Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27553 del 30/12/2016


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Cassazione civile, sez. lav., 30/12/2016, (ud. 14/09/2016, dep.30/12/2016),  n. 27553

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Alfonso – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AUTOSTRADE PER L’ITALIA S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

G. MAZZINI 27, presso lo studio dell’avv. STUDIO TRIFIRO’ &

PARTNERS AVVOCATI ROMA, rappresentata e difesa dagli avvocati

FAVALLI Giacinto, ZUCCHINALI Paolo, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.N., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avv. Pier Luigi Panici, che

la rappresenta e difende unitamente all’avv. Giovannelli Giovanni,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 758/2010 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositato il 26/08/2010 r.g.n. 1399/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/09/2116 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato ZUCCHINALI PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

con sentenza in data 20 maggio – 26 agosto 2010, la Corte di Appello di MILANO rigettava il gravame proposto il 20 agosto 2008 da AUTOSTRADE per l’ITALIA S.p.a., confermava la decisione resa dal giudice di primo grado, di condanna, in parziale accoglimento della domanda spiegata da G.N., della convenuta società al risarcimento del danno, liquidato in via equitativa (in ragione di Euro 1500,00 all’anno per gli anni dal 1994 al 2000, e di Euro 800,00 per ciascun anno dal 2001 al 2005), per mancata predeterminazione, nel contratto di lavoro a tempo parziale instauratosi fra le parti, della distribuzione dell’orario nel giorno, nella settimana, nel mese e nell’anno.

Osservava, in sintesi, la Corte territoriale che non sussisteva il preteso vizio di ultrapetizione, visto che la domanda dell’attrice comprendeva anche la richiesta di risarcimento del danno contrattuale, come da conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio, indipendentemente perciò anche dalla domanda principale di accertamento della nullità della clausola di part-time, che nel merito poi risultava in violazione della L. n. 863 del 1984, art. 5, la quale prevedeva una durata minima della prestazione (80 ore, poi 96), ma non la sua collocazione temporale, salvo che per un minimo di ore, avendo la lavoratrice un obbligo di reperibilità, sanzionato disciplinarmente, sicchè ella era in attesa della chiamata che avveniva con un preavviso minimo. Dal 2001 in avanti, poi, la collocazione oraria era fissata con turnazioni mobili.

In questa situazione il reperimento di un’altra occupazione sarebbe stato impossibile, nonchè difficile la programmazione regolare della vita familiare e sociale, e pure remota la possibilità per la lavoratrice di non aderire alla proposta di lavoro de qua, con conseguente diritto ad un risarcimento liquidato equitativamente.

Inoltre, la Corte milanese richiamava la sentenza n. 210/1992 della Corte costituzionale (depositata il 11/05/1992 e pubblicata in G. U. 20/05/1992 n. 21, secondo cui, in particolare, la prescrizione – contenuta nella L. 19 dicembre 1984, n. 863, art. 5, comma 2, – in base alla quale nel contratto di lavoro a tempo parziale devono essere indicate, oltre alle mansioni, anche “la distribuzione dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”, denota con chiarezza che il legislatore ha inteso stabilire che sia dell’orario giornaliero, che dei giorni lavorativi, deve “essere indicata la distribuzione”, rispettivamente, nell’arco della giornata e della settimana ecc. In tal modo si è voluto escludere proprio l’ammissibilità di un contratto di lavoro a tempo parziale nel quale sia riconosciuto il potere del datore di lavoro di determinare o variare unilateralmente la collocazione temporale della prestazione lavorativa, ciò che impedirebbe al lavoratore, e alla lavoratrice, di programmare le altre attività cui, fuori di casa o in casa, devono dedicarsi, e verrebbe altresì a ledere la libertà del lavoratore, assoggettato ad un potere di chiamata esercitabile “ad libitum”. La interpretazione contraria, su cui si basano le censure di incostituzionalità formulate dal giudice “a quo”, non appare quindi imposta e neppure suggerita dai comuni canoni ermeneutici, nè certo può trovare conforto – contro quanto ritenuto nella ordinanza di rinvio – in una affermazione di una sentenza della Cassazione, non costituente “ratio decidendi” ma mero “obiter dictum”, mentre anche in questo caso preminente rilievo va riconosciuto al criterio secondo cui, tra più significati possibili di una medesima disposizione, l’interprete deve escludere quello, tra di essi, che non sia coerente con il dettato costituzionale. Quindi, era infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost., del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, comma 2, convertito con modificazioni in L. 19 dicembre 1984, n. 863, in parte “qua”).

