Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2760 del 06/02/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 2760 Anno 2014
Presidente: MIANI CANEVARI FABRIZIO
Relatore: BANDINI GIANFRANCO

SENTENZA

sul ricorso 5368-2013 proposto da:
97103880585, in persona del

POSTE ITALIANE S.P.A. C.

legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo
studio dell’avvocato STUDIO TRIFIRO’ & PARTNERS,
rappresentata
2013

e

difesa

TRIFIRO’

dall’avvocato

SALVATORE, giusta delega in atti;
– ricorrente –

3656

contro

ZAMANA MALCI, C.F. ZMNMLCC71C65C967F, domiciliata in
ROMA,

VIA

CRESCENZIO

58,

presso

lo

studio

Data pubblicazione: 06/02/2014

dell’avvocato COSSU BRUNO, che la rappresenta e
difende unitamente agli avvocati SQUILLACE ETTORE,
BOMBOI SAVINA, giusta delega in atti;
– controricorrente –

– avverso la sentenza non definitiva n. 501/2011 della

R.G.N. 617/2008;

avverso la sentenza definitiva n. 398/2012 della

CORTE D’APPELLO DI VENEZIA, depositata il
3/08/2012 R.G.N. 617/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 12/12/2013 dal Consigliere Dott.
GIANFRANCO BANDINI;
udito l’Avvocato GIUA LORENZO per delega TRIFIRO’
SALVATORE;
udito l’Avvocato COSSU BRUNO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ENNIO ATTILIO SEPE, che ha concluso per
l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione

CORTE D’APPELLO DI VENEZIA, depositata il 24/08/2011

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza non definitiva del 21.6-24.8.2011 e successiva
sentenza definitiva del 5.6-23.8.2012, la Corte d’Appello di Venezia,
in accoglimento del gravame svolto da Zamana Malci nei confronti
della Poste Italiane spa, dichiarò la nullità del termine apposto al
contratto a tempo determinato stipulato inter partes per il periodo
3.6-4.9.1999 e, per l’effetto, dichiarò l’avvenuta instaurazione di un
contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con condanna
della parte datoriale alla riammissione in servizio della lavoratrice; in
applicazione dell’art. 32 legge n. 183/10, in relazione al periodo fino
al deposito del ricorso di primo grado, condannò la parte datoriale
alla corresponsione di un’indennità pari a tre mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, oltre accessori dalla data del deposito
del ricorso di primo grado, nonché al pagamento, in relazione al
periodo successivo e fino all’8.7.2011, delle mancate retribuzioni,
oltre accessori dalle singole scadenze al saldo, con detrazione
dell’aliunde perceptum in relazione ai rapporti di lavoro instaurati in

tale secondo periodo e come documentati in atti dall’appellante.
Avverso le suddette sentenze della Corte territoriale, la Poste
Italiane spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su sei motivi
e illustrato con memoria.

2

Ì

MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente allo svolgimento dei motivi, la ricorrente ha
dedotto che la lavoratrice si era espressamente dichiarata
disinteressata al ripristino del rapporto di lavoro, delegando il proprio
difensore a dichiarare a verbale l’intervenuta risoluzione del rapporto
alla data dell’8.7.2011, ed ha chiesto che fosse dichiarata la
cessazione della materia del contendere in merito a detto ripristino.

1.1 Tale istanza è inaccoglibile, poiché la declaratoria di cessazione
della materia del contendere, quale conseguenza della sopravvenuta
carenza di interesse alla pronuncia, presuppone il venir meno delle
ragioni di contrasto fra le parti, ciò che non si verifica nel caso di
specie, essendo stata la decisione che ha ordinato la riammissione
in servizio pronunciata in data (21.6.2011) anteriore a quella indicata
come di risoluzione del rapporto ed essendo tale ordine di
riassunzione derivato dalla ritenuta nullità della clausola appositiva
del termine e dalla consequenziale conversione del rapporto a
termine in rapporto a tempo indeterminato, questioni su cui tuttora si
controverte.
2. La Corte territoriale, andando di contrario avviso rispetto a quanto
deciso in prime cure, ha ritenuto non ravvisabile nella specie la

L’intimata Zamana Malci ha resistito con controricorso.

