Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27554 del 20/12/2011

Cassazione civile sez. III, 20/12/2011, (ud. 07/10/2011, dep. 20/12/2011), n.27554

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – rel. Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21902/2009 proposto da:

VITTORIA ASSICURAZIONI S.P.A. in persona dell’amministratore delegato

e legale rappresentante pro tempore rag. G.R.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA P.L. DA PALESTRINA 19, presso

lo studio dell’avvocato PROSPERETTI MARCO, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ALDO FRIGNANI giusto mandato in atti;

– ricorrente –

contro

D.M.R.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 452/2009 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 04/05/2009 R.G.N. 1109/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/10/2011 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;

udito l’Avvocato ALDO FRIGNANI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

IANNELLI Domenico, che ha concluso con il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 452/2009, depositata il 4 maggio 2009, la Corte di appello di Salerno ha condannato la s.p.a. Vittoria Assicurazioni a pagare a D.M.R. la somma di Euro 176,39, oltre rivalutazione monetaria e interessi, in risarcimento dei danni ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 33, per violazione da parte della compagnia assicuratrice delle norme a tutela della concorrenza, come risulta dal provvedimento sanzionatorio n. 8546, emesso dall’AGCM il 28.7.2000.

Con atto notificato il 6 ottobre 2009 la Vittoria Ass.ni propone quattro motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria.

Resiste l’intimato con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- La Corte di appello di Salerno ha desunto la sussistenza dell’illecito anticoncorrenziale dal citato provvedimento dell’AGCM n 8546/2000, il quale ha inflitto sanzione ad un largo numero di società assicuratrici, fra cui l’odierna ricorrente, per avere posto in essere un’intesa orizzontale, nella forma di una pratica concordata, consistente nello scambio sistematico di informazioni commerciali sensibili tra imprese concorrenti, con riferimento alle polizze di RCA. L’Autorità garante ha altresì rilevato che detta pratica ha comportato un notevole incremento dei premi, nel periodo interessato dal comportamento illecito (anni 1994 – 2000), con riferimento sia al livello in vigore in Italia fino al 1994, anteriormente alla liberalizzazione delle tariffe; sia alla media dei premi sul mercato europeo, che è risultata inferiore di circa il 20% rispetto ai premi praticati in Italia.

La sentenza impugnata ha quantificato il danno subito dal D.M. in misura corrispondente alla suddetta percentuale del 20%, calcolata sul premio pagato dallo stesso per una polizza RCA, nel periodo 30 marzo 1998 – 30 settembre 2000, affermando che la compagnia assicuratrice, a suo tempo partecipe dell’illecita intesa, non ha fornito alcuna prova idonea ad escludere il nesso causale fra l’illecito anticoncorrenziale e il suddetto incremento dei premi.

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia “Mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) e conseguente nullità del procedimento (art. 360, comma 1, n. 4)”, sul rilievo che la Corte di appello ha omesso di prendere in esame le sue eccezioni, e la relativa documentazione, circa il fatto che il premio praticato al cliente non era stato frutto del comportamento anticoncorrenziale, ma era dipeso da una serie di cause esterne, che avevano comportato un notevole incremento dei costi per le compagnie assicuratrici, fra cui: le truffe in loro danno; l’incremento della litigiosità; il lievitare dei risarcimenti a causa dei nuovi criteri di quantificazione del danno biologico; l’incidenza delle imposte, l’adeguamento delle riserve sinistri imposto in sede comunitaria; il livello di inflazione in vigore in Italia e le forti passività che connotavano la situazione economica delle compagnie assicuratrici alla vigilia della privatizzazione del 1994.

Tali elementi erano stati richiamati dalla Vittoria Ass.ni nella comparsa di risposta davanti al giudice di pace e negli atti difensivi presentati alla Corte di appello davanti alla quale il processo è stato riassunto.

