Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27573 del 11/10/2021

Cassazione civile sez. lav., 11/10/2021, (ud. 12/05/2021, dep. 11/10/2021), n.27573

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4599-2017 proposto da:

S.F., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DILLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIUSEPPE TRIBULATO;

– ricorrente –

contro

A.S.T. – AZIENDA SICILIANA TRASPORTI S.P.A., in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA QUIRINO MAIORANA 9, presso lo STUDIO LEGALE

FAZZARI, rappresentata e difesa dall’avvocato AURORA FRANCESCA

NOTARIANNI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 721/2016 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 05/08/2016 R.G.N. 1520/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/05/2021 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

La Corte d’appello di Palermo confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva respinto la domanda proposta da S.F. nei confronti della AST Azienda Siciliana Trasporti s.p.a volta a conseguire la conversione in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, di una serie di contratti a termine stipulati nel periodo febbraio 2008-maggio 2012, con gli effetti risarcitori connessi alla nullità del termine apposto;

il giudice di seconda istanza convalidava l’iter motivazionale che innervava la sentenza impugnata, in estrema sintesi, alla stregua delle seguenti considerazioni:

infondato era l’assunto del ricorrente relativo alla applicabilità alla fattispecie della L.R. 5 dicembre 2006, n. 21, art. 7 secondo cui per l’attuazione e nei limiti del piano industriale dell’Azienda siciliana trasporti non si applicava la L. 26 marzo 2002, n. 2, art. 33, comma 2 (che così recita: Ferme restando le disposizioni di cui al D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 3, comma 11, convertito con modificazioni nella L. 19 dicembre 1984, n. 863, è fatto divieto, all’A.S.T. e alle aziende collegate, fino alla completa attuazione delle disposizioni del presente articolo, di procedere a nuove assunzioni);

l’art. 7, infatti, testualmente così prevedeva:

1. Per l’attuazione e nei limiti del piano industriale dell’Azienda siciliana trasporti non si applica la L.R. 26 marzo 2002, n. 2, art. 33, comma 2.

2. Nel caso di assunzione di nuovo personale, l’Azienda siciliana trasporti procede nel rispetto del proprio piano industriale e con procedure di evidenza pubblica svolte dalla stessa azienda.

3. Al fine di garantire il regolare esercizio dei servizi affidati, l’Azienda siciliana trasporti, nell’ambito del medesimo piano industriale, procede, in sede di prima applicazione della presente legge, alla trasformazione dei vigenti contratti di lavoro a tempo determinato in contratti di lavoro a tempo indeterminato;

detta disposizione aveva introdotto per l’Azienda Siciliana Trasporti una deroga limitata al divieto di procedere a nuove assunzioni, subordinandola a due requisiti: il rispetto del piano industriale e l’utilizzo di procedure di evidenza pubblica per la selezione dei lavoratori da assumere; in tale prospettiva l’osservanza delle modalità di assunzione secondo il procedimento prescritto, si atteggiava quale requisito indefettibile per la realizzazione dell’effetto della conversione del contratto, in coerenza col principio sancito dall’art. 97 Cost. applicabile anche ad un società di diritto privato a partecipazione pubblica;

la carenza di tale requisito integrava fattore ostativo all’accoglimento della istanza;

del pari inaccoglibile era la domanda di risarcimento del “danno comunitario” perché formulata per la prima volta in sede di gravame; il rimedio risarcitorio volto ad assicurare una riparazione onnicomprensiva dei nocumenti derivanti dalla mancata conversione del contratto a termine, presentava, infatti, una ratio del tutto diversa dalla misura dettata dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 che risultava oggetto della domanda formulata in prime cure dal ricorrente con riferimento alle retribuzioni non percepite dalla data di scadenza dell’ultimo contratto fino alla riammissione in servizio;

avverso tale decisione S.F. interpone ricorso per cassazione affidato a sei motivi;

resiste con controricorso la società intimata.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo si denuncia violazione della L.R. Sicilia 26 marzo 2002, n. 2, art. 33 e della L.R. Sicilia 5 dicembre 2006, n. 21, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

si deduce che la L.R. del 2006, applicabile alla fattispecie ratione temporis (nel gennaio 2006 si era completato il processo di trasformazione della azienda da società di trasporto pubblico in s.p.a. con socio unico la Regione Sicilia ed i contratti a termine si erano protratti dal 2008 al 2012) non aveva reintrodotto alcun blocco delle assunzioni ed aveva espressamente previsto la possibilità di convertire i contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, in sintonia con il nuovo assetto societario;

