Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27608 del 29/10/2019

Cassazione civile sez. III, 29/10/2019, (ud. 12/07/2019, dep. 29/10/2019), n.27608

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27237-2016 proposto da:

PANORAMICA SRL CASA DI CURA VILLA PIA POLISPECIALISTICA in persona

del legale rappresentante p.t. B.D., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA ORAZIO 3, presso lo studio dell’avvocato

VITO BELLINI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

MARIA LUISA BELLINI, GIUSEPPE GRAZIOSI;

– ricorrenti –

contro

ASL ROMA (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CASAL

BERNOCCHI PRESSO ASL, presso lo studio dell’avvocato FABIO FERRARA,

che la rappresenta e difende;

REGIONE LAZIO in persona del Presidente pro tempore della Giunta

Regionale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCANTONIO

COLONNA 27 presso lo studio dell’avvocato TIZIANA CIOTOLA che la

rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3566/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/07/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale CARDINO ALBERTO, che ha chiesto

l’accoglimento dei motivi 3 e 4 di ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO che ha chiesto l’accoglimento dei motivi 3 e 4 del

ricorso;

udito l’Avvocato MARIA LUISA BELLINI e GIUSEPPE GRAZIOSI;

udito l’Avvocato GIUSEPPE ALLOCCA per delega;

udito l’Avvocato GIOVANNI VETTORI per delega orale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Soc. Panoramica S.r.l. – Casa di Cura Villa Pia Polispecialistica conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la Azienda USL Roma (OMISSIS), oggi Asl Roma (OMISSIS), e la Regione Lazio per ottenere la somma di Euro 2.324.446,00 quale corrispettivo di prestazioni in eccesso rispetto a quelle programmate, o, in via subordinata, a titolo di risarcimento del danno subito a causa della omessa determinazione da parte della Regione Lazio dei criteri per remunerare prestazioni erogate in eccesso o, in via ulteriormente subordinata, ai sensi dell’art. 2041 c.c..

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 8709/2011, rigettava le domande dell’attrice che proponeva gravame dinanzi alla Corte di appello di Roma chiedendo la riforma integrale della sentenza impugnata, perchè essa avrebbe fondato il rigetto della domanda principale solo sul disposto del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8 quater che esclude ogni obbligo delle Asl di rimborsare prestazioni erogate extra budget, omettendo di valutare che si trattava di prestazioni erogate non per elezione ma per supplenza; perchè non avrebbe esaminato il fondamento della domanda proposta a titolo risarcitorio e perchè, infine, avrebbe rigettato la domanda fondata sull’art. 2041 c.c., ritenendo assente ogni utilitas per la ASL.

La Corte di Appello, con sentenza n. 3566/2016, deposita il 4.6.2016, rigettava l’appello e compensava le spese. La Corte, premesso che il sistema sanitario è caratterizzato dal principio della necessaria programmazione sanitaria, realizzato con l’adozione di un piano annuale preventivo, negava il fondamento di ogni pretesa di remunerazione di prestazioni sanitarie, anche non elettive, ove la remunerazione avesse comportato il superamento del tetto massimo di spesa, definito per ogni struttura accreditata in ragione di atti di programmazione preventiva e, di conseguenza, escludeva la ricorrenza di una condotta illegittima in capo alla Asl che aveva rifiutato detta remunerazione che potesse giustificare una richiesta risarcitoria. Quanto alla asserita violazione dell’art. 2041 c.c. il giudice del gravame confermava l’assenza di utilitas per la Asl, giacchè la appellante era stata resa edotta del limite di spesa e si era impegnata a rispettarlo per mantenere l’accreditamento. La valutazione circa la ricorrenza di utilitas, dovendosi aver riguardo per l’utilità di sistema, imponeva di considerare che le prestazioni extra budget erano incompatibili con le esigenze di controllo e di programmazione della spesa sanitaria.

La società Panoramica propone ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 3566/2016, fondandolo su quattro motivi, corredati di memoria.

Resistono con autonomo controricorso l’Azienda sanitaria Locale Roma 3 e la Regione Lazio. La prima si è avvalsa della facoltà di presentare memoria.

Si dà atto che con ordinanza n. 26062/2018 era stata disposta la trattazione della controversia in Pubblica Udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamenta la violazione e/o errata interpretazione del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8 quinquies, lett. d e del L.R. Lazio n. 4 del 2003, art. 19, lett. d la violazione delle norme in materia di responsabilità e inadempimento contrattuale, la violazione e/o errata applicazione dell’art. 2043 c.c..