La ricorrente specifica in particolare di avere prodotto:

a) un parere redatto dall’ISVAP, su richiesta dell’AGCM;

b) il Provvedimento 17 aprile 2003 n. 11891, con cui l’AGCM dispose la chiusura di un’indagine conoscitiva sul settore, avviata nel 1996, avendo accertato che la struttura del mercato assicurativo in Italia presentava aspetti che di per sè spiegavano l’incremento delle tariffe, fra cui la massiccia presenza di relazioni verticali di esclusiva nel settore della distribuzione (reti di agenti monomandatari) , che incrementava i costi di ricerca da parte del consumatore delle polizze più vantaggiose e ostacolava l’ingresso sul mercato di nuovi operatori; e la mancanza (all’epoca) di modalità di indennizzo diretto, idonee a limitare i costi di liquidazione dei sinistri;

c) la relazione del Parlamento italiano alla L. 12 dicembre 2002, n. 273, che aveva parimenti individuato fra i fattori di costo delle polizze assicurative le truffe ai danni delle assicurazioni; la difficoltà di garantire un’adeguata informazione dei consumatori, anche tramite la pubblicità via internet, ed altre circostanze diverse dal comportamento illecito contestato dall’AGCM. Sostiene quindi che la Corte di appello, omettendo di considerare le allegazioni in questione (che nel quesito formulato ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., vengono qualificate eccezioni) e le correlate deduzioni documentali probatorie, avrebbe ravvisato il danno nel solo fatto che essa ebbe a partecipare all’illecito concorrenziale. Ciò costituirebbe violazione del principio enunciato da questa Corte nella sent. n. 2305 del 2007, secondo cui, nei casi simili a quello in esame, il danno non può essere ritenuto in re ipsa ed il giudice è tenuto a valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore al fine di dimostrare l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano, comunque, concorso a produrlo.

1.1. Il motivo, così come proposto, è inidoneo ad integrare il vizio di violazione della norma di cui all’art. 112 c.p.c..

Invero, l’art. 112 c.p.c., quando impone al giudice di pronunciare su tutta la domanda e su tutte le eccezioni e non oltre di esse, pone in rilievo il concetto di “eccezione”, che si ricollega alla fattispecie dedotta in giudizio con la domanda evocando quei fatti, i quali sono considerati dalla fattispecie giuridica astratta come determinanti effetti estintivi, modificativi o impeditivi dell’efficacia di quelli delineati dalla stessa fattispecie come costitutivi e che debbono essere prospettati con la domanda giudiziale.

Tali fatti, in relazione alla vicenda concreta dedotta in giudizio, sono i fatti storici attraverso i quali il convenuto assume essersi verificata quella vicenda. Tali fatti, peraltro, proprio in quanto anch’essi trovano un referente normativo nella fattispecie giuridica astratta, sono detti “principali” e, insieme ai fatti costitutivi, non esauriscono i fatti storici che in una controversia civile possono essere introdotti in funzione del giudizio su di essa sollecitato.

Accanto ad essi, ma privi di collegamento con la fattispecie, perchè non riconducibili nè all’ambito dei fatti costitutivi nè all’ambito di quelli integratori delle eccezioni nel senso su indicato, vi sono altri fatti che possono utilmente essere introdotti nel giudizio e sono quelli che, secondo l’assunto delle parti, possono svolgere un rilievo soltanto probatorio poichè, se dimostrati, consentono di risalire, attraverso ragionamenti presuntivi o il prudente apprezzamento giudiziale, alla conoscenza dei fatti principali. Tali fatti sono denominati “secondari”.

Le circostanze su cui la ricorrente assume essersi verificata l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., integrano per l’appunto fatti secondari, perchè non riguardano alcun fatto estintivo, modificativo od impeditivo della fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento del danno da illecito concorrenziale.

Si tratta di fatti secondari (nel senso che è appunto un dato fattuale che le autorità o gli organismi ebbero a compiere certe valutazioni), il cui apprezzamento e la cui dimostrazione avrebbero dovuto indurre la Corte territoriale – nella prospettazione della ricorrente – al convincimento della inesistenza del nesso causale fra l’intesa restrittiva sanzionata dalla competente autorità e il danno lamentato dall’assicurato.

Ebbene, il vizio derivante dall’omessa considerazione da parte del giudice di merito di fatti secondari dedotti dalla parte per dimostrare le sue tesi non costituisce un vizio di inosservanza dell’art. 112 c.p.c., per quanto sopra si è detto, ma può integrare vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, nel senso che, se ricorrono gli estremi della decisività, cioè se la considerazione di essi avrebbe portato a ricostruire il fatto principale in modo diverso da come lo è stato, possono essere fatti valere come vizio ai sensi di quella norma.

