Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27592 del 29/10/2019

Cassazione civile sez. III, 29/10/2019, (ud. 11/04/2019, dep. 29/10/2019), n.27592

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9995-2017 proposto da:

(OMISSIS) SPA, F.G., elettivamente domiciliati in ROMA,

PIAZZA GONDAR 22, presso lo studio dell’avvocato MARIA ANTONELLI,

rappresentati e difesi dagli avvocati ANDREA BENINI, GIANLUCA MOTTA;

– ricorrenti –

contro

A.C., D.E., C.S.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CRESCENZIO 82, presso lo

studio dell’avvocato CHIARA FAGIOLI, rappresentati e difesi

dall’avvocato GIOVANNI PATTAY;

– controricorrenti –

e contro

CASA DELLA LEGALITA’ E DELLA CULTURA ONLUS;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1039/2016 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 14/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/04/2019 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MARIA ANTONELLI per delega;

udito l’Avvocato MARZIA PASANINI per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

4 1. Nel 2012 F.G. e la società (OMISSIS) s.p.a. convennero dinanzi al Tribunale di Genova l’associazione “Casa della legalità ONLUS”, A.C., C.S. ed D.E., esponendo che:

-) F.G. è un imprenditore da molti anni; società da lui amministrate sono attive nel settore della ristorazione; la (OMISSIS) s.p.a. è una di questa società, gestore del servizio di buoni pasto per molte pubbliche amministrazioni;

-) la Casa della Legalità (d’ora innanzi, per brevità, “la CdL”) è una ONLUS, di cui gli altri convenuti sono, rispettivamente, presidente e membri del consiglio di presidenza;

-) nel 2009 e nel 2010 sul sito web della CdL erano apparsi due articoli calunniosi nei confronti dell’attore e delle società da lui amministrate, nei quali in sostanza si insinuava che questi fosse persona vicina alla criminalità organizzata, e segnatamente alla ‘ndrangheta calabrese;

-) la CdL ed i suoi amministratori, per questi fatti, vennero convenuti in un giudizio civile di danno;

-) quel giudizio si concluse nel 2011 con una transazione, per effetto della quale i convenuti si obbligarono a rettificare gli articoli pubblicati, a porgere le proprie scuse e ad impegnarsi, per il futuro, a rispettare i doveri di continenza e verità;

-) nonostante tale accordo, il 16.3.2012 la CdL aveva pubblicato sul proprio sito web un nuovo articolo nel quale “si reiteravano le gravissime ed infamanti affermazioni già pubblicate nei precedenti articoli”;

-) in tale articolo, in particolare, l’autore traeva spunto dalle motivazioni con le quali il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova aveva ordinato l’archiviazione del procedimento penale a carico dei convenuti, sorto dalla querela contro di essi sporta da F.G., per formulare varie affermazioni insinuanti e tendenziose, ed in particolare quella secondo cui la Direzione Investigativa Antimafia dava conto, in una propria relazione semestrale, dell’esistenza d’una “famiglia F.” a Genova reputata dagli investigatori un “terminale locale per operazioni di reinvestimento di denaro di illecita provenienza”, e che l’unica “famiglia F.” insediata a Genova era quella di F.G..

Conclusero perciò gli attori chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento del danno rispettivamente patito in conseguenza della suddetta pubblicazione.

2. Nella contumacia dei convenuti, il Tribunale di Genova accolse la domanda con sentenza 4.12.2013 n. 3750.

La sentenza del Tribunale, appellata dai soccombenti, venne riformata dalla Corte d’appello di Genova con sentenza 14.10.2016 n. 1039.

Con tale decisione la Corte d’appello ritenne che l’articolo pubblicato dalla CdL costituisse legittimo esercizio del diritto di critica; che in esso in sostanza veniva solo rivolta all’interessato una provocatoria domanda circa l’origine della sua fortuna; che effettivamente la famiglia F. era originaria di Taurianova (RC) e vi era a Genova una famiglia ” F.” oggetto di indagine da parte della DIA; che l’affermazione secondo cui la famiglia F. era a Genova un terminale di riciclaggio di denaro sporco era contenuta nella relazione della DIA, ed era stata solo riferita dall’articolista.

3. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da F.G. e dalla (OMISSIS) con ricorso fondato su cinque motivi, e corredato da una memoria nella quale è dichiarato il fallimento della (OMISSIS) s.p.a.

Hanno resistito con controricorso unitario, illustrato da memoria, la CdL e gli altri tre convenuti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Questioni preliminari.

1.1. Come accennato, con atto notificato ai controricorrenti in data 2.4.2019, il difensore della società (OMISSIS) ha reso noto alle altre parti l’avvenuto fallimento della propria assistita, “al fine di interrompere il processo”.

A tale atto è stata allegata la sentenza dichiarativa del fallimento, pronunciata dal Tribunale di Genova il 7.9.2018.

L’avvenuto fallimento della (OMISSIS), tuttavia, non riverbera effetti sul presente giudizio di legittimità.

Tale giudizio, infatti, è caratterizzato dall’impulso d’ufficio e non dall’iniziativa di parte, con la conseguenza che ad esso non sono applicabili le norme di cui agli artt. 299 e 300 c.p.c., ed il sopravvenuto fallimento del ricorrente non ne determina l’interruzione (così le Sezioni Unite di questa Corte, Sez. U, Ordinanza n. 17295 del 14/11/2003, Rv. 568194 – 01; nello stesso senso, ex multis, Sez. 1 -, Ordinanza n. 25603 del 12/10/2018).

2. Il primo motivo di ricorso.

2.1. Col primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione, da parte della Corte d’appello, del principio in virtù del quale l’esercizio del diritto di cronaca e di critica scrimina la lesione dell’altrui reputazione, quando sussista – tra l’altro – la verità putativa dei fatti narrati.

Sostengono che l’esercizio del diritto di cronaca e di critica può ritenersi legittimo nel solo caso in cui i fatti narrati siano veri, oppure la loro corrispondenza al vero sia stata verificata con l’ordinaria diligenza dall’autore dello scritto.

Nel caso di specie, però, ad avviso dei ricorrenti la Corte d’appello avrebbe ritenuto veri i fatti narrati nell’articolo, incorrendo in un duplice errore:

-) da un lato, non si sarebbe avveduta che il “fatto” narrato nell’articolo e assunto dagli attori come diffamatorio era ben diverso dal “fatto” riferito nella fonte di informazione, e cioè una delle relazioni semestrali diffuse dalla Direzione Investigativa Antimafia, nella specie relativa al secondo semestre del 2002. Mentre, infatti, nella relazione della DIA si affermava che una famiglia F. di Taurianova insediata a Genova era stata oggetto di indagine, nello scritto diffamatorio si affermava, od almeno si lasciava intendere, che la famiglia di F.G. fosse proprio quella oggetto di indagini da parte della DIA;

-) dall’altro lato, il principio di verità putativa non poteva nel caso di specie eliminare l’illiceità dello scritto, perchè quel principio può dirsi rispettato dall’autore soltanto quando questi abbia compiuto delle diligenti verifiche, che nel caso di specie non erano state minimamente compiute: in particolare lamentano i ricorrenti che l’articolo diffamatorio aveva stabilito una frettolosa identificazione tra la famiglia malavitosa di cui si parlava nella relazione DIA e la famiglia di F.G., senza considerare che la relazione DIA era anteriore di 10 anni rispetto allo scritto; senza compiere alcun controllo sulla fonte; senza indicare in base a quali accertamenti l’autore fosse giunto alla conclusione che a Genova esisteva una sola famiglia F. di Taurianova; e soprattutto senza tenere conto dell’intero contesto scrittorio nel quale le affermazioni calunniose erano contenute, ovvero un contesto estremamente allusivo.

2.2. Il motivo è fondato.

La Corte d’appello, infatti, ha applicato dei principi giuridici non coerenti con i fatti materiali che essa stessa ha dichiarato di avere accertato, e con la valutazione che essa stessa ha inteso darne.