In particolare, prospetta che l’inadempimento da parte della Regione Lazio dell’obbligo, di cui al D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8 quinquies di definire i criteri per determinare la remunerazione delle strutture che abbiano erogato prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato, e dell’obbligo, di cui alla L.R. n. 4 del 2003, art. 9, lett. d, di fissare i criteri per stabilire la remunerazione delle prestazioni, anche nei casi in cui le strutture abbiano erogato prestazioni in eccesso rispetto al programma preventivo concordato, sia stato liquidato, pur essendo stato dedotto al fine di fondare la richiesta risarcitoria ex art. 2043 c.c., dal giudice a quo con la sbrigativa conclusione “non può configurarsi alcuna condotta illegittima da parte della P.A. foriera di danno ingiusto per non aver remunerato prestazioni extra budget”.

2. In subordine, con il secondo motivo deduce l’omesso esame di fatti decisivi e controversi nonchè vizio motivazionale in relazione alla violazione dell’art. 115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il giudice a quo avrebbe omesso l’esame di fatti decisivi per il giudizio e controversi che la ricorrente elenca (pp. 17-18), indica quando e dove sono stati versati in atti (p. 19), allega all’odierno ricorso e di cui deduce la decisività.

3. Con il terzo motivo, ricondotto all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o errata applicazione degli artt. 2041 e 2042 c.c. e del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 9 quinquies, lett. d e della L.R. Lazio n. 4 del 2003, art. 19, lett. d.

La ricorrente lamenta che il giudice di merito, pur avendo ritenuto ammissibile la domanda ex art. 2041 c.c. e pur facendo applicazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 10798/2015, abbia contraddittoriamente ritenuto non ricorrente l’utilitas per le prestazioni erogate extra budget adducendo la incompatibilità ontologica di una tale utilitas, stante il budget vincolato e determinato all’atto della programmazione della spesa, in contrasto proprio con la giurisprudenza di legittimità.

4. Con il quarto motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso nonchè un ulteriore vizio motivazionale in relazione alla violazione dell’art. 115 c.p.c.. In particolare, lamenta che il giudice a quo non abbia valutato la particolare natura dei ricoveri, urgenti ed indifferibili, nonchè la provenienza da disposizioni scritte di trasferimento sottoscritte dai Pronto Soccorsi di ospedali pubblici per loro criticità, deducibili da elementi sottoposti al vaglio del giudice di merito – nel ricorso si dà conto di quando sono stati versati in atti (p. 29) – che, se esaminati, avrebbero giustificato quanto meno la indennizzabilità delle relative spese ai sensi degli artt. 2041 e 2042 c.c..

5. I primi due motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente data la loro connessione, sono infondati.

Pur rispondendo al vero che la condotta antigiuridica fatta valere in giudizio non era quella della mancata retribuzione delle prestazioni extra budget, bensì quella derivante dal mancato ottemperamento agli obblighi di fissare i criteri per determinare la remunerazione delle prestazioni anche nei casi in cui le strutture avessero erogato prestazioni eccedenti rispetto a quelle concordate e che tali obblighi derivavano dal D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8 quinquies, lett. d – il quale impegnava le Regioni a definire i criteri di determinazione della remunerazione delle strutture che abbiano erogato prestazioni eccedenti quelle concordate – dalla L.R. Lazio n. 4 del 2003, art. 19, lett. d – di analogo contenuto prescrittivo – nonchè dal contratto, è altrettanto vero e prevalente che la giurisprudenza amministrativa, con orientamento costante (Cons. Stato, sez. III, 08/01/2019; n. 184; Con. Stato, sez. III, 27/02/2018, n. 1206; Cons. St. Sez. III, 10/02/2016, n. 567;Cons.Stato, sez. III, 14/12/2012, n. 6432), ha precisato che l’osservanza del tetto di spesa in materia sanitaria rappresenta un vincolo ineludibile che costituisce la misura delle prestazioni sanitarie che il Servizio sanitario nazionale può erogare e che può permettersi di acquistare da ciascun erogatore privato, con la conseguenza che deve considerarsi giustificata (anche) la mancata previsione di criteri di remunerazione delle prestazioni extra budget – ipotesi occorsa nella fattispecie concreta – per la necessità di dover comunque rispettare i tetti di spesa e, quindi, il vincolo delle risorse disponibili (Cons. Stato, sez. III 10/02/2016 n. 566; Con. Stato, sez. III, 10/04/2015, n. 1832).