l’elemento temporale costituito dal decorso di un considerevole lasso
di tempo intercorrente tra l’ultimo rapporto a termine e l’offerta della
prestazione lavorativa, con relativa messa in mora, non fosse
supportato da altri elementi che consentissero di configurare tale
inerzia della lavoratrice come univocamente significativa della sua
volontà risolutoria e del suo disinteresse al ripristino.
2.1 Tale statuizione è stata censurata con il primo mezzo; la
ricorrente, denunciando violazione dell’art. 1372, comma 2, cc,
sostiene infatti che, nel caso di specie, la protrazione dell’inerzia per
quattro anni e tre mesi avrebbe dovuto essere qualificata come
implicita manifestazione di consenso alla risoluzione del rapporto.
2.2 Secondo la giurisprudenza di questa Corte, con principio
affermato ai sensi dell’art. 360 bis cpc, nel giudizio instaurato ai fini
del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a
tempo indeterminato sul presupposto dell’illegittima apposizione di
un termine a numerosi contratti intervallati da periodi di inattività, é
necessario, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto
per mutuo consenso, che sia accertata – sulla base del lasso di
tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali

fattispecie negoziale risolutoria per mutuo consenso, sul rilievo che

porre fine ad ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che, a tal
fine, non è sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo la
scadenza del contratto, né l’accettazione del trattamento di fine
rapporto e la mancata offerta della prestazione, né la mera ricerca di
occupazione a seguito della perdita del lavoro per causa diversa
dalle dimissioni; la valutazione del significato e della portata del
complesso degli elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui
conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità, se non
sussistono vizi logici o errori di diritto (cfr, ex plurimis, Cass., n.
16287/2011).
Correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha ritenuto che il
mero decorso del tempo tra la cessazione dell’ultimo contratto a
termine e l’offerta della prestazione lavorativa non costituisse, in
difetto di altri elementi di giudizio in tal senso, circostanza
univocamente significativa di una volontà risolutoria da parte della
lavoratrice.
Il motivo all’esame non può pertanto essere accolto.
3. Il contratto in relazione al quale è stata ritenuta l’illegittimità
dell’apposizione del termine è stato stipulato a norma dell’art. 8 del
CCNL 26 novembre 1994 e, in particolare, in base alla previsione

circostanze significative – una chiara e comune volontà delle parti di

ipotesi legittimante la stipulazione di contratti a termine, la presenza
di esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e di
rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della
graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione
di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo
equilibrio sul territorio delle risorse umane.

La Corte territoriale ha attribuito rilievo decisivo al fatto che, avendo
le parti collettive raggiunto un’intesa originariamente priva di termine,
le stesse avevano stipulato accordi attuativi che avevano fissato un
limite temporale alla possibilità di procedere con assunzioni a
termine, limite fissato al 30 aprile 1998; i contratti, come quello di
specie, conclusi fino al dicembre 2000 in epoca successiva al
suddetto termine, erano quindi illegittimi in quanto privi del supporto
derogatorio.
3.1 L’impostazione seguita dalla Corte territoriale è stata ampiamente
censurata dalla Società ricorrente con il secondo, terzo e quarto
mezzo, da esaminarsi congiuntamente siccome fra loro connessi; la
ricorrente contesta, in particolare, l’interpretazione data dalla Corte di
merito al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997 ed agli

dell’accordo integrativo del 25 settembre 1997, che prevede, quale

questi ultimi accordi avevano natura meramente ricognitiva.

3.2 Osserva il Collegio che le considerazioni della Corte territoriale in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato dalla
giurisprudenza di legittimità (con riferimento al sistema vigente
anteriormente al CCNL del 2001 ed al dl.vo n. 368/01) – è sufficiente
a sostenere sul punto l’impugnata decisione.
Al riguardo, sulla scia di Cass., SU, n. 4588/2006, è stato precisato
che l’attribuzione alla contrattazione collettiva, ex art. 23 legge n.
56/87, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine
rispetto a quelli previsti dalla legge n. 230/62, discende dall’intento
del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali
sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i
lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite
della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere
a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e
prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche
di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a
condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di
fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al
datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato (cfr,

accordi dalla stessa definiti come attuativi; deduce in particolare che

ex plurimis, Cass., nn. 21063/2008; n. 9245/2006; 4862/2005;

14011/2004); ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a
favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari,
non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque
omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul
medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi
nel sistema da questa delineato (cfr,

ex plurimis, Cass., nn.