Per quel che concerne i pretesi vizi derivanti dall’omessa considerazione di documenti o emergenze evidenziatrici di fatti secondari, parimenti se il giudice di merito non ha preso posizione sulla idoneità probatoria dei documenti, ma ha omesso di tenerne conto, si ricade in quanto appena osservato; mentre se il giudice ha preso posizione su tale idoneità probatoria, si sarà in presenza della violazione della norma del procedimento, regolatrice della efficacia probatoria del documento o della risultanza di cui trattasi.

Ciò evidenzia l’infondatezza del primo motivo, perchè le allegazioni con cui è stato svolto sono inidonee a configurare violazione dell’art. 112 c.p.c. (cfr. sul tema, con riferimento a casi simili a quello in esame e a motivi di ricorso pressochè identici, Cass. civ. Sez. 3, 29 agosto 2011 n. 17702; 31 agosto 2011 n. 17891 ed altre, decise su ricorso della s.p.a. Allianz, nonchè i precedenti ivi cit., fra cui in particolare Cass. civ. Sez. 1^, 12 giugno 2009 n. 12990).

2. Con il secondo motivo, avanzato in via subordinata rispetto al primo, la ricorrente denuncia omessa motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio ed omessa valutazione delle prove (art. 360, comma 1, n. 5), sul rilievo che la Corte territoriale non ha preso in esame i fatti e le risultanze probatorie che con il primo motivo sono stati ricondotti al vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c..

Afferma che quei fatti sarebbero decisivi per il giudizio perchè provano che l’aumento dei premi di polizza è dovuto a cause esterne alla volontà delle compagnie di assicurazione e che non esiste alcun collegamento eziologico tra il sanzionato scambio di informazioni e l’aumento dei premi. Le compagnie, infatti, avrebbero comunque dovuto aumentare i prezzi quanto meno per cercare di arginare le costanti perdite del settore RC Auto.

Adduce poi che le risultanze probatorie di cui al primo motivo sono state disconosciute per avere la Corte di merito affermato che la convenuta compagnia non ha formulato specifiche istanze istruttorie per dimostrare che l’entità del premio, nel caso concreto, non era neppure in minima parte ascrivibile causalmente alla accertata intesa anticoncorrenziale, laddove invece tali prove essa aveva dedotto.

2.1. Il motivo è inammissibile, perchè prospettato in termini non riconducibili al paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo modificato dalla riforma di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, applicabile al caso in esame.

Sia sotto il profilo dell’omesso esame di circostanze di fatto, sia con riguardo all’omesso esame di risultanze probatorie, l’illustrazione del motivo non si risolve nella denuncia di un’omissione motivazionale della Corte territoriale riguardo a “fatti controversi e decisivi per il giudizio”, ma evidenzia fatti controversi aventi, come si è detto, la natura di fatti secondari, quindi rilevanti in funzione probatoria, ma che, nè singolarmente considerati nè considerati nel loro complesso, rivestono il carattere della decisività ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, espressa con riferimento al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, antecedente alla modifica di cui al D.Lgs. citato, “La nozione di punto decisivo della controversia, di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., sotto un primo aspetto si correla al fatto sulla cui ricostruzione il vizio di motivazione avrebbe inciso ed implica che il vizio deve avere inciso sulla ricostruzione di un fatto che ha determinato il giudice all’individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio di merito e, quindi, di un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo od estintivo del diritto. Sotto un secondo aspetto, la nozione di decisività concerne non il fatto sulla cui ricostruzione il vizio stesso ha inciso, bensì la stessa idoneità del vizio denunciato, ove riconosciuto, a determinarne una diversa ricostruzione e, dunque, afferisce al nesso di casualità fra il vizio della motivazione e la decisione, essendo peraltro necessario che il vizio, una volta riconosciuto esistente, sia tale che, se non fosse stato compiuto, si sarebbe avuta una ricostruzione del fatto diversa da quella accolta dal giudice del merito e non già la sola possibilità o probabilità di essa.