2.2.1. In punto di fatto, la Corte d’appello di Genova ha accertato che:

-) il sito web gestito dalla CdL ha effettivamente pubblicato l’articolo che i ricorrenti assumono offensivo;

-) l’articolo affermava che “la famiglia del signor F.G. è un terminale locale per operazioni di reinvestimento di denaro di illecita provenienza” (virgolettato nella sentenza d’appello, p. 5);

-) l’articolo riferiva che tale informazione era contenuta in una relazione della Direzione Investigativa Antimafia;

-) nell’articolo si sosteneva che “era lecito dubitare” delle dichiarazioni con cui F.G. negava ogni rapporto con associazioni criminali;

-) l’articolista chiedeva provocatoriamente donde provenisse la ricchezza della famiglia di F.G., aggiungendo che l’unica famiglia ” F. di (OMISSIS)” residente a (OMISSIS) era quella di F.G..

2.2.2. Dopo avere riferito questi fatti, la Corte d’appello li ha valutati, reputando – con apprezzamento non censurato in via incidentale dai controricorrenti – che:

-) l’articolo in esame conteneva il “messaggio implicito ma inequivocabile” che alla domanda sull’origine della propria ricchezza F.G. non avesse mai risposto, perchè erano “vere le supposizioni e fondate le preoccupazioni”esposte dall’autore (e dunque l’articolo conteneva il messaggio che F.G. fosse sodale di una consorteria mafiosa);

-) l’articolo conteneva un “attacco obliquo al F., che allude in maniera indiretta ai suoi presunti contatti con la ‘ndrangheta calabrese”;

-) la concatenazione delle singole circostanze riferite dall’articolista non solo “sollevava dubbi inquietanti” sulla persona di F.G., ma dimostrava che per l’autore “vi era una sola risposta possibile”, formulata in modo “allusivo e provocatorio”.

La Corte d’appello, dunque, ha reputato in punto di fatto che l’articolo fosse allusivo; che l’allusione fosse inequivoca; che alla domanda “donde proviene la ricchezza di F.G.” l’autore dell’articolo riteneva “possibile una sola risposta”: il crimine.

2.3. Così ricostruiti i fatti di causa, la Corte d’appello ha poi ritenuto in punto di diritto:

-) che l’articolo suddetto era una lecita espressione del diritto di critica, fondata su fatti veri e rispettoso della continenza verbale;

-) che sussisteva infatti la verità putativa dei fatti narrati, perchè l’autore aveva attinto ad una fonte autorevole, cioè una relazione della Direzione Investigativa Antimafia;

-) che l’articolo non eccedeva la continenza verbale, e non conteneva affermazioni “immotivatamente ingiuriose e denigratorie”.

Queste regole giuridiche applicate dalla Corte d’appello, corrette in astratto, non sono state però coerenti con i fatti accertati: di qui il vizio di falsa applicazione della legge.

Per dar conto di ciò, questa Corte reputa opportuno ricordare brevemente quali siano le regole, e quali le eccezioni ad esse, in tema di responsabilità civile per lesione dell’altrui reputazione.

2.4. Il diritto all’onore ed alla reputazione è un diritto fondamentale della persona, così come la libertà di manifestazione del pensiero è una libertà fondamentale dell’individuo.

Quando quel diritto venga a confliggere con questa libertà, la prevalenza andrà assegnata all’uno od all’altra a seconda che sussistano o meno: l’interesse pubblico alla diffusione della notizia o dell’opinione; la verità putativa dei fatti narrati; la continenza delle espressioni adottate. Rispettate queste tre condizioni, il diritto all’onore sarà sempre recessivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero.

Il rispetto della verità putativa, tuttavia, non può dirsi sussistente sol perchè l’autore dello scritto che si assume offensivo abbia riferito una opinione altrui; nè il rispetto della continenza verbale può dirsi sussistente sol perchè il testo non contenga sconcezze.

Sia il giudizio sul rispetto della verità putativa; sia quello sul rispetto della continenza verbale, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, vanno compiuti senza limitarsi al mero dato formale ed estrinseco. Così come non rispetterebbe il limite della verità putativa il giornalista che si limitasse a giustificarsi d’una notizia calunniosa riferendo “me l’hanno detto, ed lo ci ho creduto”, allo stesso modo anche un testo privo di contumelie può, a certe condizioni, violare il limite della continenza verbale.