2. il secondo motivo prospetta violazione dell’art. 415,416 e 112 c.p.c. nonché dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

si deduce che gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito sono infondati, giacché la conversione del contratto a termine è conseguenza della sua nullità, “mentre attengono ad elementi impeditivi del diritto le circostanze quali il mancato rispetto del piano industriale o la mancata adozione di procedure ad evidenza pubblica” poste dalla Corte d’appello ex officio a fondamento della decisione resa, con statuizione che incorre in vizio di ultrapetizione;

3. con il terzo motivo è denunciata violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35-36 e degli artt. 1418 e 1419 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si deduce che l’AST al momento della stipula del primo contratto aveva natura giuridica privata ed in quanto tale era sottratta alla applicazione della normativa speciale istitutiva del divieto di conversione dei contratti a termine sanciti dalle disposizioni del D.Lgs. n. 165 del 2001 e della L.R. n. 10 del 2000; quest’ultima, all’art. 23, ribadiva il divieto di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato per le Pubbliche Amministrazioni e non per gli enti pubblici economici; la Regione Sicilia, recependo la normativa nazionale in materia di divieto di trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, individuava il discrimine nella natura giuridica dell’ente datoriale; nello specifico l’AST s.p.a. non aveva natura di Pubblica Amministrazione sicché non era obbligata ad espletare alcun concorso pubblico per assumere personale;

4. con il quarto motivo si denuncia violazione della L.R. 26 marzo 2002, n. 2, art. 233, L.R. 5 dicembre 2006, n. 21, art. 7 L.R. n. 10 del 2000, artt. 1 e 23, D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 35 e 36, artt. 1418,1419 e 2325 c.c., D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27;

si deduce che la AST s.p.a. dal gennaio 2006 era una società di capitali e come tale era soggetta quanto ai rapporti di lavoro dei propri dipendenti alle norme generali di diritto privato; dalla detenzione del capitale sociale da parte della Regione Sicilia, non poteva statuirsi la disapplicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 27.

5. la quinta censura attiene alla violazione degli artt. 41 e 117 Cost., R.D.L. n. 455 del 1946, art. 14, lett. P. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

si deduce che la Regione Sicilia non aveva alcuna potestà di disciplinare i rapporti fra soggetti privati e di impedire la conversione dei contratti di lavoro in caso di somministrazione irregolare; lo statuto regionale conferisce alla assemblea della Regione la legislazione esclusiva in materia di ordinamento degli uffici e degli enti regionali, fra i quali non possono farsi rientrare le società private quali le s.p.a. anche se a totale partecipazione della Regione Siciliana;

6. i motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, sono privi di fondamento;

questa Corte ha tracciato la linea ermeneutica da percorrere per la risoluzione della delibata questione inerente alla conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato, con riferimento a fattispecie di reclutamento del personale nell’ambito delle società cd. “in house” (vedi Cass. 12/3/2019 n. 7050);

si tratta di pronuncia, correttamente richiamata a fondamento del decisum dai giudici di seconda istanza, specificamente attinente alla domanda di conversione di vari contratti a termine, a progetto e di somministrazione, conclusi con una società a capitale pubblico della regione Abruzzo;

in tale occasione questa Corte ha congruamente rimarcato che la necessità di seguire il procedimento di evidenza pubblica è corroborata dal necessario riferimento alla sentenza n. 29/2006 della C.Cost., con la quale è stata esclusa l’illegittimità costituzionale della L.R. Abruzzo n. 23 del 2004, art. 7, comma 4, lett. f) ritenendo corretto, specie per le società (cd. in house) a capitale interamente pubblico, l’obbligo del rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte anche agli enti locali per l’assunzione di personale; in essa si legge chiaramente che la disposizione in esame non è volta a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 Cost. rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico, ancorché formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici;