Infatti, se il vizio di motivazione per omessa considerazione di punto decisivo fosse configurabile sol per il fatto che la circostanza di cui il giudice del merito ha omesso la considerazione, ove esaminata, avrebbe reso soltanto possibile o probabile una ricostruzione del fatto diversa da quella adottata dal giudice del merito, oppure se il vizio di motivazione per insufficienza o contraddittorietà fosse configurabile sol perchè su uno specifico fatto appaia esistente una motivazione logicamente insufficiente o contraddittoria, senza che rilevi se la decisione possa reggersi, in base al suo residuo argomentare, il ricorso per cassazione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 si risolverebbe nell’investire la Corte di Cassazione del controllo sic et sempliciter dell’iter logico della motivazione, del tutto svincolato dalla funzionalità rispetto ad un esito della ricostruzione del fatto idoneo a dare luogo ad una soluzione della controversia diversa da quella avutasi nella fase di merito” (Così Cass. civ. Sez. 3, 7 dicembre 2004 n. 22979, seguita da numerose conformi, nel cui solco si pone Cass. civ. n. 12990/2009 cit., quando ammette che il vizio di motivazione possa riguardare anche i c.d. fatti secondari, purchè essi siano effettivamente decisivi).

Nel caso di specie nessuno dei fatti secondari prospettati dalla ricorrente alla Corte di merito è caratterizzato dalla forza propria della decisività nel secondo dei significati enunciati dal principio di diritto appena richiamato, giacchè detti fatti non sono in alcun modo idonei a giustificare che quella Corte, ove li avesse considerati, avrebbe dovuto sul piano logico pervenire necessariamente ad una conclusione favorevole alla compagnia assicuratrice, circa la ricostruzione del fatto principale rilevante, costituito dall’essere dipeso l’ammontare del premio corrisposto dalla parte assicurata da causa diversa, o da un concorso di cause diverse, dall’incidenza dell’accertato illecito concorrenziale.

La stessa conclusione negativa va riferita ai fatti in questione, se considerati cumulativamente: anche in tal caso essi possono al più evidenziare la possibilità (non la certezza) che il premio pagato dalla parte assicurata sia dipeso da essi, anzichè dall’incidenza dell’intesa.

E’ da rilevare che non si va la di là della possibilità, e non si raggiunge nemmeno il grado della probabilità (qualora la decisività si volesse apprezzare anche solo in termini di probabilità: nozione che si è visto disattesa dalla giurisprudenza della Corte), atteso che gli elementi dedotti a prova dalla ricorrente attengono non al singolo rapporto assicurativo, ma al generico contesto del mercato assicurativo e restano così destinati, in concreto, a giocare un rilievo del tutto ipotetico.

Se anche i fatti secondari prospettati dalla Vittoria Assicurazioni fossero stati esaminati e se anche fossero state esaminate le risultanze probatorie che li evidenziavano, l’integrazione della motivazione sul punto non avrebbe potuto condurre ad un esito diverso da quello seguito dalla Corte salernitana.

E’ da rilevare che l’apprezzamento della decisività che qui si prospetta è del tutto conforme alla ricostruzione della fattispecie in esame affermata da questa Corte nel leading case n. 2305 del 2005, pure evocato dalla ricorrente (e che ha trovato identica eco, sempre in fattispecie riconducibile alla disciplina antitrust, in Cass. n. 3640 del 2009).

Questa decisione ha affermato il seguente principio di diritto:

“L’azione risarcitoria, proposta dall’assicurato – ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 33, comma 1 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato) – nei confronti dell’assicuratore che sia stato sottoposto a sanzione dall’Autorità garante per aver partecipato ad un’intesa anticoncorrenziale tende alla tutela dell’interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera competizione commerciale (interesse che può essere direttamente leso da comportamenti anticompetitivi posti in essere a monte dalle imprese), nonchè alla riparazione del danno ingiusto, consistente nell’aver pagato un premio di polizza superiore a quello che l’assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni di libero mercato. In siffatta azione l’assicurato ha l’onere di allegare la polizza assicurativa contratta (quale condotta finale del preteso danneggiante) e l’accertamento, in sede amministrativa, dell’intesa anticoncorrenziale (quale condotta preparatoria) e il giudice potrà desumere l’esistenza del nesso causale tra quest’ultima ed il danno lamentato anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano, comunque, concorso a produrlo. Accertata, dunque, l’esistenza di un danno risarcibile, il giudice potrà procedere in via equitativa alla relativa liquidazione, determinando l’importo risarcitorio in una percentuale del premio pagato, al netto delle imposte e degli oneri vari”.

