Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2760 del 06/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 06/02/2020, (ud. 04/07/2019, dep. 06/02/2020), n.2760

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23771-2017 proposto da:

D.C.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SIRTE

55, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO LUIGI EPIFANIO, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

D.C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIO

QUIRINO VISCONTI 55, presso lo studio dell’avvocato MARIA GIUSEPPINA

LO IUDICE, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO COLACI;

– controricorrente –

contro

DI.CO.AN.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 750/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 19/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 04/07/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA

FALASCHI.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Vibo Valentia – Sezione distaccata di Tropea, con sentenza n. 126 del 2012, rigettava la domanda di reintegra nella servitù di passaggio proposta da D.C.A. e dal figlio Di.Co.An. nei confronti di D.C.A.M., per difetto di prova del possesso da parte dei ricorrenti.

A seguito di appello interposto dai D.C., la Corte di appello di Catanzaro, con sentenza n. 750 del 2017, accoglieva parzialmente la domanda attorea e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, in accoglimento della domanda di reintegrazione nel possesso, ordinava a D.C.M. l’immediata demolizione delle opere che impedivano il passaggio e la restituzione delle chiavi del cancello da cui si accedeva alla proprietà della stessa parte appellata.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Catanzaro la D.C. propone ricorso per cassazione, fondato su un unico motivo.

D.C.A. resiste con controricorso, rimasto intimato Di.Co.An..

Ritenuto che il ricorso potesse essere respinto, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata alle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Atteso che:

– con l’unico motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 342 c.p.c. e la nullità del procedimento. In particolare, ad avviso della ricorrente, la corte territoriale avrebbe erroneamente respinto l’eccezione di inammissibilità del gravame benchè fosse privo dei requisiti richiesti dal D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni dalla L. n. 134 del 2012.

Il motivo è infondato.

E’ preliminare l’analisi del motivo di parte ricorrente, per poi contestarne il contenuto.

La D.C. sostiene che l’atto di appello proposto dai ricorrenti sarebbe inammissibile poichè avrebbe dovuto “indicare esattamente al giudice quali parti del provvedimento impugnato si intendono sottoporre a riesame e per tali parti quali modifiche si richiedono rispetto a quanto formato oggetto della ricostruzione del fatto compiuta dal primo giudice” (v. pag. 8 del ricorso) e d’altro lato limitandosi a lamentare l’erroneità della valutazione delle risultanze istruttorie, risulterebbe “assente qualunque cosiddetto progetto alternativo di sentenza” (v. pag. 10 del ricorso).

Come già stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte, si tratta di una tesi insostenibile, per tre ragioni.

La prima ragione è che il nostro processo civile è caratterizzato da un “assetto teleologico delle forme”: secondo l’art. 156 c.p.c., comma 3, infatti, la nullità d’un atto processuale non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato. Pur non riguardando questa un’ipotesi di nullità ma di inammissibilità dell’atto di appello, l’art. 156 c.p.c., comma 3, è tuttavia espressione di un principio generale sotteso dall’ordinamento processuale, che l’interprete non può ignorare. Da questo principio discende che, anche quando si debba giudicare dell’ammissibilità d’una impugnazione, il giudicante deve badare alla sostanza ed al contenuto effettivo dell’atto.

La seconda ragione è che le norme processuali, se ambigue, vanno interpretate in modo da favorire una decisione nel merito, non essendo strumenti deflattivi. Le regole processuali infatti costituiscono solo lo strumento per garantire la giustizia della decisione, non il fine stesso del processo. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite di questa Corte nella decisione n. 26242 del 2014, in cui è stato statuito il superamento “dell’assunto della inossidabile primazia del rito rispetto al merito”, soggiungendo che tra più ragioni di rigetto della domanda, il giudice dovrebbe optare per quella che assicura il risultato più stabile: sicchè tra un rigetto per motivi di rito e uno per ragioni afferenti al merito, il giudice dovrebbe scegliere il secondo.

La terza ragione è che anche il diritto processuale, come quello sostanziale, non può non essere interpretato alla luce delle regole sovranazionali imposte dal diritto comunitario. Tra queste vi è l’art. 6 Trattato sull’Unione Europea, comma 3 (c.d. “Trattato di Lisbona”, ratificato e reso esecutivo con L. 2 agosto 2008, n. 130), il quale stabilisce che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convezione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…) fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Per effetto di tale norma, dunque, i principi della CEDU sono stati “comunitarizzati”, e sono divenuti “principi fondanti dell’Unione Europea”. Tra i principi sanciti dalla CEDU vi è quello alla effettività della tutela giurisdizionale e nell’interpretare tale norma, la Corte di Strasburgo (CEDU) ha ripetutamente affermato che siffatto principio va inteso nel senso che la domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile, essere esaminata sempre e preferibilmente nel merito (Cass., ord., 20 marzo 2018 n. 13535).

I principi sin qui richiamati, sono stati di recente ribaditi dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 27199 del 2017, secondo cui deve concludersi che l’art. 342 c.p.c., nella sua attuale formulazione non esiga dall’appellante alcun “progetto alternativo di sentenza”, diversamente da quanto asserito dalla ricorrente.

D’altronde è pacifico in giurisprudenza che, nel processo civile d’appello, la struttura devolutiva del giudizio di impugnazione non determina alcuna inversione dell’onere della prova a carico del convenuto soccombente in primo grado, il quale, proponendo appello, non deve provare l’insussistenza dei fatti costitutivi della domanda attorea, ma è tenuto soltanto a dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, mediante una precisa e ben argomentata critica della decisione impugnata, formulando pertinenti ragioni di dissenso in relazione alla operata ricostruzione dei fatti ovvero alle questioni di diritto trattate (Cass. 21 agosto 2018 n. 20836).

Di tutto ciò la Corte di appello ha fatto buon governo, fornendo dei motivi di appello una interpretazione compatibile con le difese avanzate rispetto alla proposta domanda di reintegrazione nel possesso, alla luce delle valutazioni effettuate dal giudice di primo grado.

Il ricorso va dunque respinto.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al T.U. di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in favore del controricorrente in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 4 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 febbraio 2020

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