L’una e l’altra di tali evenienze, in particolare, possono verificarsi alle condizioni che seguono.

2.5. Iniziando dal limite della verità putativa, va ricordato che il giornalista o lo scrittore, il quale riferisca fatti lesivi della reputazione di terzi, non va incontro a responsabilità civile quando quei fatti, al momento in cui vennero appresi dall’autore, gli apparivano verosimili.

Perchè operi questa scriminante sono necessari due elementi, uno oggettivo e l’altro soggettivo.

Dal punto di vista oggettivo, è necessario che i fatti (poi rivelatisi) falsi fossero non manifestamente implausibili.

Dal punto di vista soggettivo, è necessario che l’autore dello scritto abbia compiuto “ogni sforzo diligente”, alla stregua della diligenza esigibile dal giornalista medio, secondo la previsione dell’art. 1176 c.c., comma 2, per accertare la verità di essi.

Se dovesse ritenersi che, all’esito di tali sforzi, quei fatti sarebbero apparsi verosimili a qualsiasi giornalista mediamente diligente, l’autore dello scritto sarà scriminato.

Se dovesse ritenersi che, all’esito dei suddetti sforzi, quei fatti sarebbero apparsi inverosimili od anche solo dubbi a qualsiasi giornalista mediamente diligente, l’autore dello scritto non sarà scriminato (così da ultimo, Sez. 3 -, Ordinanza n. 9799 del 09/04/2019, Rv. 653575 – 01; il principio, nondimeno, è risalente e consolidato: nello stesso senso, si vedano Sez. 1 -, Sentenza n. 22042 del 31/10/2016, Rv. 642637 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 18174 del 25/08/2014, Rv. 633036 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 23366 del 15/12/2004, Rv. 579085 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2066 del /i,13/02/2002, Rv. 552228 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 9391 del 24/09/1997, Rv. 508212 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 8284 del 16/09/1996, Rv. 499603 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 982 del 07/02/1996, Rv. 495761 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 90 del 11/01/1978, Rv. 389383 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1499 del 17/05/1972, Rv. 358172 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2117 del 13/06/1969, Rv. 341409 – 01).

Per stabilire se l’autore abbia diligentemente saggiato l’attendibilità della sua fonte di informazioni occorre avere riguardo a tutte le circostanze del caso, ed in particolare:

(a) la qualità della fonte di informazione del giornalista, giacchè il dovere di verifica da parte di quest’ultimo sarà tanto meno accurato, quanto più autorevole sia la fonte dell’informazione;

(b) la diffusività del mezzo col quale viene veicolata l’informazione da parte del giornalista, giacchè il suo dovere di controllo dovrà essere tanto più zelante, quanto maggiore sia la potenziale diffusività del mezzo d’informazione che intende adoperare.

2.5.1. Quando la fonte delle informazioni riferite dal giornalista sia un provvedimento giudiziario, un atto di indagine, un provvedimento amministrativo, il rigore nella valutazione della diligenza del giornalista si attenua, non essendo da questi esigibile un controllo sul merito dell’atto.

Ciò, però, non vuol dire che colui il quale riferisca fatti oggettivamente calunniosi, estratti da uno dei suddetti provvedimenti, possa ritenersi sempre e comunque esente da responsabilità.

In particolare, colui il quale riferisca fatti appresi da una fonte del suddetto tipo, ha sempre e comunque il dovere:

(a) di dare conto chiaramente che si tratta di fatti riferiti da terzi, e non di fatti direttamente noti al giornalista (Sez. 3, Sentenza n. 2751 del 08/02/2007, Rv. 595795 – 01);

(b) di non tacere altri fatti, di cui egli sia a conoscenza, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato (Sez. 3, Sentenza n. 14822 del 04/09/2012, Rv. 623667 01), come ad esempio nel caso l’articolista taccia sul fatto che le indagini di cui si dà conto risalivano a molti anni addietro (Sez. 3, Sentenza n. 11259 del 16/05/2007, Rv. 596456 – 01);

(c) di non accompagnare i fatti riferiti con sollecitazioni emotive, sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore false rappresentazioni della realtà (Sez. 3, Sentenza n. 14822 del 04/09/2012, Rv. 623667 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16917 del 20/07/2010, Rv. 614230 – 01).