Dunque, la violazione della disciplina di legge, ancorchè non comportasse la conversione del porto part-time in full-time, costituiva pur sempre un inadempimento in danno del lavoratore, resosi disponibile aldilà della prestazione concordata, così riducendo lo spazio di tempo programmato per altro lavoro o per altra attività.

Quanto, poi, all’arco temporale, in relazione al qual era applicabile la successiva normativa, la Corte distrettuale osservava che il D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 8, comma 2 in caso di omissione nel contratto della collocazione dell’orario, la determinazione giudiziale della stessa era rimessa a quanto disposto dalla contrattazione collettiva; la possibilità di usare clausole elastiche era prevista dal Decreto n. 61 del 2000, art. 3, comma 7, che per evitare abusi richiedeva alcune specifiche garanzie, quali l’accordo risultante da patto scritto, la previsione di un preavviso, stabilendo altresì che per il periodo anteriore alla data della pronuncia giudiziale, il lavoratore aveva diritto, in aggiunta alla dovuta retribuzione, ad un ulteriore emolumento, a titolo risarcitorio, da liquidarsi con valutazione equitativa. Si trattava, quindi, di sanzione sganciata dalla prova del danno e la cui logica era quella di coprire disagi provocati dal mutamento della collocazione temporale che l’omissione di quest’ultima comportava.

In assenza di specifiche allegazioni era inoltre congrua la quantificazione del danno operata dal primo giudicante, secondo la riportata motivazione.

Infine, il regime della prescrizione era quello del risarcimento del danno di natura contrattuale, avendo la lavoratrice già percepito la retribuzione per le ore lavorate.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso Autostrade per l’Italia S.p.a. con sei motivi, cui ha resistito con controricorso G.N..

Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. in vista della pubblica udienza 14-09-2016.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società ricorrente lamenta ex art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 dello stesso codice di rito, per vizio di ultra ed extrapetita, a nulla valendo il riferimento all’art. 2087 c.c. (“anche”) contenuto nel capo IV delle conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio, norma che nemmeno risultava applicata dalla sentenza impugnata.

Con il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5 parte ricorrente denuncia omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione sul vizio di extrapetizione di cui al cit. art. 112.

Con il terzo motivo ex art. 360 c.p.c., n. 5 omessa o insufficiente motivazione sulla prova del danno. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 8 sotto un primo aspetto intertemporale sub specie del divieto di retroattività di cui all’art. 11 preleggi, ex art. 360 c.p.c., n. 3, essendo erronea l’applicazione della normativa introdotta nel 2000 a fatti anteriori alla stessa, laddove si sarebbe dovuta applicare la previgente normativa del 1984, l’unica che era sta invocata con il ricorso introduttivo, senza quindi violare il principio d’irretroattività.

Con il quinto motivo, poi, la società ricorrente si duole, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della violazione ofalsa applicazione della L. n. 863 del 1984, art. 5, la quale tuttavia non prevedeva alcuna sanzione quanto alla specificazione per iscritto della distribuzione dell’orario di lavoro, trattandosi di forma richiesta ad probationem, e non già ad substantiam, in ordine alla collocazione o distribuzione oraria.

Infine, con il sesto motivo la società deduce violazione o falsa applicazione di norma di legge (il danno contrattuale sub specie 1218 e ss. c.c. in relazione al D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 8), laddove il legislatore del 2000 non intendeva esonerare il lavoratore dalla prova dall’allegazione ma rendere solo agevole la liquidazione.

