Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27556 del 02/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 02/12/2020, (ud. 23/09/2020, dep. 02/12/2020), n.27556

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4370-2015 proposto da:

G.S., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO

14, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO DI CELMO, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI

INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144,

presso lo studio degli avvocati LUCIANA ROMEO, e LETIZIA CRIPPA, che

lo rappresentano e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 331/2014 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 06/08/2014 R.G.N. 750/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che, con sentenza depositata il 6.8.2014, la Corte d’appello di Genova ha confermato, con diversa motivazione, la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta da G.S. volta a conseguire le prestazioni previdenziali dovutele per il decesso del proprio coniuge, di cui aveva assunto l’etiologia professionale;

che avverso tale pronuncia G.S. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura;

che l’INAIL ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione dell’All. 4 all’art. 3 T.U. n. 1124 del 1965, per come modificato dal D.P.R. n. 336 del 1994, art. 1 nonchè dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto che non fosse stata in specie raggiunta la prova del nesso di causalità tra l’attività lavorativa espletata dal suo dante causa e il di lui decesso per inadeguata esposizione a rischio professionale;

che, con il secondo motivo, la ricorrente lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per essersi la Corte territoriale discostata dai canoni della scienza medica, avendo valutato insufficiente l’esposizione a rischio;

che i motivi possono essere esaminati congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure rivolte alla sentenza;

che va preliminarmente ribadito che dall’inclusione nelle apposite tabelle sia della lavorazione che della malattia (purchè insorta entro il periodo massimo di indennizzabilità) deriva l’applicabilità della presunzione di eziologia professionale della patologia sofferta dall’assicurato, essendo conseguentemente onere dell’INAIL di dimostrare la dipendenza dell’infermità da una causa extralavorativa oppure che la lavorazione non abbia avuto idoneità sufficiente a cagionare la malattia e fermo restando che, in caso di malattia – come quella tumorale – ad eziologia multifattoriale, la prova del nesso causale non può consistere in semplici presunzioni desunte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma deve consistere nella concreta e specifica dimostrazione, quanto meno in via di probabilità, della (in)idoneità della esposizione al rischio a causare l’evento morboso, con la precisazione che, in presenza di forme tumorali che hanno o possono avere, secondo la scienza medica, un’origine professionale, la presunzione legale quanto a tale origine torna ad operare, sicchè l’INAIL può solo dimostrare che la patologia tumorale non è ricollegabile all’esposizione a rischio (Cass. n. 19047 del 2006 e, più recentemente, Cass. nn. 23653 del 2016 e 20769 del 2017);

che, nella specie, pur dando atto che nella tabella delle malattie professionali dell’industria di cui al D.P.R. n. 336 del 1994 è stato inserito, alla voce n. 56, il carcinoma polmonare tra le malattie neoplastiche “derivanti da lavorazioni che espongono all’azione delle fibre di asbesto”, la Corte territoriale ha reputato che la valutazione dell’esposizione a rischio effettuata dalla CTU ambientale fosse stata sovrastimata in rapporto alle risultanze del libretto di navigazione del de cuius, che evidenziano un periodo di navigazione effettiva pari a mesi 36 e giorni 135 (così la sentenza impugnata, pag. 8), e ha pertanto escluso “che l’esposizione all’amianto po(tesse) ritenersi (…) sufficiente a determinare l’insorgere della malattia”, valorizzando, per contro, un “fortissimo fattore di rischio nella protratta abitudine del fumo di sigaretta (…), posto che il de cuius ha fumato, per circa cinquant’anni, sessanta sigarette al giorno” e “ha contratto una forma di tumore al polmone che può considerarsi tipica dei soggetti fumatori” (ibid., pag. 9);

che l’anzidetto giudizio di fatto deve ritenersi ormai intangibile in questa sede, non potendo riscontrarsi nelle critiche esposte pagg. 24 ss. del ricorso per cassazione nient’altro che un (pur motivato) dissenso diagnostico, essendosi la Corte territoriale attenuta, nel proprio giudizio, ai medesimi criteri internazionali indicati nella CTU, che fissano in una certa esposizione cumulativa all’amianto il presupposto di fatto per inferirne l’efficacia causale nell’insorgenza di patologie tumorali (cfr. pag. 8 della sentenza impugnata);

che, dovendo il nesso di causalità materiale accertarsi in materia civile secondo il criterio del “più probabile che non” (Cass. S.U. n. 576 del 2008), che indica la misura della relazione probabilistica concreta tra condotta ed evento dannoso e richiede un apprezzamento non isolato bensì complessivo ed organico dei singoli elementi indiziari o presuntivi a disposizione (Cass. n. 16581 del 2019), deve escludersi che la sentenza impugnata abbia violato l’art. 2697 c.c., avendo la Corte di merito deciso non già in funzione della regola di giudizio derivante dai criteri di ripartizione dell’onere probatorio, ma sulla base della prova positiva dell’insussistenza in specie di alcun nesso causale tra l’esposizione all’amianto e la patologia tumorale che condusse a morte il de cuius;

che il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che seguono la soccombenza;

che, in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2020

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