21062/2008; 18378/2006).
In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite
temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi
integrativi del contratto collettivo) la sua inosservanza determina la
nullità della clausola di apposizione del termine (cfr, ex plurimis,
Cass., nn. 18383/2006; 7745/2005; 2866/2004).
In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente
affermato e come va anche qui ribadito, in materia di assunzioni a
termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25
settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del CCNL 26 novembre 1994,
e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio
1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della
situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica
dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e

3

alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la
legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998,
per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore
conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo
indeterminato, in forza dell’art. 1 legge n. 230/62 (cfr, ex plurimis,
Cass., nn. 20608/2007; 28450/2008; 21062/2008; 7979/2008;
18378/2006).
In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi
precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr,
ex plurimis, Cass., nn. 6703/2007; 15969/2005), i motivi all’esame
vanno quindi respinti.
4. La Corte territoriale ha ritenuto che la declaratoria della nullità
della clausola appositiva del termine comportasse la trasformazione
del rapporto a tempo indeterminato.
4.1 Con il quinto mezzo la ricorrente ha censurato tale conclusione,
denunciando violazione dell’art. 1419, comma 1, cc in relazione
all’art. 1 dl.vo n. 368/01, ed assumendo che in tale decreto
legislativo, a differenza che nella disciplina previgente di cui all’art. 1,
comma 1, legge n. 230/62, non era contenuta una disposizione che
la legittimasse.

rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino

la fattispecie dedotta in giudizio, afferente ad un contratto stipulato
nel 1999, per quanto qui specificamente rileva è regolata, ratione
temporis,

dalla legge n. 230/62 e non già dalle successive

disposizioni di cui al dl.vo n. 368/01.
5. La Corte territoriale, ponendosi in consapevole dissenso dalla
giurisprudenza di legittimità e richiamando conformi decisioni di altri
giudici di merito, ha ritenuto che l’indennità di cui all’art. 32, comma
5, legge n. 183/10 coprisse il periodo dalla cessazione del rapporto
alla data di deposito del ricorso di primo grado.
5.1 Tale impostazione è stata censurata con il sesto mezzo,
invocando la ricorrente, in particolare, la disposizione di
interpretazione autentica del ridetto art. 32, comma 5, legge n.
183/10 di cui all’art. 1, comma 13, legge n. 92/12, in base al quale
“La disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 32 della legge 4
novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l’indennità ivi
prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore,
comprese le conseguenze retributive e contributive relative al
periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del
provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione
del rapporto di lavoro”.

4.211 motivo è manifestamente infondato, per l’assorbente rilievo che

censure svolte alla luce della testé ricordata norma di interpretazione
autentica, ha dedotto l’inaccoglibilità del motivo, stante l’illegittimità
costituzionale dell’art. 32, comma 7, legge n. 183/10, per asserita
violazione degli artt. 3, 36, 38 e 117 della Costituzione in relazione
all’ad. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo,
assumendo che, in difetto di giustificazioni sul piano della
ragionevolezza e dell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di
rilievo costituzionale, il legislatore non avrebbe potuto disporre con
efficacia retroattiva dei diritti retributivi e previdenziali, di rilievo
costituzionale, già entrati nel patrimonio del lavoratore.
5.3 Premesso che, giusta la previsione del ridetto ad. 32, comma 7,
primo periodo, legge n. 183/10, “Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6
trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti
alla data di entrata in vigore della presente legge”, è di piana

evidenza che l’efficacia retroattiva della norma è limitata a quelle
situazioni in cui, in ordine ai diritti derivanti al lavoratore dalla nullità
della clausola di apposizione del termine (con conseguente
conversione del rapporto a tempo indeterminato), non si è ancora
formato il giudicato, vuoi perché sia ancora in discussione la stessa
legittimità della clausola, vuoi perché siano ancora sub judice quanto