Incombeva al lavoratore dimostrare la maggiore penosità ed onerosità della prestazione eseguita in ragione degli effetti pregiudizievoli prodotti dalla disponibilità richiesta, salva sempre la possibilità da parte datoriale di contestare i fatto addotti ex adverso, dimostrandone l’infondatezza, mentre la determinazione equitativa del danno si configura come extrema ratio in via del tutto sussidiaria. Citava, tra l’altro, la sentenza di questa Corte (sezione lavoro) n. 2691 del 26/03/1997, secondo cui le cosiddette clausole elastiche, che consentono al datore di lavoro di richiedere “a comando” la prestazione lavorativa dedotta in un contratto di part- time sono illegittime, atteso che l’esigenza della previa pattuizione bilaterale della riduzione di orario comporta – stante la ratio della L. n. 863 del 1984, art. 5 – che, se le parti concordano per un orario giornaliero inferiore a quello ordinario, di tale orario deve essere determinata la collocazione nell’arco della giornata e che, se parimenti le parti convengono che l’attività lavorativa debba svolgersi solo in alcuni giorni della settimana o del mese, anche la distribuzione di tali giornate lavorative sia previamente stabilita. Dall’accertata illegittimità di tali clausole non consegue l’invalidità del contratto part – time, nè la trasformazione in contratto a tempo indeterminato, ma solo l’integrazione del trattamento economico (ex art. 36 Cost. e art. 2099 c.c., comma 2), atteso che la disponibilità alla chiamata del datore di lavoro, di fatto richiesta al lavoratore, pur non potendo essere equiparata a lavoro effettivo, deve comunque trovare adeguato compenso, tenendo conto della maggiore penosità ed onerosità che di fatto viene ad assumere la prestazione lavorativa per la messa a disposizione delle energie lavorative per un tempo maggiore di quello effettivamente lavorato; a tal fine rilevano la difficoltà di programmazione di altre attività, l’esistenza e la durata di un termine di preavviso, la percentuale delle prestazioni a comando rispetto all’intera prestazione (come pure è dato leggere nella relativa motivazione, la sentenza impugnata veniva nella specie cassata per aver proceduto alla liquidazione del danno, sul presupposto di un presunto inadempimento contrattuale e per avere posto a parametro per la determinazione del danno la retribuzione spettante al lavoratore sulla base della prestazione lavorativa a tempo pieno, e non invece il disposto dell’art. 36 Cost..

Così facendo il Tribunale, seppure non incorso nel vizio di ultrapetizione, non avendo posto a fondamento un fatto giuridico diverso da quello dedotto dal lavoratore e dibattuto in giudizio, e non avendo integrato o sostituito gli elementi della causa petendi – aveva tuttavia proceduto ad una liquidazione del danno su presupposti errati. Di conseguenza, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., essendo necessari nuovi accertamenti di fatto, la causa veniva rimessa ad un diverso giudice d’appello).

Tutte le anzidette censure vanno disattese alla luce delle seguenti considerazioni.

In primo luogo, non è ravvisabile il preteso vizio di ultrapetizione, peraltro denunciabile unicamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 in relazione a quanto disciplinato dall’art. 112 c.p.c., non già ex art. 360 c.p.c., n. 3, come invece erroneamente dedotto da parte della società ricorrente.

Appaiono, ad ogni modo, corrette le argomentazioni svolte in proposito dalla Corte distrettuale, che rigettava l’eccezione al riguardo formulata dall’appellante, alla stregua delle conclusioni rassegnate nel ricorso introduttivo del giudizio, laddove infatti l’attrice, previa deduzione di nullità della clausola a tempo parziale apposta al contratto, che si limitava a statuire una utilizzazione parziale comunque garantita per un minimo di 80 ore mensili, senza ulteriori precisazioni, richiamato altresì la L. n. 863 del 1984, art. 5 della, chiedeva al giudice adito di accertare il diritto di essa G. a prestare servizio con un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno, fin dal 16 dicembre 1985 o dalla successiva data che il giudice adito avrebbe accertato in corso di causa, dichiarando altresì invalida la disposizione di servizio 27 gennaio 2001 con articolazione della prestazione di 96 ore, con la condanna inoltre della società convenuta al risarcimento del danno contrattuale, anche ex art. 2087 c.c. nella misura equitativa indicata. A tal riguardo (cfr. in part. pgg. 10 – 13 del ricorso introduttivo) la G., con riferimento all’azionata pretesa risarcitoria, di natura contrattuale, donde la soggezione del diritto alla prescrizione ordinaria, assumeva che la violazione allegata era consistita nell’applicazione non corretta della L. n. 863 del 1984, art. 5.