I suddetti precetti vanno osservati dal giornalista in quanto costituiscono presidio della presunzione di non colpevolezza, la quale impedisce al giornalista di suscitare ad arte nel lettore la ferma opinione che una persona non condannata debba reputarsi colpevole (Sez. 3, Sentenza n. 22190 del 20/10/2009, Rv. 610311 – 01).

2.5.2. La valutazione della diligenza con cui il giornalista ha accertato la verità putativa dei fatti, in secondo luogo, deve avvenire tenendo conto anche della potenziale diffusività del mezzo di comunicazione utilizzato. Mezzi di comunicazione a diffusione potenzialmente universale ed incontrollabile, come la televisione e, a maggior ragione, il web, richiedono una diligenza di grado massimo nell’accertamento della verità putativa da parte del giornalista, in considerazione della maggiore potenzialità offensiva della diffusione di notizie non vere (Sez. 3, Sentenza n. 7154 del 11/06/1992, Rv. 477670 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1147 del 04/02/1992, Rv. 475548 – 01).

2.5.3. In conclusione, per la consolidata giurisprudenza di questa Corte il rispetto della verità putativa non può dirsi sussistente sol perchè l’autore abbia riferito di fatti appresi da una fonte giudiziaria, poliziesca od amministrativa. Sussiste solo se l’autore riferisca donde abbia appreso quei fatti; non taccia fatti connessi o collaterali di cui sia a conoscenza; non ricorra ad insinuazioni allusive con riferimento ai fatti riferiti; si attivi con zelo e prudenza nel vagliare la verosimiglianza dei fatti riferiti.

2.6. Veniamo ora al requisito della continenza verbale.

La “continenza verbale” dello scritto che si assume offensivo, per la giurisprudenza di questa Corte, non consiste soltanto nella forbitezza del linguaggio.

Dovrà infatti dirsi non rispettoso della continenza verbale anche lo scritto che ricorra al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato, all’artificiosa drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, alle vere e proprie insinuazioni (principio pacifico da trent’anni: in tal senso si veda già Sez. 1, Sentenza n. 5259 del 18/10/1984, Rv. 436989 – 01; nello stesso senso, ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 14822 del 04/09/2012, Rv. 623667 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 16917 del 20/07/2010, Rv. 614230 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11259 del 16/05/2007, Rv. 596456 – 01).

Ed infatti uno scritto allusivo od insinuante, anche quando fondato su fatti veri, può riuscire in concreto molto più pernicioso per l’onore altrui rispetto ad uno scritto vituperoso, giacchè mentre questo sollecita il riso, quello suscita il dubbio, che molto più del primo corrode la reputazione di chi ne sia investito.

2.7. Dei principi sin qui riassunti la Corte d’appello di Genova non ha fatto corretta applicazione. Anzi, essi sono stati violati dalle due affermazioni di diritto sulle quali la Corte ligure ha fondato la propria motivazione (supra, p. 2.3).

2.7.1. La Corte d’appello, come già detto, ha ritenuto che l’articolo oggetto del contendere fosse rispettoso del principio di verità putativa dei fatti narrati, perchè l’autore aveva attinto ad una fonte autorevole, cioè una relazione della Direzione Investigativa Antimafia.

E tuttavia la stessa Corte d’appello aveva accertato in fatto che la suddetta relazione della DIA risaliva a dieci anni prima rispetto alla data di diffusione dell’articolo; che quella relazione non consentiva affatto di individuare con inequivoca certezza chi fossero i ” F.” di cui in essa si faceva menzione; che in ogni caso – quel che più rileva – la relazione della DIA era sostanzialmente immotivata.