e’ infatti ormai principio giurisprudenziale consolidato, quello in base al quale fra gli organismi di diritto pubblico possono essere annoverati anche enti soggettivamente connotati dalla forma privatistica che svolgono un servizio pubblico di interesse generale, in quanto la mera forma non può, di per sé, essere idonea ad escludere la sostanziale ed oggettiva natura pubblicistica di un ente (vedi Cass. 30/9/2019 n. 24375);

a convalidare i ricordati approdi, sulla base della distinzione fra privatizzazione formale e privatizzazione sostanziale, e dunque con riferimento al suindicato principio, soccorre altresì il riconoscimento della legittimità della sottoposizione al controllo della Corte dei conti degli enti pubblici trasformati in società per azioni a capitale totalmente pubblico, come nella specie (in tal senso cfr. la successiva giurisprudenza di legittimità, Cass. sez. un. ord. n. 22409/18 secondo cui detti controlli vanno esercitati sulle società “in house providing”, per la configurazione delle quali è necessario sussistano i seguenti requisiti: a) il capitale sociale deve essere integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto deve vietare la cessione delle partecipazioni a soci privati; b) la società deve esplicare statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul mercato e rivesta una valenza meramente strumentale; c) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici);

con ulteriori arresti si è anche evidenziato che nella Regione Sicilia “l’amministrazione regionale, le aziende ed enti dalla stessa dipendenti o comunque sottoposti a controllo, tutela e vigilanza, gli enti locali territoriali e/o istituzionali, le aziende sanitarie locali, nonché gli enti da essi dipendenti e comunque sottoposti a controllo, tutela e vigilanza” (L.R. Sicilia n. 15 del 2004, art. 49), ossia tutti gli enti pubblici economici e non economici operanti sul territorio regionale, sono tenuti, dopo l’entrata in vigore della L.R. n. 15 del 2004, al rispetto della regola della concorsualità, qualificata o semplificata, che opera anche per i profili professionali di minore rilievo, (vedi Cass. 12/11/2020 n. 25625);

le statuizioni della pronuncia della Corte di merito oggetto delle formulate censure, si collocano, dunque, nel solco del ricordato orientamento, nel cui ambito vanno valorizzate le pronunce con le quali sono stati richiamati i principi affermati dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 5072/2016), dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 89/2003) e dalla Corte di Giustizia (sentenza 7.9.2006 causa C-53/04 Marrosu e Sardino) per escludere profili di illegittimità costituzionale e di contrarietà al diritto dell’Unione del divieto di conversione dei contratti a termine;

principi che hanno rinvenuto ulteriore avallo nella più recente giurisprudenza del Giudice delle leggi (Corte Cost. n. 248/2018) e della Corte di Lussemburgo (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C-494/16, Santoro), che hanno riaffermato il principio in base a quale la clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE non osta ad una normativa nazionale che vieta la trasformazione del rapporto, purché sia prevista altra misura adeguata ed effettiva, finalizzata ad evitare e se del caso a sanzionare il ricorso abusivo alla reiterazione del contratto a termine (vedi Cass. 11/2/2021 n. 3558 in motivazione);

per le ricordate ragioni, la pronuncia impugnata, conforme a diritto per quanto sinora detto, resiste alle censure all’esame;

6. con il sesto motivo si denuncia violazione degli artt. 112 c.p.c. e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

si critica la statuizione con la quale il giudice del gravame ha denegato riconoscimento al risarcimento del danno comunitario ritenendo la domanda non ritualmente proposta in primo grado; si osserva in contrario, che la domanda risarcitoria era da reputare implicita nella istanza di conversione del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato e comunque sin dal ricorso introduttivo, era stata formulata istanza di condanna della società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni non percepite per i periodi non lavorati e dalla data di scadenza dell’ultimo contratto fino alla effettiva ripresa del servizio; in ogni caso si argomenta che l’indennità forfetizzata ed onnicomprensiva per i danni causati da nullità del termine di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 si applica d’ufficio anche riguardo al rapporto intercorso con una pubblica amministrazione nella quantificazione del risarcimento del danno D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5;