L’illegittimità del contratto a chiamata non poteva che essere ricondotta, quanto alle conseguenze, 9ell’ambito di una violazione dell’art. 2087 cit.. La chiamata c.d. libera a discrezione dell’impresa (con l’obbligo, sanzionato, di rimanere a disposizione a carico del lavoratore) si poneva in contrasto con l’obbligo di tutela dell’integrità fisica e morale del dipendente, il tutto così come

dettagliatamente allegato in punto di fatto. Dal tenore delle complessive deduzioni contenute nel ricorso introduttivo, dunque, non emerge che il risarcimento dei danni ivi richiesto sia stata ancorato alla sola dedotta nullità parziale del contratto in esame, ma anche alla sua scorretta applicazione, secondo la normativa allora vigente.

Dunque, la doglianza circa l’asserita violazione dell’art. 112 appare inconferente, poichè non corrispondente al contenuto della sentenza, la quale ha fondato la condanna risarcitoria, non già sull’illiceità della detta clausola contrattuale, bensì pure sui modi concreti di attuazione del contratto, i quali comportarono per la lavoratrice imprevedibili chiamate in servizio ad horas, con soppressione della libera disponibilità del loro tempo, compreso quello da non impegnare in attività lavorativa.

Quanto, poi, al secondo ed al terzo motivo, laddove si prospetta il vizio di motivazione, per non aver la Corte di merito rilevato le carenze di allegazioni e prove dei presunti danni derivati dalla mancata programmazione del part – time, le doglianze ivi formulate, che per evidente connessione possono esaminarsi congiuntamente, appaiono infondate.

Invero, per costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. 1721/2009 e i precedenti ivi richiamati) dall’accertata illegittimità delle clausole elastiche nel contratto part – time non consegue l’invalidità del contratto, nè la trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato, ma solo l’integrazione del trattamento economico, ex art. 36 Cost. e art. 2099 c.c., comma 2, atteso che la disponibilità alla chiamata del datore di lavoro, di fatto richiesta al lavoratore, pur non potendo essere equiparata a lavoro effettivo, deve comunque trovare adeguato compenso, in considerazione della maggiore penosità ed onerosità, che di fatto viene ad assumere la prestazione lavorativa per la messa a disposizione delle energie lavorative per un tempo maggiore di quello effettivamente lavorato. A tal fine rilevano la difficoltà di programmazione di altre attività, l’esistenza e la durata di un termine di preavviso, la percentuale delle prestazioni a comando rispetto all’intera prestazione. Sul versante processuale incombe al lavoratore, al fine di pervenire ad un bilanciamento delle prestazioni effettuate, dimostrare la maggiore penosità ed onerosità della prestazione effettuata in ragione degli effetti pregiudizievoli prodotti dalla disponibilità richiesta, salva sempre la possibilità, da parte del datore di lavoro, di contestare i fatti addotti da controparte, dimostrandone l’infondatezza. In siffatto contesto il ricorso alla determinazione equitativa del danno, ex art. 432 c.p.c., si configura come rimedio utilizzabile solo in caso di impossibilità o di estrema difficoltà, di prova sull’effettiva entità del danno subito dal lavoratore.

Orbene, la Corte territoriale si è attenuta ai suddetti principi e la relativa motivazione, che va letta nel suo complesso, non risulta sindacabile in sede di legittimità, alla stregua della formulazione e deduzione delle censure illustrate da parte ricorrente, dal momento che la sentenza impugnata individua le fonti di convincimento e giustifica in modo logicamente plausibile la decisione, dando conto di come l’elasticità della clausola fosse in grado di incidere in concreto sulla autonoma disponibilità dei tempi di lavoro da parte della dipendente interessata, comprimendo, in misura non poco significativa, il discrimine, che non può che restare rigoroso, fra tempi di vita e tempi di lavoro, fra condizione di autonomia e situazione di soggezione ad un altrui potere di intervento e di organizzazione.

