi corretta e conforme a consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità la regola di giudizio al riguardo evocata in sentenza: rispetto alla quale il ricorrente omette peraltro qualsiasi considerazione critica, esponendosi sotto tale profilo il motivo a ulteriore rilievo di inammissibilità ex art. 360-bis c.p.c., n. 1.

Costituisce invero jus receptum nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la procura – salvo che non si tratti di quella rilasciata per ricorrere per cassazione – è validamente rilasciata anche prima della redazione dell’atto difensivo in calce o a margine del quale è posta, in quanto la corrispondenza tra l’attività svolta dal difensore e l’effettivo volere del rappresentato attiene esclusivamente al rapporto interno tra difensore e cliente (Cass. 18/07/2003, n. 11256; 26/07/2002, n. 11106, 16/05/1997, n. 4389), non essendo richiesta, a pena di nullità, la dimostrazione della volontà delle parti di fare proprio il contenuto del medesimo atto nel momento stesso della sua formazione ovvero ex post (Cass. 10/07/2014, n. 15759; 06/11/2006, n. 23608; n. 11106 del 2002, cit.).

2.1.3. I superiori rilievi di aspecificità della censura riguardano anche la dedotta illeggibilità della sottoscrizione della procura, rispetto alla quale risulta altresì aspecifica e meramente assertiva la contestazione della inammissibilità dell’eccezione poichè tardiva ex art. 157 c.p.c., comma 2, in quanto per la prima volta proposta in appello (sulla correttezza del relativo rilievo v. Cass. 29/03/2019, n. 8930; Cass. Sez. U. 07/03/2005 n. 4810; 07/11/2013, n. 25036; Cass. 4149/2012; Cass. s.u. 4810/2005) e analogamente, comunque, meramente oppositiva e priva dunque di alcun valore censorio quella della sua infondatezza, pure affermata in sentenza.

3. Secondo motivo: dedotta nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia ex art. 112 c.p.c. in relazione a tutta l’impostazione della sentenza.

Si lamenta che la sentenza non prenda posizione sulle questioni e argomentazioni svolte con l’atto d’appello, delle quali si offre un ampio riassunto.

3.1. Il motivo si appalesa inammissibile per non essere immediatamente riconducibile ad un preciso vizio cassatorio tra quelli tassativamente indicati dall’art. 360 c.p.c., oltre che per genericità.

Si fa confuso riferimento in rubrica ad un error in procedendo (nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4) ma al contempo ad un vizio di omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia (così evocando un vizio di motivazione secondo il non più attuale paradigma censorio del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5); il tutto riferito a “tutta l’impostazione della sentenza”.

Risulta così palesemente disatteso il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4 che impone l’indicazione, a pena appunto di inammissibilità, de “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano” e che comporta – come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte – “l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c.” (Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931).

Nel far riferimento a “tutta l’impostazione della sentenza” la postulazione risulta poi, come detto, anche del tutto generica e tale da impingere in inammissibilità per difetto di specificità alla stregua del consolidato principio di diritto di cui a Cass. n. 4741 del 2005, seguito da numerose conformi e avallato da Cass. Sez. U. n. 7074 del 2017 (“Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 c.p.c., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo”).

Nella misura in cui comunque il motivo può leggersi quale riepilogo e anticipazione delle censure che saranno poi ripetitivamente esposte negli altri motivi può farsi rimando alle valutazioni che saranno espresse con riferimento ad essi.

4. Motivi dal sesto all’ottavo: sul rigetto della reiterata eccezione di nullità della domanda per mutatio libelli.

Sesto motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per non aver motivato in ordine all’inammissibilità del libello ed insanabilità dell’atto introduttivo del giudizio di merito ex artt. 163 e 164 c.p.c. non comprensibile si da rendere impossibile una difesa scientifica e specifica.

Settimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver motivato in ordine all’inammissibilità del libello ed insanabilità dell’atto introduttivo del giudizio di merito ex artt. 163 e 164 c.p.c. non comprensibile si da rendere impossibile una difesa scientifica e specifica.