Alla base di tale conclusione vi sono alcuni stringenti indirizzi normativi – la L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 32, comma 8, il D.Lgs. 23 dicembre 1992, n. 502, art. 12, comma 3 e il D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 39 (su cui Cons. Stato, Ad. Plen., 12/04/2012, n. 3; Cons. Stato, 02/05/ 2006, n. 8; Consiglio Stato, sez. V, 25/01/2002, n. 418; Corte Cost. 26/05/2005, n. 200; Corte Cost. 28/07/1995, n. 416; Corte Cost. 23/07/1992, n. 356) – i quali hanno disposto che, in condizioni di scarsità di risorse e di necessario risanamento del bilancio, anche il sistema sanitario non può prescindere dall’esigenza di perseguire obiettivi di razionalizzazione finalizzati al raggiungimento di una situazione di equilibrio finanziario attraverso la programmazione e pianificazione autoritativa e vincolante dei limiti di spesa dei vari soggetti operanti nel sistema. Si tratta dell’esercizio di un potere connotato da ampi margini di discrezionalità, posto che deve bilanciare interessi diversi e per certi versi contrapposti, ovvero l’interesse pubblico al contenimento della spesa, il diritto degli assistiti alla fruizione di adeguate prestazioni sanitarie, le aspettative degli operatori privati che si muovono secondo una legittima logica imprenditoriale e l’assicurazione della massima efficienza delle strutture pubbliche che garantiscono l’assistenza sanitaria a tutta la popolazione secondo i caratteri tipici di un sistema universalistico. Occorre d’altro canto considerare che il perseguimento degli interessi collettivi e pubblici compresenti nella materia non può restare subordinato e condizionato agli interessi privati i quali, per quanto meritevoli di tutela, risultano cedevoli e recessivi rispetto a quelli pubblici; che vi è la necessità di rivedere l’offerta complessiva delle prestazioni messe a disposizione dai soggetti privati utilizzando al meglio le potenzialità delle strutture pubbliche al fine di garantire il loro massimo rendimento a fronte degli ingenti investimenti effettuati in termini finanziari e organizzativi.

Dato il carattere recessivo degli atti concordati e convenzionali, solo il mancato superamento del tetto di spesa dà il diritto alla struttura sanitaria accreditata di ottenere la remunerazione delle prestazioni erogate; nel senso che esso deve essere considerato un elemento costitutivo della pretesa creditoria, con la conseguenza che quando le prestazioni erogate dalle strutture sanitarie provvisoriamente accreditate superino i tetti di spesa non vi è alcun obbligo dell’ASL di acquistare e pagare le prestazioni suddette (Cons. Stato 27/02/2018, n. 12060).

E’ vero, insomma, che la struttura accreditata vantava un credito alla remunerazione delle prestazioni erogate, benchè extra budget, ma solo in astratto; in concreto, infatti, la remunerazione risultava inesigibile, con conseguente corretta declaratoria di non antigiuridicità della condotta della Asl, stante la ricorrenza di un obbligo ex lege avente carattere prevalente rispetto agli accordi negoziali, risolvendosi tale obbligo in un factum principis non imputabile, cui la ASL e la Regione non avrebbero potuto sottrarsi.

Non rileva, pertanto, la presenza di circostanze particolari, risultanti da alcuni documenti asseritamente non esaminati dal giudice a quo, perchè essi non avrebbero potuto portare ad una conclusione diversa, anche là dove le circostanze dedotte fossero risultate fondate: in presenza di un generale divieto di remunerazione di prestazioni extra budget, la Corte capitolina non avrebbe potuto ritenere che talune prestazioni rispondenti alle caratteristiche dedotte dalla ricorrente fossero comunque remunerabili. Anche in ragione del pertinente rilievo che alla struttura accreditata era data la possibilità di rifiutare la prestazione, essendovi un obbligo solo per il servizio sanitario nazionale di erogare le prestazioni sanitarie all’utenza. Invece, la struttura privata accreditata non ha obbligo di rendere le prestazioni agli assistiti oltre il tetto di spesa (Cons. Stato, sez. III, 07/01/2014, n. 2; Cons. Stato, sez. V, 30/04/2003, n. 2253).

6. Il terzo e il quarto motivo sono infondati.

A prescindere dalla legittimità della pretesa di ottenere la remunerazione di prestazioni extra budget, il thema decidendi è la ravvisabilità di un indebito arricchimento della amministrazione sanitaria, a fronte di prestazioni sanitarie effettivamente rese, con il corrispondente depauperamento della casa di cura (che ha sostenuto i costi) e l’insussistenza della giusta causa (di tale indebito arricchimento), consistente nella specie nella non negabilità delle prestazioni rese e nel risparmio di spesa ricavatone.