Sulla base di tali principi, pertanto, la pronuncia qui impugnata appare immune dalle censure denunciate e il ricorso va, pertanto, rigettato; ciò pure in relazione alle altre doglianze di parte ricorrente.

Infatti, in materia di lavoro part-time, la disponibilità del prestatore di lavoro alla chiamata del datore di lavoro, pur non equiparata a lavoro effettivo, richiede un adeguato compenso, tenendo conto di un complesso di circostanze a tal fine significative, quali l’incidenza sulla possibilità di attendere ad altre attività, il tempo di preavviso previsto o di fatto osservato per la richiesta di lavoro “a comando”, l’eventuale quantità di lavoro predeterminata in misura fissa, la convenienza del lavoratore medesimo a concordare di volta in volta le modalità della prestazione (Cass. lav. n. 23600 del 5/11/2014, Cfr. anche Cass. lav. n. 19771 del 14/09/2009, secondo cui in relazione ai contratti di lavoro a tempo parziale, non può considerarsi idonea, al fine di consentire la deroga al divieto di prestazioni di lavoro supplementare oltre l’orario di lavoro concordato, la clausola di un contratto collettivo nazionale di lavoro che, del tutto genericamente, si limiti a ripetere il dettato della legge senza indicare le specifiche esigenze aziendali che legittimano il ricorso al lavoro supplementare; nè siffatta clausola cessa di essere invalida per il fatto di prevedere il consenso del lavoratore o stabilire limiti quantitativi. Conforme n. 8718 del 2002.

Per altro verso, sebbene in ambito previdenziale, secondo Cass. lav. n. 1430 – 01/02/2012, la distribuzione dell’orario della prestazione, con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno, integra il nucleo stesso del contratto di lavoro a tempo parziale e la ragion d’essere della particolare garanzia costituita dalla forma scritta, che assolve alla funzione di evitare che il datore di lavoro, avvalendosi di una carente o generica pattuizione sull’orario, possa modificarla a proprio piacimento a fini di indebita pressione sul lavoratore. Ne consegue che il contratto di lavoro part-time, che non rechi l’indicazione scritta della distribuzione oraria è nullo e non dà titolo al beneficio contributivo previsto dal D.L. n. 726 del 1984, art. 5, comma 5.

V. ancora Cass. lav. n. 20989 del 12/10/2010: il D.L. n. 726 del 1984, art. 5, convertito nella L. n. 863 del 1984, deve essere interpretato nel senso che il requisito della pattuizione per iscritto dell’orario di svolgimento delle prestazioni a tempo parziale è soddisfatto allorchè, anche mediante rinvio alle tipologie contrattuali previste in sede collettiva, risulti precisata la riduzione quantitativa della prestazione lavorativa e la distribuzione di tale riduzione per ciascun giorno – cosiddetto part-time orizzontale – ovvero con riferimento alle giornate di lavoro comprese in una settimana, in un mese o in un anno per il c.d. part-time verticale.

Più recentemente, poi, Cass. lav. n. 4229 del 3/3/2016, pur avendo opinato che in tema di lavoro a tempo parziale nel regime di cui alla L. n. 863 del 1984, in assenza di una espressa previsione di legge, va escluso che la mancata indicazione in contratto dell’articolazione dell’orario ridotto determini la nullità della clausola di part-time, o comporti l’automatica trasformazione del rapporto in rapporto di lavoro a tempo pieno e il diritto alla retribuzione delle ore in c.d. disponibilità in attesa della fissazione dei turni, ha fatto comunque salvo il solo diritto al risarcimento del danno, per eventuali comportamenti abusivi del datore di lavoro, o quello al compenso del lavoro supplementare, in caso di effettiva prestazione oltre l’orario pattuito.