Come emerge dal riferimento alla valutazione degli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano comunque concorso a produrlo, detti elementi debbono essere idonei a dimostrare che il danno è dipeso in tutto od in parte da essi e, quindi, essendo il danno-evento quello sofferto dall’assicurato per l’oggettivo aumento del premio, l’idoneità de qua dev’essere apprezzata con riferimento al singolo rapporto e non, come vorrebbe la ricorrente, sulla base di elementi relativi all’analisi del mercato assicurativo in genere.

Il secondo motivo è pertanto inammissibile.

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 2729 c.c. e dei principi generali in materia di presunzioni semplici (art. 360, comma 1, n. 3) e sostiene, con una prima censura, che la Corte territoriale avrebbe fatto inammissibile applicazione del principio praesumptio de praesumpto non admittitur, là dove la fattispecie di causazione del danno per effetto dell’illecito concorrenziale in capo al singolo assicurato sarebbe stata desunta con un ragionamento probabilistico dalla presunzione che l’intesa potesse avere influito in danno di tutti gli assicurati.

Con altra subordinata censura, assume che il ragionamento presuntivo di secondo grado sarebbe anche privo dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.

3.1. Entrambe le censure sono inammissibili perchè non trovano rispondenza nella pur scarna motivazione della sentenza impugnata.

Questa, dopo avere espressamente richiamato il principio di diritto affermato da questa Corte con la citata sentenza n. 2305 del 2007, ha testualmente enunciato quanto segue: “In applicazione di tali principi al caso di specie, la convenuta compagnia non ha formulato specifiche istanze istruttorie per dimostrare che l’entità del premio, nel caso concreto, non fosse nemmeno in minima parte, ascrivibile causalmente alla accertata intesa anticoncorrenziale; del resto, persino una istanza di consulenza tecnica – per scongiurare una natura esplorativa del mezzo di integrazione istruttoria in esame – avrebbe bisogno della specifica indicazione, da parte della convenuta, di quali momenti o fasi del complesso meccanismo di determinazione del premio finale andassero verificati e, soprattutto, in relazione a quali degli atti ritualmente acquisiti al processo o da acquisire nel rispetto delle norme che regolano l’istruttoria del processo civile ordinario, quale si atteggia quello in esame. In mancanza di elementi per superare la presunzione suddetta, allora, poichè la condotta illecita è stata in quanto tale accertata dalla competente Autorità Garante per la Concorrenza e del Mercato per il periodo 1994-2000, l’entità dei premi determinata dalle compagnie partecipanti all’illecita intesa, suscettibile di essere influenzata indebitamente da quest’ultima, è quella dei premi versati nel corrispondente periodo. Ne deriva che il danno deve darsi per esistente, con riferimento ai premi di cui si dia prova del pagamento nel periodo corrispondente a quello di vigenza dell’intesa anticoncorrenziale, come sopra ricostruito”.

Tale motivazione costituisce puntuale applicazione del principio di diritto affermato da Cass. n. 2305 del 2007, nel senso che la Corte di merito ha ritenuto sussistente il nesso causale fra l’intesa e l’aumento del premio desumendolo dalla presunzione, cioè dalla valutazione probabilìstica della normale conseguenza dell’intesa, proprio come affermato in quella decisione. Ed ha, quindi, constatato che gli elementi probatori proposti dalla Vittoria Assicurazioni non erano idonei a determinarne il superamento, perchè privi sostanzialmente di specificazione circa il procedimento di determinazione del premio con riferimento al caso concreto.

Ne deriva che la sentenza impugnata non è incorsa in alcuna violazione del principio di diritto affermato da questa Corte con il negare la ammissibilità della c.d. praesumptio de presumpto (Cass. n. 17535 del 2008; n. 5045 del 2002), perchè ha affermato la riconducibilità dell’aumento del premio all’intesa dopo avere constatato che la compagnia assicuratrice non aveva assolto agli oneri probatori scaturenti dalla posizione determinatasi in capo al soggetto assicurato, in base ai principi enunciati da Cass. n. 2305 del 2007, che qui si ribadiscono.