In quella relazione, infatti (anno 2002, secondo semestre, vol. II), si leggeva: “le consorterie censite sul territorio (ligure) sono riconducibili alle famiglie R., N., Ra., M., F., Fa. e fa. (…).

La famiglia F., anch’essa insediata a (OMISSIS) proveniente da (OMISSIS), è considerata un terminale locale per operazioni di reinvestimento di denaro di illecita provenienza”.

Si tratta di un passaggio di tre righe in un testo di 197 pagine, senza alcuna indicazione di nomi di battesimo; senza indicazione alcuna di prove o fatti, e con un verbo in forma impersonale (“è considerata”) che non consentiva di stabilire chi “considerava”, cosa “considerava”, e perchè “considerava”.

La Corte d’appello, pertanto, nel ritenere rispettato il requisito della verità putativa, ha violato il principio per cui il giornalista deve dare conto con chiarezza dell’effettivo contenuto della fonte e senza tacere fatti rilevanti e connessi a quelli dichiarati, nonostante nel caso di specie la stessa Corte avesse accertato in facto che il giornalista non diede conto del tempo trascorso (dieci anni) tra la diffusione della relazione della DIA e la pubblicazione dell’articolo; non diede conto della genericità del passaggio, contenuto nella relazione DIA, in cui si faceva il nome ” F.”; non diede conto della totale mancanza, nella suddetta relazione, di riferimenti o giustificazioni dell’affermazione secondo cui una certa famiglia “è considerata” mafiosa; soprattutto non diede conto se, nei dieci anni trascorsi tra la segnalazione della DIA e la redazione dell’articolo, quella segnalazione avesse avuto un seguito, e di che tipo.

2.7.2. La Corte d’appello, in secondo luogo, ha ritenuto che l’articolo oggetto del contendere non desse luogo a responsabilità del suo autore, perchè rispettoso della continenza verbale.

Ciò ha fatto nonostante essa stessa avesse ritenuto in punto di fatto che l’articolo conteneva il “messaggio inequivocabile” che le supposizioni del suo autore sulla vicinanza tra F.G. e la criminalità organizzata fossero vere; che l’articolo alludeva ai presunti contatti di F.G. con la ‘ndrangheta calabrese; che per l’autore dell’articolo “vi era una sola risposta possibile” ai dubbi ivi formulati sulla vicinanza dell’odierno ricorrente alla criminalità organizzata; che tale risposta era formulata in modo “allusivo e provocatorio”.

Così giudicando, la Corte d’appello ha accertato determinati fatti, ma applicato ad essi norme diverse da quelle per essi previste: ha infatti accertato la sussistenza d’un articolo dai toni insinuanti ed allusivi, ed ha mancato di applicare il principio, già più sopra esposto, secondo cui il principio di continenza verbale non può dirsi rispettato, quando l’autore “ricorra al sottinteso sapiente, agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato,

all’artificiosa drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, A alle vere e proprie insinuazioni” (Sez. 1, Sentenza n. 5259 del 18/10/1984, Rv. 436989 – 01, cit.).

La Corte d’appello, in conclusione, ha reputato rispettato il limite della continenza verbale in un caso in cui l’autore dello scritto aveva di fatto finito per trasformare una affermazione generica e priva di riscontri (“la famiglia F. è considerata un terminale ecc.”) in un autentico capo di imputazione chiaro e netto.

2.8. La sentenza d’appello va dunque cassata con rinvio su questo punto.

La Corte d’appello di Genova, nel tornare ad esaminare il gravame proposto dagli odierni controricorrenti, applicherà i seguenti principi di diritto:

“l’esimente della verità putativa dei fatti narrati, idonea ad escludere la responsabilità dell’autore d’uno scritto offensivo dell’altrui reputazione, sussiste solo a condizione che: a) l’autore abbia compiuto ogni diligente accertamento per verificare la verosimiglianza dei fatti riferiti; b) l’autore abbia dato conto con chiarezza e trasparenza della fonte da cui ha tratto le sue informazione, e del contesto in cui, in quella fonte, esse erano inserite; c) l’autore non ha sottaciuto fatti collaterali idonei a privare di senso o modificare il senso dei fatti narrati; d) l’autore, nel riferire fatti pur veri, non abbia usato toni allusivi, insinuanti, decettivi”.