5.2 La controricorrente, pur riconoscendo la fondatezza delle

risarcitorio, da parametrarsi, secondo la disciplina previgente, alle
retribuzioni non corrisposte a far tempo dalla costituzione in mora del
datore di lavoro (salvo l’eventuale

aliunde perceptum), con le

correlate obbligazioni contributive.
Ed invero, come questa Corte ha già avuto più volte modo di
affermare in relazione alla possibile applicazione nel giudizio di
cassazione della novella all’esame, è necessario che quest’ultima
sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di
censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità,
il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr, per tutte,
Cass. 8 maggio 2006 n. 10547).
Restano quindi escluse dalla portata retroattiva della norma di cui qui
si discute le situazioni in ordine alle quali si sia già formato il
giudicato.
Deve allora convenirsi che l’assunto su cui la controricorrente fonda
la svolta eccezione di illegittimità costituzionale, ossia che la norma
di portata retroattiva avrebbe (irragionevolmente) disposto di diritti
retributivi e previdenziali, di rilievo costituzionale, già entrati nel
patrimonio del lavoratore è palesemente insussistente, trattandosi di
posizioni giuridiche ancora oggetto di controversia.

meno le conseguenze che da tale nullità discendono sul piano

disposizione di cui alla ricordata norma di interpretazione autentica
del comma 5, applicabile, stante l’espresso richiamo, anche nelle
situazioni processuali di cui al successivo comma 7, che la disciplina
che ha introdotto la forfetizzazione del danno, come tale inerente a
quei diritti retributivi e previdenziali di cui qui si eccepisce
l’ingiustificato sacrificio, è già stata oggetto di disamina da parte della
Corte Costituzionale, che ne ha ritenuto la ragionevolezza siccome
“nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei
contrapposti interessi” (cfr, Corte Costituzionale, n. 303/2011).
Inoltre va considerato che, dalla giurisprudenza della Corte
Costituzionale (cfr, ex plurimis, Corte Costituzionale, n. 257/2011),
sono enucleabili i seguenti principi:
– il divieto di retroattività della legge non è stato elevato a dignità
costituzionale, salva, per la materia penale, la previsione dell’art. 25
della Costituzione, per cui il legislatore, nel rispetto di tale previsione,
può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che
determinano la portata precettiva della norma interpretata, fissandola
in un contenuto plausibilmente già espresso dalla stessa, sia norme
innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi

Deve poi considerarsi, con specifico riferimento alla correlata

contrasti con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti;

la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non

può dirsi irragionevole qualora si limiti ad assegnare alla disposizione
interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come
una delle possibili letture del testo originario;

con riferimento ai rapporti tra l’art. 117, primo comma,

Costituzione e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo, e, in particolare, con riguardo all’art. 6
della CEDU, la Corte di Strasburgo non ha inteso enunciare un
divieto assoluto d’ingerenza del legislatore, dal momento che, in
varie occasioni, ha ritenuto non contrari al suddetto art. 6 particolari
interventi retroattivi dei legislatori nazionale, affermando la regola (cfr
la sentenza della seconda sezione in data 7 giugno 2011, in causa
Agrati ed altri c/ Italia) secondo cui, “Se, in linea di principio, il
legislatore può regolamentare in materia civile, mediante nuove
disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi già vigenti, il
principio della preminenza del diritto e la nozione di equo processo
sancito dall’articolo 6 ostano, salvo che per ragioni imperative
d’interesse

generale,

all’ingerenza

del

legislatore

nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la

adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non

comporta l’obbligo di offrire ad ogni parte una ragionevole possibilità
di presentare il suo caso, in condizioni che non comportino un
sostanziale svantaggio rispetto alla controparte”;

– con la conseguenza che, anche secondo la suddetta regola,
“sussiste lo spazio per un intervento del legislatore con efficacia
retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.). Diversamente, se ogni
intervento del genere fosse considerato come indebita ingerenza allo
scopo d’influenzare la risoluzione di una controversia, la regola
stessa sarebbe destinata a rimanere una mera enunciazione priva di
significato concreto” (cfr, Corte Costituzionale, n. 257/2011, cit.).