7. il motivo è fondato e meritevole di accoglimento, entro i termini che si vanno ad esporre;

va infatti rimarcato in via di premessa, che, secondo l’insegnamento di questa Corte al quale va data continuità, in tema d’interpretazione della domanda, il giudice di merito è tenuto a valutare il contenuto sostanziale della pretesa alla luce dei fatti dedotti in giudizio e a prescindere dalle formule adottate; da ciò consegue che è necessario, a questo fine, tener conto anche delle domande che risultino implicitamente proposte o necessariamente presupposte, in modo da ricostruire il contenuto e l’ampiezza della pretesa secondo criteri logici che permettano di rilevare l’effettiva volontà della parte in relazione alle finalità concretamente perseguite dalla stessa (vedi Cass. 26/9/2011 n. 19630);

nell’ottica descritta è stato congruamente affermato che il giudice di merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere (petitum sostanziale), sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante; in particolare, il giudice non potendo prescindere dal considerare che anche un’istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il “petitum” e la “causa petendi” (vedi Cass. 10/2/2010 n. 3012);

in tale prospettiva non può, allora, sottacersi, che la statuizione di rigetto della domanda risarcitoria non sia conforme a diritto, non tanto per la prospettata violazione del principio di continenza, quanto per l’omessa applicazione dei summenzionati principi in tema di interpretazione della domanda;

il ricorrente aveva infatti proposto domanda risarcitoria, da parametrare all’ammontare delle retribuzioni rivendicate dalla scadenza dell’ultimo contratto sino alla riammissione in servizio;

si tratta di domanda che non si discosta dal paradigma di riferimento del cd. danno comunitario, come definito dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.” (Cass. S.U. 15/3/2016 n. 5072);

poiché la conversione è impedita dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 attuativo del precetto costituzionale dettato dall’art. 97 Cost., il danno risarcibile, derivante dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A, consiste di norma nella perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.; peraltro, poiché la prova di detto danno non sempre è agevole, è necessario fare ricorso ad un’interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un’adeguata reazione dell’ordinamento volta ad assicurare effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest’ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere;

si tratta di principi che hanno rinvenuto ulteriore conforto da più recenti approdi della Corte di Lussemburgo che, chiamata a pronunciare sulla conformità al diritto dell’Unione, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha evidenziato che “la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno” anche facendo ricorso, quanto alla prova, a presunzioni (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C – 494/16 Santoro); i richiamati dicta rinvengono una applicazione generalizzata, anche nei casi in cui la conversione non possa operare in presenza di una norma di legge speciale che, anche a prescindere dall’applicabilità della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, impedisca, direttamente o indirettamente, la conversione (cfr. Cass. nn. 5229 e 6413 del 2017; Cass. n. 23945/2018; Cass. 12876/2010), in quanto il divieto discende sempre dalla natura sostanzialmente pubblica del datore;

le norme di diritto interno vanno dunque, e conclusivamente, interpretate in modo da assicurare il rispetto dell’art. 97 Cost., ma salvaguardando al contempo il canone di effettività della tutela, come affermato dalla Corte di Giustizia UE nell’ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13 e ribadito nelle successive pronunce (vedi Cass. 12/11/2020 n. 25625), senza trascurare che il sistema di tutele così definito dalle disposizioni richiamate risponde al principio – di recente ribadito da questa Corte – alla cui stregua l’abusiva reiterazione di contratti a termine con il medesimo lavoratore in quanto produttiva di una situazione di incertezza sulla stabilità occupazionale, definito danno cd. da precarizzazione, lede la dignità della persona, quale diritto inviolabile, di cui è proiezione anche il diritto al lavoro in quanto tale, riconosciuto nel diritto interno dagli artt. 2 e 4 Cost., e nel diritto Eurounitario dagli artt. 1 e 15 della cd. Carta di Nizza (cfr. Cass. 9/6/2020 n. 10999);

in definitiva, alla luce delle argomentazioni sinora esposte, assorbenti di ogni formulata doglianza, il ricorso va accolto limitatamente a tale ultimo motivo con rinvio alla Corte designata in parte dispositiva la quale, nello scrutinare la vicenda delibata, si atterrà ai principi innanzi enunciati, provvedendo anche al governo delle spese inerenti al presente giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta i primi cinque motivi di ricorso, accoglie il sesto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2021

 

 

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