3. Il secondo motivo di ricorso.

3.1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello, nel rigettare la loro domanda risarcitoria, avrebbe falsamente applicato il principio che impone al giornalista il rispetto della continenza verbale.

In particolare, sostengono che la Corte d’appello, pur NV trascrivendola nella motivazione della sentenza, non avrebbe espressamente preso posizione sul seguente passaggio che si assume diffamatorio: “l’unica famiglia F. insediata (OMISSIS) proveniente da (OMISSIS) considerata un terminale locale per operazioni di reinvestimento di denaro di illecita provenienza è quella di F.G.”. Sostengono che questa frase, inserita nel contesto dell’intero articolo, evidenziava come quest’ultimo fosse tutto un susseguirsi di allusioni, illazioni ed espedienti volti a suscitare lo sdegno del lettore, inducendolo a ritenere che F.G. avesse rapporti con la criminalità organizzata.

3.2. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del precedente.

4. Il quarto motivo di ricorso.

4.1. Il quarto motivo di ricorso va esaminato prima del terzo, per anteriorità logica rispetto ad esso, ai sensi dell’art. 276 c.p.c., comma 2.

Con tale motivo, infatti, i ricorrenti lamentano che la sentenza impugnata sarebbe affetta dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo.

Deducono che il “fatto decisivo” che la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare consisterebbe nella eccezione, da essi sollevata, circa l’insussistenza di un interesse pubblico alla diffusione della notizia contenuta nell’articolo contestato.

4.2. Il motivo va correttamente qualificato, d’ufficio, come censura di un’omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, come del resto è affermato a pagina 61, terzo rigo, del ricorso.

4.3. Il motivo in esame non resta assorbito dall’accoglimento del primo, dal momento che il difetto di interesse pubblico alla diffusione d’una notizia renderebbe di per sè illecita tale diffusione, quand’anche fosse rispettosa della verità putativa e della continenza verbale.

4.4. Così riqualificato, il motivo è fondato, dal momento che nell’intera sentenza impugnata non si fa alcun cenno in merito alla sussistenza del requisito dell’interesse pubblico alla diffusione della notizia.

5. Il terzo motivo di ricorso.

5.1. Col terzo motivo i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello, nel rigettare la loro domanda risarcitoria, avrebbe falsamente applicato il principio di pertinenza, con riferimento all’interesse che i fatti narrati rivestivano per l’opinione pubblica.

Deducono che i fatti narrati nell’articolo apparso nel 2012 risalivano a 10 anni prima (come già detto, la relazione della direzione investigativa antimafia nella quale era contenuto il passaggio sopra trascritto risaliva al 2002).

Il trascorrere di questo arco di tempo, ad avviso dei ricorrenti, rendeva dunque non più attuale l’interesse pubblico alla notizia.

5.2. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del quarto motivo di ricorso.

6. Il quinto motivo di ricorso.

6.1. Col quinto motivo i ricorrenti lamentano il vizio di omesso esame di un fatto decisivo.

Sostengono che la Corte d’appello non avrebbe esaminato i “fatti decisivi” rappresentati dalla documentazione con cui essi avevano inteso dimostrare la loro onestà, la loro onorabilità e la loro estraneità a consorterie mafiose.

6.2. Il motivo è inammissibile, dal momento che con esso si censura non l’omesso esame di un fatto, ma piuttosto la valutazione delle prove documentali prodotte in corso di causa.

Le Sezioni Unite di questa Corte, tuttavia, nel chiarire il senso del novellato art. 360 c.p.c., n. 5, e cosa debba intendersi per “omesso esame d’un fatto decisivo”, hanno stabilito che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

7. Le spese.

Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

(-) accoglie il primo ed il quarto motivo di ricorso;

(-) dichiara assorbiti il secondo ed il terzo motivo di ricorso;

(-) dichiara inammissibile il quinto motivo di ricorso;

(-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte di cassazione, il 11 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2019

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