Nella illustrazione di quest’ultimo motivo (il settimo) si trascrive, in premessa, uno stralcio della sentenza d’appello ove è motivato il rigetto dell’eccezione, con il rilievo della sua infondatezza, per essere stati gli elementi costitutivi della domanda correttamente, anche se sinteticamente, enunciati nell’atto introduttivo.

Sarebbe questa, secondo il ricorrente, motivazione apparente e di stile.

Si osserva di contro, in ricorso, che l’atto introduttivo del giudizio si riferiva al “ristoro di tutti i danni patiti a seguito delle omissioni, dell’amministratore unico negli anni in cui lo stesso ha rivestito tale carica”.

Si rileva che il tribunale ha condannato al risarcimento del danno in assenza, non solo di elementi probatori, ma anche “di allegazione e di determinazione nonchè di relazione causale e di disamina sulle circostanze”.

Vi sarebbe contraddizione tra le due sentenze di merito poichè mentre quella d’appello afferma che l’oggetto della domanda era stato denunciato nell’atto introduttivo, il primo giudice ammette che il danno venne indicato esclusivamente in comparsa conclusionale.

Si afferma che in realtà mai, nel corso del giudizio di primo grado, il convenuto venne posto a conoscenza della reale entità del danno.

Ottavo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver considerato il vizio di mutatio libelli ex art. 183 e 184 c.p.c..

La denunciata mutatio libelli – la cui sussistenza si assume erroneamente negata dalla Corte territoriale – sarebbe in tesi determinata dal fatto che il curatore avrebbe in citazione fatto generico riferimento a tutti i danni patiti dal fallimento e che solo in comparsa conclusionale, peraltro in modo generico, avrebbe precisato l’oggetto della domanda.

4.1. I motivi surriferiti, congiuntamente esaminabili per la loro evidente sovrapponibilità, sono parimenti inammissibili.

4.1.1. Anzitutto per la loro evidente aspecificità, nessuno di essi confrontandosi con la prima e assorbente ratio decidendi sul punto spesa, rappresentata dalla rilevata inammissibilità del motivo di gravame, in quanto “del tutto generico” e affidato a “meri richiami giurisprudenziali”.

4.1.2. In secondo luogo per la parimenti palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione dell’atto cui le censure fanno riferimento, ossia dell’atto di citazione introduttivo.

4.1.3. In terzo luogo per la contraddittorietà e incompatibilità delle censure di omessa pronuncia (che sottende la mancanza di qualsiasi statuizione sul motivo di gravame, peraltro esclusa dallo stesso ricorrente) e di mancanza di motivazione o motivazione apparente (che presuppone l’esistenza della statuizione ma la mancanza di una qualsiasi minima e comprensibile motivazione al riguardo): vizio, quest’ultimo, comunque certamente non predicabile nella specie, anche in tal caso la motivazione essendo chiara e ben comprensibile.

4.1.4. Infine varrà rilevare anche la manifesta infondatezza del motivo là dove postula che mutatio libelli possa aversi per la specificazione di danni inizialmente dedotti e diversamente quantificati nel loro ammontare (in misura anche maggiore, pari al passivo fallimentare accertato), essendo evidente che costituisce invece mera precisazione della domanda, non soggetta ad alcuna preclusione nella fase introduttiva del giudizio, la loro mera quantificazione, in riduzione rispetto all’importo prima indicato e fermi restando i fatti costitutivi della pretesa, ossia le condotte omissive o negligenti indicate in domanda quale fonte di responsabilità risarcitoria (omessa regolare tenuta della contabilità, mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali).

5. Motivi terzo, quarto, quinto, nono e decimo: sul nesso causale.

Terzo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa motivazione (ovvero totalmente apparente e priva di qualunque consistenza giuridica) in relazione alla questione dirimente del nesso causale ex art. 40 e 41 c.p. nonchè art. 1223 c.c. e art. 111 Cost. tra la condotta di T.U. ed il danno riconosciuto in sentenza.