Nel caso in esame, sulla base di questi principi, l’art. 1, comma 13,
legge n. 92/12 non può, a sua volta, suscitare dubbi di contrarietà
alla Costituzione, perché esso:
– costituisce una disposizione di carattere generale, che, al pari
delle disposizioni di cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n. 183/10,
non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in
mano pubblica), perché le controversie su cui essa è destinata ad
incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro
precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di
lavoro subordinato a termine;

risoluzione di una controversia. L’esigenza della parità delle armi

– ha enucleato una delle possibili opzioni ermeneutiche
dell’originario testo normativo, già accolta dalla giurisprudenza della
Corte Costituzionale (cfr, Corte Costituzionale, n. 303/2011, cit.,
secondo cui “Un’interpretazione costituzionalmente orientata della
novella, però, induce a ritenere che il danno forfetizzato
dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto
“intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino
alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione
del rapporto”) e dalla giurisprudenza di legittimità (cfr, ex plurimis,

Cass., nn. 3056/2012; 9023/2012);

ha superato una situazione di oggettiva incertezza derivante dal

suo ambiguo tenore, evidenziata dai diversi indirizzi interpretativi tra
una parte della giurisprudenza di merito, di cui sono
esemplificativamente espressione la stessa sentenza qui impugnata
e le altre ivi richiamate, e quella di legittimità testé ricordata;

non ha inciso su posizioni giuridiche, di natura retributiva e

previdenziale, definitivamente acquisite;

non ha inteso realizzare una illecita ingerenza del legislatore

nell’amministrazione della giustizia, allo scopo d’influenzare la
risoluzione di controversie, posto che, in realtà, ha fatto propria una

4I

soluzione già adottata dalla ricordata giurisprudenza costituzionale e
di legittimità;

non è dato ravvisami profili di irragionevolezza, posto che,

nell’esercizio del potere discrezionale in via di principio spettante al
legislatore, la finalità di superare un conclamato contrasto di
giurisprudenza, destinato peraltro a riproporsi in un gran numero di
giudizi, essendo diretta a perseguire un obiettivo d’indubbio interesse
generale qual’è la certezza del diritto, è configurabile come ragione
idonea a giustificare l’intervento di interpretazione autentica.
Deve quindi concludersi per la manifesta infondatezza dell’eccezione
di illegittimità costituzionale sollevata dalla controricorrente.
5.4L’applicabilità al caso di specie della ridetta norma di
interpretazione autentica, di contenuto difforme rispetto all’opzione
ermeneutica seguita nella sentenza impugnata, comporta
l’accoglimento del motivo all’esame.

6. In definitiva soltanto il sesto motivo di ricorso merita
accoglimento, mentre i restanti vanno rigettati; per l’effetto la
sentenza definitiva va cassata in relazione alla censura accolta.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la controversia
può essere decisa nel merito, dichiarando che l’indennità già
liquidata copre il periodo dalla scadenza del termine fino alla data di

5

la ricostituzione del rapporto di lavoro e condannando la parte
datoriale al pagamento di tale indennità, oltre interessi legali e
rivalutazione monetaria dalla data suddetta, e delle mancate
retribuzioni per il periodo successivo a tale data e fino all’8.7.2011,
oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze
al saldo, con detrazione dell’aliunde perceptum in relazione ai
rapporti di lavoro instaurati in tale secondo periodo e documentati in
atti.
L’esito fra loro difforme delle pronunce di merito, la complessità delle
questioni trattate e la rilevanza decisiva assunta dallo

ius

superveniens consigliano la compensazione delle spese per l’intero
processo.

P. Q. M.
La Corte accoglie il sesto motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la
sentenza definitiva impugnata in relazione alla censura accolta e,
decidendo nel merito, dichiara che l’indennità già liquidata copre il
periodo dalla scadenza del termine fino alla data di pronuncia
(21.6.2011) della sentenza non definitiva che ha ordinato la
ricostituzione del rapporto di lavoro e condanna la parte datoriale al
pagamento di tale indennità, oltre interessi legali e rivalutazione

pronuncia (21.6.2011) della sentenza non definitiva che ha ordinato

periodo successivo a tale data e fino all’8.7.2011, oltre interessi
legali e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo, con
detrazione dell’aliunde perceptum in relazione ai rapporti di lavoro
instaurati in tale secondo periodo e documentati in atti; spese
dell’intero processo compensate.
Così deciso in Roma il 12 dicembre 2013.

monetaria dalla data suddetta, e delle mancate retribuzioni per il

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