La Corte ha, in sostanza, dato rilievo ad un’insufficienza della condotta probatoria della convenuta e, quindi, non ha applicato un’ulteriore presunzione, ma solo ha constatato che la convenuta non aveva regolato la sua condotta probatoria nei termini che la dinamica processuale ed il formarsi delle acquisizioni probatorie le avrebbero imposto.

In sintesi, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto per cui l’avere l’impresa assicuratrice partecipato all’intesa e l’essersi verificato un aumento del premio determinano una situazione per cui si deve presumere che l’aumento sia ricollegato totalmente o parzialmente alla partecipazione all’intesa e tale presunzione può essere superata dall’assicuratore attraverso la dimostrazione, con qualsiasi mezzo probatorio, ivi comprese le presunzioni, che nel caso concreto ciò non è accaduto.

Ne consegue che anche le censure di cui al terzo motivo sono inammissibili, poichè non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata (cfr. sul tema, Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi).

4.- Con il quarto motivo la ricorrente fa valere, in via subordinata rispetto al terzo motivo, omessa motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio e omessa valutazione delle prove prodotte dalla ricorrente (art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5), sul rilievo che la Corte di appello avrebbe omesso la motivazione per la quale le eccezioni sollevate dal ricorrente sulle reali cause che hanno comportato l’aumento dei premi di polizza non costituirebbero idonee prove contrarie circa il nesso causale fra l’illecito antitrust e il danno, rispetto alla mera prova presuntiva utilizzata dal giudicante.

In sostanza, sostiene che “le stesse eccezioni e prove” invocate in precedenza e “le medesime argomentazioni” svolte nel secondo motivo, se fossero state considerate, avrebbero condotto ad escludere la prova presuntiva applicata dalla Corte di appello di Salerno.

4.1.- Anche questo motivo è inammissibile, perchè non tiene conto dell’effettiva motivazione della sentenza impugnata, che ancora una volta la ricorrente interpreta come se avesse applicato una presunzione e non invece dato rilievo alla condotta probatoria della ricorrente.

5.- Va soggiunto, per completezza e per scrupolo, che questa Corte – esaminando nel merito gli stessi motivi qui proposti, in relazione a ricorsi sostanzialmente dello stesso tenore proposti da altra compagnia assicuratrice contro sentenze della Corte di appello di Salerno – li ha reputati infondati con argomenti che si fanno carico anche di quelli svolti dalla ricorrente nella memoria (cfr. in particolare le recentissime sentenze n. 10211 e 10212 del 2011 e n. 13486 del 2011).

In particolare ha rilevato che: “I fatti accertati e le prove acquisite nel corso del procedimento concluso con il provvedimento dell’Autorità Garante, a cui ha preso parte l’odierna ricorrente, non sono nè revocabili in dubbio, nè utilizzabili a fini e con senso diverso da quello attribuito nel provvedimento stesso;…. il ruolo di prova privilegiata degli atti del procedimento pubblicistico condotto dalla stessa Autorità Garante e poi in sede di giustizia amministrativa (tra le altre, in relazione alla sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita sul mercato e del suo eventuale abuso, v. Cass., ord. 22 febbraio 2010, n. 4261), pur non precludendo la facoltà, per la assicuratrice, di fornire la prova contraria (per tutte, v. Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305), impedisce che possano rimettersi in discussione proprio i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza, se non altro in base allo stesso materiale probatorio od alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede (sulla fruibilità diretta, da parte dei singoli utenti o consumatori, delle relative decisioni, v., sia pure per profili anche in parte diversi, Cass. 5941/11 e 5942/11); in applicazione di tale principio al caso di specie, si osserva che i fatti e le prove che la ricorrente lamenta essere stati illegittimamente pretermessi dalla Corte territoriale sono invece stati già adeguatamente valutati dall’AGCM e dai giudici amministrativi investiti dell’impugnativa del suo provvedimento; sicchè quest’ultimo fornisce idonee basi presuntive per la ricostruzione sia della condotta dannosa che del danno, e la danneggiante non fornisce prove o fatti nuovi, in quanto diversi da quelli già considerati appunto dall’AGCM, specificamente idonei ad escludere il nesso causale tra condotta illecita e danno.