Viene trascritto testualmente uno stralcio dell’atto d’appello dedicato al tema del nesso causale, poi sintetizzato con l’affermazione che: non esiste insolvenza; i fondi sussistevano e sono tuttora bloccati in una banca in Libia per sanare “ogni pendenza additiva e con avanzo primario”; non vi era passivo bensì un attivo ma nè lo Stato prima nè la curatela poi hanno agito a causa de c.d. “pantano libico”.

Ci si duole quindi che la Corte territoriale: ha omesso “di prendere posizione sulle questioni così ben articolate”; non ha motivato sul punto.

Si deduce quindi la nullità della sentenza “perchè completamente priva di aderenza al motivo trattato”.

Quarto motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per omessa motivazione (ovvero totalmente apparente e priva di qualunque consistenza giuridica) in relazione alla questione dirimente del nesso causale ex art. 40 e 41 c.p. nonchè art. 1223 c.c. e art. 111 Cost. tra la condotta di T.U. ed il danno riconosciuto in sentenza.

Per stessa ammissione del ricorrente “il punto è sempre quello indicato al motivo che precede”.

Riportate alcune massime giurisprudenziali in tema di nesso causale e relativo accertamento, si afferma che la Corte d’appello se ne sarebbe discostata, basandosi su mere congetture.

L’illustrazione del motivo si conclude quindi con le seguenti testuali affermazioni e domande:

“Non si può motivare in modo brachilogico ovvero in forma apparente assumendo che vi sarebbe legame causale quando:

– v’è una sentenza penale assolutoria che esclude l’evasione fiscale;

– v’è la prova di un’ingente liquidità in Libia non escussa per lo sconvolgimento geopolitico del Paese e poi per l’inerzia delle autorità italiane;

– idem con riferimento all’inerzia della curatela;

– v’è un contegno della G.d.F. dichiarato da un giudice penale, con decisione irrevocabile, privo di senso e pure di logica ma che invece costituirà la base delle decisioni di merito;

– v’è una condotta della curatela inadempiente;

– v’è una condotta della curatela che non spiega l’inazione, anche dei canali diplomatici.

“E che nesso causale v’è quando non sussiste procedimento penale per bancarotta documentale altro?

“E quale nesso v’è se non esiste contestazione di contegni distrattivi o di altra natura?

“E perchè l’AGO neppure ha disposto C.T.U. per accertare il nesso?

“Un’istruttoria inesistente non può comportare l’accoglimento della domanda ma il suo rigetto”.

Quinto motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 5 per omessa motivazione (ovvero totalmente apparente e priva di qualunque consistenza giuridica) in relazione alla questione dirimente del nesso causale ex art. 40 e 41 c.p. nonchè art. 1223 c.c. e art. 111 Cost. tra la condotta di T.U. ed il danno riconosciuto in sentenza.

Si lamenta la mancata considerazione di “fatti rilevanti” così descritti:

– inesistenza di un processo penale per fatti di bancarotta fraudolenta o semplice o documentale;

– inesistenza di addebiti da parte di qualunque autorità di PG;

– esistenza di somme tuttora depositate in Libia;

– sussistenza di condizioni per procedere ad una chiusura del fallimento in attivo;

– non contestazione di tali fatti;

– mancanza di elementi a supporto delle tesi contrarie e di quanto sostenuto da T.U..

Nono motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per non essersi espresso sulla questione del nesso causale tra condotta di T.U. ed il danno specifico riconosciuto e cioè con riferimento al perchè la condotta (peraltro non identificata) ha provocato quel danno.

Decimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non essersi espresso sulla questione del nesso causale tra condotta di T.U. ed il danno specifico riconosciuto e cioè con riferimento al perchè la condotta (peraltro non identificata) ha provocato quel danno.

Si afferma che:

“non esiste insolvenza ma una paralisi geopolitica per la quale non può pagare un terzo”;

“vi è un credito di circa 8/10 milioni che non è stato, colpevolmente peraltro, recuperato”.

5.1. I motivi sopra esposti, che, al di là della variabile indicazione in rubrica del tipo di vizio cassatorio ipotizzato, sembrano tutti lamentare, ripetitivamente e con piena sovrapponibilità, un vizio di radicale mancanza ovvero apparenza della motivazione in punto di nesso causale, si appalesano inammissibili.