La Corte territoriale ha escluso il diritto all’indennizzo ritenendo che dato “il regime di accreditamento (…) si manifesta nella specie il difetto di utilitas (…) il sistema è tale nell’ambito del SSN che deve ritenersi in via presuntiva insussistente l’utilitas per prestazioni extra budget, in quanto appunto ontologicamente incompatibili con le esigenze di controllo e programmazione della spesa sanitaria. Sicchè l’arricchimento si connota, per utilizzare l’espressione adottata dalla Suprema Corte, come arricchimento imposto (Cass. SU 2015/10798)” (pp. 9-10).

La Corte territoriale non ha fatto buon governo della giurisprudenza di questa Corte, giacchè alla stregua di quanto chiarito proprio dalla decisione invocata dal giudice a quo il diritto all’indennizzo non necessita della prova di una utilitas da parte della Pubblica Amministrazione (Cass., Sez. Un., 26/05/2015, n. 10798); tale requisito non ha alcun fondamento normativo, i presupposti per l’azione di ingiustificato arricchimento, a prescindere dalla veste privata o pubblica del soggetto che ha conseguito rarricchimento”, sono sempre e soltanto quelli previsti dal citato art. 2041 c.c.; vale a dire che l’indennizzo va liquidato nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto fosse stato negoziale.

Superando il precedente orientamento che riteneva affidata alla valutazione discrezionale della sola amministrazione, unica legittimata ad esprimersi sulla rispondenza diretta o indiretta della cosa o della prestazione al pubblico interesse, secondo il nuovo corso giurisprudenziale, una volta provato l’oggettivo arricchimento da parte del depauperato, l’accipiens, P.A., sfugge alla condanna soltanto se dimostra di non averlo voluto o di non esserne stata consapevole. A questi risultati conduce una “lettura dell’istituto dell’arricchimento senza causa più aderente ai principi costituzionali e a quelli specifici della materia che assegnano una dimensione fattuale di evento oggettivo all’arricchimento di cui all’art. 2041 c.c., e alla relativa azione una funzione di rimedio generale a situazioni giuridiche altrimenti ingiustamente private di tutela, tutte le volte che tale tutela non pregiudichi in alcun modo le posizioni, l’affidamento, la buona fede dei terzi (cfr. Cass. Sez. Un., 8 dicembre 2008, n. 24772). In tale prospettiva il diritto fondamentale di azione del depauperato può adeguatamente coniugarsi con l’esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento dell’attività amministrativa, affidando alla stessa Pubblica Amministrazione l’onere di eccepire e provare il rifiuto dell’arricchimento o l’impossibilità del rifiuto per la sua inconsapevolezza (c.d. arricchimento imposto)”.

E le esigenze pubblicistiche di tutela delle finanze pubbliche, degradate in qualche modo, ad “espediente giurisprudenziale”, sono ritenute adeguatamente coniugabili con la tutela dell’affidamento del depauperato, offrendo all’arricchito la facoltà di provare di aver rifiutato l’arricchimento o di non averlo potuto rifiutare, perchè inconsapevole dell’eventum utilitatis.

Applicando tali principi alle prestazioni sanitarie extra budget, questa Corte ha avuto occasione di precisare che l’arricchimento imposto non è un presupposto sostitutivo del riconoscimento della utilitas da parte dell’arricchito; al contrario, “l’imposizione non comporta indennizzo alcuno a chi l’imposizione ha effettuato, secondo i principi generali contrari alla coazione/costrizione nei rapporti tra i soggetti (…). Diversamente, lo strumento indennitario dell’art. 2041 c.c., anzichè ripianare una situazione che ha perduto un corretto equilibrio economico, servirebbe per abusare delle capacità patrimoniali del soggetto cui l’indennizzo viene richiesto”.

Al fine di ravvisare l’imposizione è sufficiente che la P.A. abbia deliberato un tetto di spesa, adempiendo ai suoi obblighi di legge di “sana gestione delle finanze pubbliche” e lo abbia comunicato agli interessati; in ciò ravvisandosi “inequivocamente il suo diniego di una spesa superiore, ovvero la sua volontà contraria a prestazioni ulteriori rispetto a quelle il cui corrispettivo sarebbe rientrato nel limite di spesa”: Cass. 24/04/2019, n. 12129.