Va ribadito che l’assicurato che agisca in risarcimento dei danni ai sensi della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 33, ha il diritto di avvalersi della presunzione che il premio sia stato indebitamente aumentato per effetto del comportamento collusivo e che la misura dell’aumento (e quindi l’entità del danno da lui subito) non sia inferiore al livello medio del 20%: sia per effetto degli accertamenti compiuti dall’Autorità garante; sia in virtù del principio per cui, quando il fatto dannoso sia imputabile a più soggetti e non si possa ricostruire la misura in cui ognuno di essi abbia concorso a cagionare il danno, le colpe – quindi l’apporto causale di ognuno – si presumono uguali (cfr. art. 2055 cod. civ., u.c., norma da ritenersi applicabile al caso in esame, in quanto l’illecito concorrenziale che si traduca in situazioni di svantaggio per i clienti nelle condizioni della contrattazione, può agevolmente qualificarsi come una fattispecie di responsabilità precontrattuale che – la si voglia assimilare alla responsabilità da illecito civile o da contratto – è comunque soggetta al principio di cui alla citata norma)”.

Orbene, come questa stessa Corte si è espressa in un recentissimo precedente specifico (Cass. 10 maggio 2011, n. 10212): “nell’analisi della situazione di mercato l’AGCM ha accertato che, in conseguenza di tali comportamenti fra il 1994 ed il 2000 i premi sono aumentati del 96,55% (par. 70 provv. 8546/2000) e del 63% rispetto alla media europea; e che, se nel medesimo periodo i premi italiani per le polizze RCA avessero seguito incrementi analoghi a quelli della media degli altri Paesi europei, i consumatori avrebbero risparmiato L. settemila miliardi, nel solo 1999 (par. 76). L’AGCM pertanto – pur avendo emesso condanna solo per violazione della L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 2 – ha altresì accertato chiaramente che l’illecita intesa si è tradotta in un danno economico di rilevante importo per la massa generalizzata degli utenti dei servizi assicurativi RCA, ed il suddetto accertamento ha costituito parte integrante della valutazione di illegittimità dello scambio di informazioni tra le imprese, che avrebbe potuto altrimenti essere ritenuto legittimo, in considerazione delle esigenze di reciproca informazione al fine della valutazione dei rischi.

Il provvedimento sanzionatorio non ha accertato, cioè, il carattere solo potenzialmente lesivo dei benefici della concorrenza e degli interessi economici dei consumatori – come prospettato dalla ricorrente – ma anche il fatto che tale comportamento ha prodotto un’ingente e ingiustificata lievitazione dei premi sul mercato italiano delle polizze RCA. Ciò che è rimasto incerto è la concreta e specifica misura in cui ognuna delle singole imprese sanzionate ha finito con il contribuire, con il suo comportamento e nei rapporti con i suoi assicurati, all’indebita lievitazione dei premi, poichè l’accertamento dell’AGCM ha fatto riferimento ai livelli medi dei premi europei ed al livello – del pari – medio degli aumenti in Italia, ma poco o nulla ha specificato circa la misura in cui ogni singola impresa abbia effettivamente tradotto le informazioni acquisite tramite il comportamento collusivo nell’incremento dei premi praticati alla propria clientela”.

In tale contesto (in questi termini v. sempre la citata Cass. n. 10212 del 2011):

“….la già riconosciuta facoltà della compagnia assicuratrice convenuta in risarcimento del danno, di fornire la prova contraria alla suddetta presunzione di responsabilità in ordine alla sussistenza del nesso causale fra l’illecito concorrenziale e il danno ed all’entità del danno medesimo, non può avere ad oggetto circostanze attinenti alla situazione generale del mercato assicurativo – quanto ai costi gravanti su tutte le imprese a causa delle truffe, degli adeguamenti imposti dalle Direttive comunitarie, ecc. – ed in particolare le medesime circostanze e prove (o elementi di prova) che l’AGCM ha tenuto presenti nel formulare il suo giudizio e che ha ritenuto irrilevanti al fine di escludere il collegamento fra i comportamenti collusivi e la lievitazione dei premi;