Gli argomenti spesi a sostegno della doglianza si muovono infatti non già sul piano formale della consistenza della motivazione quale espressa in sentenza, con la quale il ricorrente del resto non si confronta, ma, ben diversamente, sul piano prettamente di merito della fondatezza in fatto di quella valutazione, lamentandosi la mancata considerazione delle suindicate circostanze o argomenti difensivi.

Non può comunque certo dubitarsi che una motivazione esista e che non sia meramente apparente, consentendo la stessa di comprendere quale sia la ragione della decisione adottata (fondatezza della esercitata azione di responsabilità in ragione della omessa tenuta della contabilità e dell’omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali per gli anni 2004-2007 e conseguente responsabilità risarcitoria parametrata al danno rappresentato “almeno” dalle sanzioni fiscali erogate per l’omesso versamento dei tributi e dei contributi previdenziali a loro volta commisurato presuntivamente ad una percentuale del complessivo credito iscritto al passivo).

Ciò vale certamente ad escludere la dedotta violazione dai doveri decisori di cui all’art. 132 c.p.c. denunciata dall’amministrazione ricorrente, che si configura soltanto nell’ipotesi in cui sia mancata del tutto da parte del giudice – ovvero sia meramente apparente (come quando sia affidata ad espressioni del tutto generiche o tautologiche e prive di ogni specifico riferimento al caso concreto) – ogni giustificazione a supporto del decisum, mentre rientra nell’ambito dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e soggiace pertanto ai relativi limiti di ammissibilità ogni altra censura che riguardi il quomodo della motivazione.

Varrà in tal senso rammentare che, al fine di adempiere all’obbligo della motivazione il giudice di merito, non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali e a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, ma è invece sufficiente che, dopo avere vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.

I motivi in realtà, lungi dal precisare come e in che modo la Corte d’appello sia incorsa in siffatta radicale violazione dei propri doveri decisori, mescolano in modo confuso varie argomentazioni difensive che attengono sotto vari profili al merito delle questioni trattate, in buona sostanza volgendosi a contestare l’esito delle valutazioni in fatto e in diritto svolte dal giudice, muovendosi dunque su di un piano totalmente diverso da quello dei denunciati errores in procedendo e che attiene piuttosto al quomodo della motivazione.

5.2. Pur riguardate in tale ultima prospettiva, alla stregua di una lettura sostanzialistica del contenuto effettivo delle censure (v. Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931), i motivi si appalesano totalmente distanti dal rispettare i requisiti e i limiti del paradigma dettato dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Varrà al riguardo rammentare che, secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, tale norma, se da un lato ha definitivamente limitato il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la Corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti. A tal fine la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la decisività del fatto stesso. (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

Dovendo dunque ritenersi definitivamente confermato il principio, già del tutto consolidato, secondo cui non è consentito richiamare la corte di legittimità al riesame del merito della causa, le esposte doglianze devono anche in detta prospettiva ritenersi inammissibili:

– anzitutto perchè riferite non a fatti storici ma a mere generiche argomentazioni difensive (sussistenza di condizioni per procedere ad una chiusura del fallimento; non contestazione di tali fatti; non insolvenza ma paralisi geopolitica) ovvero a fatti negativi (inesistenza di addebiti da parte di qualunque autorità di PG);

– in secondo luogo, là dove possa ravvisarsi il riferimento a un fatto storico (esistenza di ingenti crediti verso lo Stato libico non recuperato) per la palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti o documenti da cui e attraverso cui il fatto risulta acquisito al processo nei termini sopra indicati;

– in definitiva perchè evidentemente dirette a censurare, non già l’omissione rilevante ai fini dell’art. 360, n. 5 cit., bensì la congruità del complessivo risultato della valutazione operata nella sentenza impugnata con riguardo all’intero materiale probatorio, che, viceversa, il giudice a quo risulta aver elaborato in modo completo ed esauriente, sulla scorta di un discorso giustificativo dotato di adeguata coerenza logica e linearità argomentativa, senza incorrere in alcuno dei gravi vizi d’indole logico-giuridica unicamente rilevanti in questa sede.