Sulla scorta di tale indirizzo è stata ritenuta irrilevante, ad esempio, l’impossibilità di dimettere i pazienti lungodegenti, perchè ove si desse rilievo a tale circostanza “si costruirebbe un vero e proprio espediente per aggirare il limite di spesa: fornire prestazioni oltre il limite di spesa renderebbe poi dovuto ugualmente il corrispettivo, soltanto sostituendogli l'”etichetta” giuridica: da adempimento d’obbligo nel sussistente rapporto a indennizzo ex art. 2041 c.c.. E così la normativa che impone un limite di spesa verrebbe neutralizzata, contro il principio ermeneutico della conservazione, in quanto non esplicherebbe più alcun effetto di controllo delle pubbliche finanze” e “l’entità delle spese pubbliche sarebbe rimessa alle scelte di strutture private, anche se accreditate: il che è chiaramente insostenibile”: Cass. 2019/12129, cit..

Il quid pluris dedotto nel caso di specie è che le prestazioni extra budget erogate non fossero state il risultato di una scelta della ricorrente, bensì l’effetto di una specifica richiesta rivoltale da alcuni Pronto soccorso di Ospedali pubblici che avevano chiesto per iscritto il trasferimento di taluni pazienti per carenza di posti letto; in altri casi si era trattato di ricoveri urgenti per parti, aborti, interventi oncologici salva vita (tipologia di prestazioni extra budget sì, ma rientranti nella tipologia di quelle programmate).

Tali circostanze risultano confermate, tant’è che le argomentazioni difensive della Regione Lazio (p. 23 del controricorso) e dell’Azienda Sanitaria Locale Roma 3 (p. 13 del controricorso) attribuiscono rilievo alla circostanza che struttura convenzionata avrebbe dovuto rifiutare i pazienti, oppure avvertire gli stessi che potevano prestare loro le cure dovute, ma non in regime convenzionato. A quel punto l’utente avrebbe potuto scegliere se rimanere nella struttura privata o servirsi della struttura pubblica.

L’interrogativo, dunque, è se le prestazioni richieste fossero rifiutabili.

La risposta è affermativa e discende oltre che dal fatto che le strutture private accreditate non hanno l’obbligo di erogare prestazioni sanitarie, come già rilevato, dal fatto che la richiesta, pur scritta di trasferimento dei degenti, non integrava una volontà di impegnarsi da parte della P.A. a remunerare la prestazione extra budget, tenuto conto della necessaria subordinazione degli impegni economici degli enti pubblici al rispetto delle competenze amministrative degli organi deliberanti e degli oneri di forma previsti dalla legge (Cass. 05/07/2018, n. 17600).

E quanto alle prestazioni indifferibili ed urgenti, assume rilievo, in senso opposto a quanto invocato dalla ricorrente, quanto precisato di recente da questa Corte a Sezioni unite, vale a dire che il fatto che il soggetto privato accreditato contribuisca alla “realizzazione dell’interesse pubblico, di rango costituzionale, alla salute dei cittadini e che l’attività sanitaria esercitata dalla struttura o dal professionista accreditati si concreti nell’erogazione di un servizio pubblico” non oltrepassa un dato oggettivo: “il suo esercizio è sottoposto al potere di direzione e di controllo dell’amministrazione ed è remunerato con risorse pubbliche (…)”.

In altri termini, se è innegabile che “l’instaurazione del rapporto concessorio di accreditamento comporta, in buona sostanza, l’inserimento dell’accreditato, in modo continuativo e sistematico, nell’organizzazione della P.A. relativamente al settore dell’assistenza sanitaria (…)”, la natura di soggetto accreditato non costituisce vincolo per le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale a corrispondere la remunerazione delle prestazioni erogate al di fuori degli accordi assunti: Cass., Sez. Un., 18/06/2019, n. 16336.

Se ne conclude che nel caso in esame l’arricchimento arrecato alla P.A. deve ritenersi imposto, nel senso che alla qualificazione “imposto” deve essere dato alle stregua delle coordinate normative ed interpretative dianzi evidenziate. Pertanto, pur dovendosi correggere la motivazione della sentenza gravata nella parte in cui ha dimostrato di aver inteso l’imposizione dell’arricchimento pressochè coincidente con l’inesistenza di un risultato utile per la P.A., i motivi numeri tre e quattro del ricorso non meritano accoglimento.

7. Il ricorso va rigettato.

8. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

9. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti per porre a carico della società ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della Asl Roma (OMISSIS) e della Regione Lazio, liquidandole, rispettivamente, in Euro 12.000,00 ed in Euro 9.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019

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