“la stessa AGCM ha infatti tenuto conto dei dati di costo e di settore esposti dalle imprese e riassunti nei pareri ISVAP o nelle altre difese analoghe, ma ha comunque rilevato che il comportamento collusivo ha impedito che le imprese stesse fossero motivate ad operare in modo da ridurre i loro costi per potere ridurre i prezzi (ciò che rientra tra i benefici effetti di un libero mercato concorrenziale: cfr. parr. 77, 78, 240, 259 ss., 263 del provvedimento dell’AGCM, confermato sul punto dal Consiglio di Stato), mentre bene è stato osservato che neppure la necessità di recuperare il passivo accumulato nel precedente periodo di tariffe amministrate o comunque la circostanza dell’operatività in perdita del settore non giustificano comportamenti collusivi, poichè questi trasferiscono sui consumatori, in misura maggiore rispetto a quella che il corretto comportamento commerciale consentirebbe, perdite che il settore imprenditoriale bene o male recupera, o che ritiene comunque vantaggioso affrontare; “in particolare, i dati contenuti nel parere dell’ISVAP sono stati già sottoposti all’esame dell’AGCM, che li ha ritenuti inidonei ad escludere sia il comportamento collusivo, sia gli effetti dannosi che ne sono derivati in termini di incremento dei prezzi per i consumatori (cfr. parr. 192 ss.); con l’ulteriore specificazione che le perdite denunciate dalle compagnie assicuratrici sono anche effetto di inefficienze produttive e del mancato controllo dei costi, conseguente alla violazione delle regole della concorrenza (par. 255 ult. cpv. e par. 263);

Proprio sulla base degli elementi prodotti dalla ricorrente può concludersi (ancora una volta, v. Cass. 10212 del 2011) per l’abnormità dell’incremento dei premi assicurativi in Italia dopo il 1994 e per l’anomalia del mercato italiano nel contesto dei Paesi UE’, sebbene in questi Paesi sia in vigore la medesima normativa comunitaria, siano presenti le stesse problematiche tipiche dell’industria RCA (lotta alle frodi, criteri di risarcimento del danno biologico, costo dei ricambi e delle riparazioni) e l’imposizione fiscale non sia sostanzialmente diversa da quella vigente in Italia (cfr. per esempio parr. 6, 6.2, 7.2).

Di conseguenza, correttamente la documentazione prodotta dalla ricorrente al fine di contestare la sussistenza del nesso causale è stata ritenuta irrilevante dalla sentenza impugnata in questa sede.

La Corte di appello, applicando adeguatamente i principi generali desumibili dall’art. 2055 cod. civ., in ordine all’irrilevanza – nei confronti del danneggiato – della concreta misura dell’apporto causale del singolo danneggiante, si è uniformata al principio per cui la prova dell’insussistenza del nesso causale non può essere tratta da considerazioni di carattere generale attinenti ai dati che influiscono sulla formazione dei premi nel mercato generale delle polizze assicurative, ma deve riguardare situazioni e comportamenti che siano specifici dell’impresa interessata.

Occorreva in particolare dimostrare che – nel caso oggetto di esame – il livello del premio non era stato determinato dalla partecipazione all’intesa illecita, ma da altri fattori: perchè, in ipotesi, la compagnia ebbe a discostarsi dal trend degli aumenti accertato in misura media dall’AGCM (circostanza da dimostrare tramite la documentazione relativa ai criteri seguiti per la determinazione dei premi, ai dati di costo su di essa specificamente gravanti, ecc., nel periodo dell’illecito, rispetto a quello precedente o successivo); o perchè la compagnia versava in peculiari difficoltà economiche (desumibili dalla comparazione dei propri stessi bilanci – in tal senso già Cass. 5941 e 5942 del 2011 – nella loro evoluzione diacronica), che ebbero ad imporre determinate scelte di prezzo; o perchè il contratto copriva particolari rischi, normalmente non inclusi nella polizza, o si riferiva ad assicurati il cui comportamento era caratterizzato da abnorme sinistrosità; e così via.

I motivi proposti dalla ricorrente, dunque, al di là dei rilievi che in precedenza si sono svolti circa la loro inammissibilità, avrebbero dovuto ricevere risposta negativa anche se fossero stati esaminabili nel merito.

8. Il ricorso deve essere rigettato.

9.- Non essendosi costituito l’intimato non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 7 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2011

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