6. Motivi undicesimo, dodicesimo, ventiduesimo e ventitreesimo: sussistenza del danno.

Undicesimo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per non aver considerato che l’erario non aveva e non poteva avere crediti in relazione dunque all’insinuazione di Equitalia che andava respinta, vieppiù dopo il giudicato penale in relazione all’art. 324 c.p.c. e art. 2908 c.c.

Si trascrive il quinto motivo di gravame con il quale si contestava la sentenza di primo grado nella parte in cui definiva il T. quale “evasore totale”, poichè basata sul rapporto di PG smentito da una sentenza penale.

Si trascrive quindi un ampio stralcio della sentenza di assoluzione dal reato di cui al D.Lgs. n. 70 del 2000, art. 5, comma 1, per mancato superamento della soglia di punibilità.

Si sostiene che detta assoluzione determina l’inesistenza del credito vantato dall’erario la cui ammissione al passivo però inopinatamente – si dice – non è stata rigettata.

Dodicesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver considerato che l’erario non aveva e non poteva avere crediti in relazione dunque all’insinuazione di Equitalia che andava respinta, vieppiù dopo il giudicato penale in relazione all’art. 324 c.p.c. e art. 2908 c.c.

Ventiduesimo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per difetto di motivazione in relazione alle prove addotte dalla curatela ex art. 115,116,2697 c.c. che non avevano alcun valore.

Si lamenta omessa motivazione sugli argomenti difensivi svolti con riferimento alla colpevole inerzia del curatore nel recupero dei crediti vantati dalla società nei confronti della P.A. libica.

Ventitreesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per difetto di motivazione in relazione alle prove addotte dalla curatela ex art. 115,116 e 2697 c.c. che non avevano alcun valore.

Si insiste sulla irrilevanza probatoria degli accertamenti della Guardia di Finanza, poichè asseritamente “posti nel nulla” dalla sentenza penale di assoluzione e considerate anche l’assenza di processi penali per bancarotta over violazioni contributive.

6.1. Anche i motivi così raggruppati per comunanza tematica si espongono ai medesimi rilievi di inammissibilità sopra esposti con riferimento ai motivi precedenti.

6.1.1. Non è certamente predicabile la violazione dei doveri decisori del giudice, anche in tale caso apparentemente e apoditticamente dedotta in rubrica senza alcun effettivo confronto con la motivazione della sentenza.

6.1.2. Risultano non attinti da alcuna censura in questa sede i rilievi contenuti in sentenza circa l’inammissibilità, sotto un duplice profilo, degli argomenti facenti leva sulla insussistenza del credito erariale: a) per non avere esso costituito oggetto di discussione nel primo grado di giudizio (primo rilievo di per sè assorbente); b) per non essere stata la relativa ammissione impugnata e per essere quindi la relativa contestazione “totalmente preclusa, in questa sede, come anche nella procedura fallimentare”.

6.1.3. In una prospettiva sostanzialistica anche tali censure, lungi dall’evidenziare l’applicazione di una regola di giudizio non conforme a diritto, si volgono a contestare, genericamente, il merito della valutazione operata dal giudice, su di un piano meramente fattuale.

A tal fine peraltro le doglianze poggiano tutte sul contenuto di una sentenza penale, della quale non si dice tuttavia: se e quando è passata in giudicato; dove e quando risulta prodotta e fatta oggetto di dibattito processuale; dove è localizzata nel fascicolo processuale formato per il presente giudizio di legittimità; tutto ciò, ancora una volta, in palese violazione degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

Si tratta peraltro di elemento del tutto inconferente ai fini del presente giudizio, e dunque non decisivo nei termini richiesti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che:

a) la Corte d’appello motiva l’affermazione di responsabilità sulla base di un presupposto (omessa tenuta della contabilità e mancata presentazione delle dichiarazioni) non confutato ma anzi confermato da quella sentenza;

b) secondo quanto riferito dallo stesso ricorrente il debito nei confronti dell’Erario risulta ammesso al passivo; la sua contestazione nel presente giudizio di responsabilità, quand’anche fosse stata ritualmente proposta, rettamente risulta negletta dai giudici di merito, trattandosi di materia riservata alla giurisdizione tributaria e rispetto alla quale comunque nessun rilievo potrebbe avere il presunto giudicato penale di assoluzione.

