Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27565 del 20/12/2011

Cassazione civile sez. III, 20/12/2011, (ud. 18/11/2011, dep. 20/12/2011), n.27565

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2521/2007 proposto da:

C.U., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GREGORIO

VII 396, presso lo studio dell’avvocato GIUFFRIDA Antonio, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato NEGRI SARA giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

TORO ASSICURAZIONI S.P.A. in persona del Presidente ed Amministratore

Delegato Dott. D.P.L., elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 47, presso lo studio dell’avvocato

GEREMIA Rinaldo, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

ARNAUDO CERCHIO SILVIA giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 680/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 28/04/2006 R.G.N. 1923/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/11/2011 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito l’Avvocato ANTONIO GIUFFRIDA;

udito l’Avvocato RINALDO GEREMIA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso con l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

1. C.U., in proprio e quale procuratore speciale degli altri eredi di C.G. sopra indicati, propone ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, illustrati con memoria, avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino depositata il 28 aprile 2006, che confermava quella di primo grado e respingeva l’appello degli odierni ricorrenti osservando che questi avevano introdotto in appello una domanda nuova, avendo fondato la loro pretesa, diversamente da quanto avvenuto in primo grado, sul richiamo di previsioni contenute nel CCNL per i dirigenti industriali nonchè di “convenzioni” asseritamente stipulate tra gli organi rappresentativi di categoria e le varie compagnie di assicurazione, per dare attuazione a livello negoziale generale alle direttiva della fonte collettiva, senza distinguere a livello operativo pratico tra polizze pool e polizze extra pool, come effettuato in primo grado;

aggiungeva la Corte territoriale che la Convenzione n. 1733, mai menzionata in primo grado dagli attori, non risultava essere stata ritualmente prodotta in primo grado e neppure con l’atto di appello, sicchè non poteva essere presa in considerazione in appello.

2. Nel proprio ricorso l’Inveco deduce:

2.1. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione alla produzione documentale della Convenzione n. 1733 tra Cassa Previdenza Dirigenti e Toro Assicurazioni.

2.2. Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto in relazione all’art. 345 c.p.c., nella formulazione anteriore alla riforma di cui alla L. n. 353 del 1990 e chiede alla Corte se “data prova dell’esposizione in primo grado di tutti i fatti di causa e della rituale allegazione e produzione dei documenti ad essa inerenti, l’eventuale più specifica qualificazione giuridica degli stessi fatti effettuata dall’attore in grado di appello, rimanendo inalterato il thema decidendum, costituisca una emendatio libelli consentita dall’art. 345 c.p.c.”.

2.3. Violazione e falsa applicazione delle norme di diritto in relazione all’art. 112 c.p.c. e chiede alla Corte se: “nel caso in cui la Corte di Appello ometta di esaminare un documento ritualmente prodotto già in causa in primo grado ritenendolo, per errore manifesto, illegittimamente inserito in corso di appello nel fascicolo documenti della parte appellante, venga così violato il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato stabilito dall’art. 112 c.p.c.”.

4. La Compagnia assicuratrice resiste con controricorso, illustrato con memoria, e chiede rigettarsi il ricorso.

5. I motivi si rivelano inammissibili per mancanza del momento di sintesi rispetto al primo di essi, che deduce vizio motivazionale e per inidoneità dei quesiti di diritto formulati in relazione al secondo ed al terzo di essi, che denunciano violazione di legge.

Detti mezzi risultano, pertanto, privi dei requisiti a pena di inammissibilità richiesti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile nella specie nel testo di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, essendo stata l’impugnata sentenza pubblicata successivamente alla data (2 marzo 2006) di entrata in vigore del medesimo.