Ad ogni modo – cfr. Cass. lav. n. 3451 del 22/04/1997 – deve inoltre escludersi, in base ad una lettura della L. n. 863 del 1984, art. 5 conforme al dettato costituzionale, l’ammissibilità di pattuizioni che espressamente attribuiscono al datore di lavoro il potere di variare unilateralmente la collocazione temporale della prestazione lavorativa, atteso che una simile pattuizione toglierebbe al lavoratore la possibilità di programmare altre attività con le quali integrare il reddito ricavato dal lavoro a tempo parziale, possibilità che va salvaguardata in quanto soltanto essa rende legittimo il fatto che dal singolo rapporto di lavoro il dipendente percepisca una retribuzione inferiore a quella “sufficiente” ex art. 36 Cost.).

Vanno, dunque, disattesi anche il 3^ ed il 4^ motivo di ricorso, visto che la pretesa risarcitoria è ammissibile anche sotto il regime di cui alla L. n. 863 del 1984, sicchè è irrilevante l’irretroattività delle disposizioni recate dal D.Lgs. n. 61 del 2000 per il tempo anteriore all’entrata in vigore di quest’ultimo, così come è pure irrilevante il fatto che la L. del 1984, art. 5 prevedesse soltanto una forma scritta ad probationem per la distribuzione o collocazione dell’orario di lavoro, il cui difetto all’evidenza non esclude di per sè il diritto al risarcimento del danno. In altri termini, il fatto che la norma non preveda alcuna espressa sanzione quanto alla omessa specificazione per iscritto (forma non richiesta ad substantiam) della distribuzione dell’orario, alla luce dei succitati principi non significa che tale difetto possa perciò soltanto non comportare conseguenze risarcitorie.

Correlativamente, appaiono infondate le argomentazioni svolte con il sesto motivo, circa l’asserita violazione dell’art. 1218 c.c. e D.Lgs. n. 61 del 2000, art. 8. In primo luogo, come già detto accennato, nella specie non si è avuta alcuna illegittima applicazione retroattiva di questa seconda normativa.

Per il tempo successivo, poi, appare innegabile la fondatezza della pretesa risarcitoria in base testo del D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, art. 8 (attuazione della direttiva 97/81/CE relativa all’accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES – in vigore dal 4-4-2000), laddove, affermata la regola base secondo cui nel contratto di lavoro a tempo parziale la forma scritta è richiesta a fini di prova, con le deroghe quindi ivi dettagliatamente ammesse, al primo comma la norma stabilisce che in difetto di prova in ordine alla stipulazione a tempo parziale del contratto di lavoro, su richiesta del lavoratore potrà essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data in cui la mancanza della scrittura sia giudizialmente accertata, fermo restando il diritto alle retribuzioni dovute per le prestazioni effettivamente rese prima della suddetta. Il comma 2, quindi, dopo aver premesso che l’eventuale mancanza o indeterminatezza nel contratto scritto delle indicazioni di cui all’art. 2, comma 2, non comporta la nullità del contratto di lavoro a tempo parziale, contempla due ipotesi: qualora l’omissione riguardi la durata della prestazione lavorativa, può essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale; qualora invece l’omissione riguardi la sola collocazione temporale dell’orario, il giudice provvede a determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale con riferimento alle previsioni dei contratti collettivi di cui all’art. 3, comma 7, o, in mancanza, con valutazione equitativa, tenendo conto in particolare delle responsabilità familiari del lavoratore interessato, della sua necessità di integrazione del reddito derivante dal rapporto a tempo parziale mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonchè delle esigenze del datore di lavoro. Comunque, per il periodo anteriore alla data della pronuncia della sentenza, il lavoratore ha in entrambi i casi diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta, alla corresponsione di un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi con valutazione equitativa.

Trattandosi, inoltre, chiaramente di responsabilità di natura contrattuale, ogni conseguente prova liberatoria resta evidentemente a carico della parte inadempiente (nella specie parte datoriale in base alle previsioni del succitato art. 8) ai sensi dell’art. 1218 c.c. (responsabilità del debitore: il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile).

Dunque, il ricorso va respinto, con la condanna della soccombente alle spese, liquidate come da seguente dispositivo (non si fa luogo a distrazione per mancanza di dichiarazione di anticipo, ex art. 93 c.p.c., non risultando sufficiente al riguardo al sola richiesta di attribuzione).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15 %, i.v.a. e c.p.a. come per legge, a favore di parte controricorrente.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2016

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