E’ appena il caso di rammentare in proposito che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (v. ex multis Cass. 28/06/2017; n. 16262; 23/05/2012, n. 8129; 27/09/2011, n. 19786).

7. Tredicesimo motivo: la condotta illecita.

Violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 2392,2394 e 2697 c.c. nonchè L. Fall., art. 146.

Si deduce che la responsabilità dell’amministratore, in ambito fallimentare, non può essere riconosciuta sulla sola base dell’omessa od erronea tenuta dei bilanci o della contabilità ovvero della differenza tra attivo e passivo fallimentare.

7.1. Il motivo è inammissibile.

7.1.1. Quanto alla prima affermazione (responsabilità non affermabile sulla sola base dell’omessa od erronea tenuta dei bilanci o della contabilità), lo è ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, poichè la Corte territoriale si è sul punto conformata all’opposto indirizzo incontrastato nella giurisprudenza di legittimità e il ricorso, lungi dal proporre argomenti che possano indurre a un diverso opinamento, si limita ad una mera apodittica asserzione contraria.

La giurisprudenza di questa Corte ha invero costantemente affermato che la totale mancanza di contabilità sociale (o la sua tenuta in modo sommario e non intelligibile) è, di per sè, giustificativa della condanna dell’amministratore al risarcimento del danno, in sede di azione di responsabilità promossa dalla società a norma dell’art. 2392 c.c., vertendosi in tema di violazione da parte dell’amministratore medesimo di specifici obblighi di legge, idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale; al di fuori di tale ipotesi, che giustifica l’inversione dell’onere della prova, resta a carico del curatore l’onere di provare il rapporto di causalità tra la condotta illecita degli amministratori e il pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. 04/04/2011 n. 7606 11/03/2011, n. 5876; n. 6493 del 19/12/1985).

A ben vedere anche il precedente citrato in ricorso, alle pagg. 3637, di Cass. 03/01/2017, n. 38, ribadisce nelle premesse tale principio, limitandosi solo ad escludere che, anche ove ricorra una siffatta ipotesi di condotta inadempiente, il danno risarcibile possa essere commisurato tout court alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare.

7.1.2. Quanto alla seconda affermazione (impossibilità di riconoscere il danno sulla base della differenza tra attivo e passivo fallimentare) il motivo è inammissibile per aspecificità, posto che la sentenza impugnata – come appresso sarà ulteriormente detto -non afferma affatto la responsabilità del ricorrente sulla base della (nè liquida il danno in misura corrispondente alla) differenza tra attivo e passivo fallimentare.

8. Motivi dal quattordicesimo al ventunesimo: la liquidazione equitativa del danno.

Quattordicesimo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per non aver motivato in ordine alla dirimente questione della mancata prova del danno (artt. 1223,2697 c.c.).

L’illustrazione del motivo si risolve pressochè integralmente nella trascrizione del motivo di appello dedicato alla questione suindicata. Questo a sua volta è strutturato attraverso:

– l’integrale trascrizione della motivazione della sentenza di primo grado nella parte dedicata alla quantificazione del danno (nella quale, posta la “totale indisponibilità di documentazione contabile inerente alla società”, si osserva, sulla scorta di citazioni giurisprudenziali, a cominciare dal richiamo a Cass. n. 7606 del 2011, che “il criterio residuale ancorato alla differenza tra attivo e passivo patrimoniale accertato in sede concorsuale… può costituire elemento presuntivo su cui ancorare la determinazione equitativa del danno risarcibile” e che, pertanto, nel caso di specie, può essere accolta la richiesta conclusiva di parte attrice che quantifica il danno, “equitativamente”, “in un 30% dell’esposizione complessiva nei confronti di Equitalia”);

– il rilievo secondo cui (si riporta testualmente) “tale motivazione non convince affatto perchè appare surrogatoria (del)l’onere della prova gravante sulla controparte che determina una discutibile carenza decisionale”.