5.1.1. Nel caso in esame, rispetto al primo motivo, che deduce vizio motivazionale, non è stato formulato il momento di sintesi, che come da questa Corte precisato richiede un quid pluris rispetto alla mera illustrazione del motivo, imponendo un contenuto specifico autonomamente ed immediatamente individuabile (v. Cass., 18/7/2007, n. 16002). L’individuazione del denunziato vizio di motivazione risulta perciò impropriamente rimessa all’attività esegetica del motivo da parte di questa Corte (Cass. n. 9470(08). Si deve, infatti, ribadire che è inammissibile, alla stregua della seconda parte dell’art. 366 bis cod. proc. civ., il motivo di ricorso per cassazione con cui, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, la parte si limiti a censurare l’apoditticità e carenza di motivazione della sentenza impugnata, in quanto la norma processuale impone la precisazione delle ragioni che rendono la motivazione inidonea a giustificare la decisione mediante lo specifico riferimento ai fatti rilevanti, alla documentazione prodotta, alla sua provenienza e all’incidenza rispetto alla decisione (Cass. n. 4589/09).

5.1.2. Rispetto al secondo ed al terzo motivo, invece, va ribadito che il quesito di diritto non può consistere in una domanda che si risolva in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello della Corte in ordine alla fondatezza della censura così come illustrata, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni spiegate nel motivo e porre la Corte di cassazione in condizione di rispondere al quesito con l’enunciazione di una regula iuris (principio di diritto) che sia suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. A titolo indicativo, si può delineare uno schema secondo il quale sinteticamente si domanda alla corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito (fatto), si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata (Cass. S.U., ord. n 2658/08). E ciò quand’anche le ragioni dell’errore e della soluzione che si assume corretta siano invece – come prescritto dall’art. 366 c.p.c., n. 4 – adeguatamente indicate nell’illustrazione del motivo, non potendo la norma di cui all’art. 366 bis c.p.c., interpretarsi nel senso che il quesito di diritto possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (Cass. 20 giugno 2008 n. 16941). Una formulazione del quesito di diritto idonea alla sua funzione richiede, pertanto, che, con riferimento ad ogni punto della sentenza investito da motivo di ricorso la parte, dopo avere del medesimo riassunto gli aspetti di fatto rilevanti ed averne indicato il modo in cui il giudice lo ha deciso, esprima la diversa regola di diritto sulla cui base il punto controverso andrebbe viceversa risolto, formulato in modo tale da circoscrivere la pronunzia nei limiti del relativo accoglimento o rigetto (v. Cass., 17/7/2008 n. 19769; 26/3/2007, n. 7258). Occorre, insomma che la Corte, leggendo il solo quesito, possa comprendere l’errore di diritto che si assume compiuto dal giudice nel caso concreto e quale, secondo il ricorrente, sarebbe stata la regola da applicare.

5.2.1. Non si rivelano, pertanto, idonei il quesito di cui al n. 2.2 e 3.2. dato che non contengono idonei riferimenti alla pretesa azionata dai richiedenti, nè espongono chiaramente le regole di diritto che si assumono erroneamente applicate e quanto alle regole di cui invoca l’applicazione, si esauriscono in enunciazioni di carattere generale ed astratto che, in quanto prive di chiari riferimenti al tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, non consentono di dare risposte utili a definire la causa (Cass. S.U. 11.3.2008 n. 6420). Del resto, il quesito di diritto non può risolversi – come nell’ipotesi – in una tautologia o in un interrogativo circolare, che già presuppone la risposta (Cass. S.U. 2/12/2008 n. 28536).

5.2.2. Senza contare che sussiste, in rapporto al secondo ed al terzo motivo, anche un altro profilo d’inammissibilità delle censure, dato che si deve ribadire che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.);

viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 16698 e 7394 del 2010; 4178/07; 10316/06; 15499/04). Nei predetti motivi, infatti, l’assunta violazione di legge si basa sempre e presuppone una diversa ricostruzione delle risultanze di causa (come, nel 2^ motivo, la “novità” e non semplice emendatio della domanda; nel 3^, l’assunta erroneità nella ricostruzione dell’epoca di produzione del documento), censurabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione, secondo il paradigma previsto per la formulazione di detti motivi (v. precedente punto 3.1.1.).

6. Pertanto, il ricorso è inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per onorario, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 18 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2011

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