Tutto ciò premesso, il motivo di ricorso in esame si conclude con la testuale affermazione (da supporre riferita alla parte della sentenza d’appello dedicata all’argomento): “la motivazione è accorpata e non ben comprensibile ma non vi è una specifica motivazione in ordine alla mancata prova del pregiudizio che avrebbe dovuto essere chiara e specifica”, tanto da doversi, detta motivazione, “reputare inesistente o comunque nulla”.

Quindicesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per non aver motivato in ordine alla dirimente questione della mancata prova del danno (artt. 1223 e 2697 c.c.)

Si contestano le considerazioni svolte in sentenza a giustificazione della quantificazione del danno, osservandosi di contro, in sintesi, che, non essendo stati contestati nè il reato di bancarotta nè violazioni contributive, le sanzioni fiscali avrebbero dovuto essere annullate e il curatore avrebbe dovuto respingere le domande di ammissione al passivo dell’erario e degli enti previdenziali.

Sedicesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 1226 c.c. in ordine alla liquidazione del danno in forma equitativa in assenza dei presupposti.

Si contesta, in quanto di tipo meramente congetturale, la motivazione espressa in sentenza a conferma della liquidazione equitativa del danno.

Diciassettesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 1226 c.c. in ordine alla liquidazione del danno in forma equitativa in assenza dei presupposti.

Si afferma che non vi erano i presupposti per ricorrere alla liquidazione equitativa e che, diversamente da quanto postulato in sentenza, l’appello era in tal senso specifico.

Diciottesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione all’art. 1226 c.c. in ordine alla liquidazione del danno in forma equitativa in assenza dei presupposti.

Fatto decisivo il cui esame sarebbe stato omesso dai giudici d’appello è, in tesi, la specifica contestazione contenuta nell’atto d’appello circa i presupposti della liquidazione equitativa del danno.

Diciannovesimo motivo: nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa motivazione del perchè il danno è stato per l’appunto equitativamente determinato nella misura del 30% e non del 10% ad esempio.

Si lamenta assenza di motivazione sulle questioni trattate, così indicate:

– inesistenza di redditi;

– mancato incasso per ragioni geopolitiche;

– incomprensibilità di una condotta che non coinvolse l’amministratore P.;

– inesistenza di evasione fiscale;

– inesistenza di passività;

– invalidità della presentazione dei bilanci per essere la situazione congelata per la presenza della guerra in Libia;

– sussistenza di un attivo non recuperato per mancanza e negligenza del curatore e delle autorità consolari e diplomatiche italiane;

– incoerenza di condotta della G.d.F. che non dà atto di questa situazione/condizione.

Ventesimo motivo: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 per omessa motivazione del perchè il danno è stato (per l’appunto equitativamente) determinato nella misura del 30% e non del 10% ad esempio.

Si deduce l’illegittimità della liquidazione equitativa poichè il danno poteva essere agevolmente determinato.

Ventunesimo motivo: vulnerazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per omessa motivazione del perchè il danno è stato per l’appunto equitativamente determinato nella misura del 30% e non del 10% ad esempio.

8.1. Anche i motivi sopra raggruppati, con ogni evidenza sostanzialmente ripetitivi, si appalesano inammissibili.

8.1.1. Anzitutto, anche in tal caso, la doglianza di omessa motivazione – se da intendere come denuncia di error in procedendo – per carenza totale di motivazione ovvero per il presunto carattere apparente tautologico della motivazione sul punto – è in contraddizione con la contestuale denuncia di error in iudicando ed è comunque palesemente fuori segno, non potendosi dubitare che la Corte d’appello dedichi alla questione una motivazione chiara e ben comprensibile. Se invece è da intendere come espressiva di una denuncia di vizio motivazionale ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si appalesa del tutto carente dei requisiti a tal fine prescritti, quali sopra già rammentati, e volta sostanzialmente a sollecitare una rivalutazione dei fatti, peraltro del tutto genericamente dedotti, anche con riferimento a argomenti difensivi che, oltre a non trovare alcun appiglio nei fatti accertati, risultano anche, per quanto già sopra esposto, inconferenti.

8.1.2. L’argomento di fondo, con il quale si prospetta in sostanza un error iuris, per avere la Corte d’appello avallato una valutazione sostanzialmente equitativa del danno, si appalesa poi manifestamente infondato, risultando anche sul punto le decisioni di merito pienamente rispettose del principio costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte (peraltro pure richiamata in ricorso), donde anche sul punto l’inammissibilità del ricorso ex art. 360-bis c.p.c., n. 1.

Il riferimento è al principio, affermato da Cass. Sez. U 06/05/2015, n. 9100, e poi sempre ribadito da numerose pronunce conformi, secondo il quale “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma della L. Fall., art. 146, comma 2, la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, semprechè il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo”.

Nel caso di specie, nel rispetto e in piena coerenza con tale principio, la sentenza impugnata motiva espressamente l’utilizzo del criterio equitativo per la liquidazione del danno, peraltro nei limitati termini esposti (che fanno esclusivo riferimento a una percentuale dell’importo ammesso al passivo per crediti erariali), indicando: a) le circostanze del caso concreto che rendono logicamente plausibile il ricorso a tale criterio (omessa tenuta della contabilità e omessa presentazione delle dichiarazioni fiscali); b) il nesso causale tra l’inadempimento dell’amministratore e il danno così quantificato (evidenziando del tutto ragionevolmente che “almeno le sanzioni fiscali irrogate per l’omesso versamento dei tributi e dei contributi previdenziali sono un danno causalmente ricollegabile alla condotta del T. in modo immediato e diretto”), risultando in tal modo anche giustificata, a confutazione della meramente oppositiva doglianza espressa sul punto con i motivi in esame, la parametrazione del danno nella percentuale del 30% (e non in altra) del maggiore importo del credito erariale ammesso al passivo, in quanto corrispondente “al maggiore importo che mediamente e notoriamente deriva a carico dell’imprenditore per l’omissione degli adempimenti tributari contributivi”.

Può anzi ancor prima osservarsi che, a ben vedere, proprio tale ultima parametrazione esclude che la liquidazione sia stata operata attraverso un riferimento, sia pure equitativo-presuntivo, allo sbilancio tra passivo e attivo fallimentare, avendo i giudici di merito in realtà fatto riferimento a una ben precisa posta passiva del conto economico (la sanzioni per le omissioni fiscali e contributive), direttamente e immediatamente imputabile ad omissioni dell’amministratore (la cui computabilità ad oggetto dell’obbligo risarcitorio in sede di giudizio di responsabilità L. Fall., ex art. 146 è in motivazione espressamente affermata come presumibile dalla stessa Cass. Sez. U. n. 9100 del 2015, cit.: in motivazione, pagg. 1314)

9. Conclusioni.

Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento, nei confronti del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Le conclamate e manifeste ragioni di inammissibilità del ricorso giustificano la condanna del ricorrente ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, al pagamento di una “somma equitativamente determinata” (come da dispositivo), in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo (v. Cass. Sez. U. 05/07/2017, n. 16601).

Non può a tal fine non attribuirsi rilievo alla prospettazione -peraltro attraverso una pletorica articolazione di motivi – di tesi censorie generiche ripetitive e non pertinenti, avulse da un reale confronto critico con la sentenza impugnata, tese in sostanza a sollecitare una nuova valutazione di merito.

Tutto ciò segna l’iniziativa processuale, nel suo complesso, quale frutto di colpa grave, così valutabile – come è stato detto – “in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonchè con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illiceità dell’abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali” (v. Cass. 14/10/2016, n. 20732; Cass. 21/07/2016, n. 15017; Cass. 22/02/2016, n. 3376; Cass. 7/10/2013, n. 22812).

Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di Euro 5.000 ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019

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