Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27545 del 02/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 02/12/2020, (ud. 16/09/2020, dep. 02/12/2020), n.27545

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22847/2015 proposto da:

ICE – AGENZIA PER LA PROMOZIONE ALL’ESTERO E L’INTERNAZIONALIZZAZIONE

DELLE IMPRESE ITALIANE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO

presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n.

12;

– ricorrente –

contro

D.G.G., B.R., C.C.G., tutti

elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE CARSO 23, presso lo studio

dell’avvocato MARIA ROSARIA DAMIZIA, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3642/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/04/2015 R.G.N. 6437/2011;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16/09/2020 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. con ricorso al Tribunale di Roma D.G.G., B.R. e C.C.G., tutti ex dirigenti dell’Istituto Commercio Estero (ICE) hanno convenuto in giudizio il predetto ente al fine di far accertare il loro diritto ad ottenere la liquidazione dell’indennità di fine servizio sulla base della normativa (L. n. 70 del 1975, art. 13) applicabile ai dipendenti degli enti pubblici non economici e ciò per l’intero servizio prestato, senza il frazionamento delle erogazioni di fine rapporto attraverso la liquidazione di una parte secondo il regime del t.f.r. (per il periodo dal 18.7.1990 al 31.12.1997 in cui il personale dell’Istituto fu sottoposto, ai sensi della L. n. 106 del 1989, art. 5, alla disciplina privatistica ed ai trattamenti economici e normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro del settore assicurativo) e solo per il resto secondo il regime di cui all’art. 13 cit.;

la domanda è stata accolta dal Tribunale e la pronuncia è stata confermata dalla Corte d’Appello di Roma, la quale ha richiamato Cass. 26557/2008, per affermare la sottoposizione del personale I.C.E., dopo il reingresso nella disciplina degli enti pubblici non economici disposto dalla L. n. 68 del 1997, art. 10, esclusivamente alle regole proprie dei dipendenti di essi;

2. l’I.C.E. – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane (Agenzia ICE), nel corso del processo subentrata in forza del D.L. n. 98 del 2011, nei rapporti giuridici, anche di lavoro (art. 14, comma 26-octies), già facenti capo all’ICE, ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, resistiti da controricorso delle parti private, che hanno infine depositato anche memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia dell’eccezione di prescrizione;

il motivo è infondato;

i lavoratori hanno agito per riliquidazione del trattamento ricevuto a fine rapporto e non vi è questione sul fatto che essi abbiano rispettato il termine quinquennale, di cui all’art. 2948 c.c., n. 5, rispetto al momento di maturazione del diritto; Agenzia ICE sostiene invece che a determinare la prescrizione starebbe il fatto che i lavoratori, essendo stati nel corso del rapporto a conoscenza degli accantonamenti per t.f.r. eseguiti in loro favore, avrebbero fin da allora dovuto procedere ad azione di accertamento del regime da applicare;

è vero che i lavoratori avrebbero potuto agire anche in corso di rapporto, stante la palese incertezza derivata dalla complessità della normativa e l’anomalia del fenomeno giuridico verificatosi, al fine di far accertare il diritto all’applicazione del regime del trattamento di fine servizio secondo il disposto della L. n. 70 del 1975, art. 13 e l’ininfluenza degli accantonamenti eseguiti a titolo di t.f.r. per il periodo dal 18.7.1990 al 31.12.1997 (pur se in diversa vicenda, v. Cass., 4 febbraio 2010, n. 2625);

tuttavia, non si può confondere quella che è una mera facoltà, finalizzata a rimuovere un’incertezza, con il dovere di procedere in tal senso pena il maturare della prescrizione per il diritto ancora non maturato e che sarebbe conseguito solo alla cessazione del rapporto;

rispetto ad azioni di accertamento come quella ipotizzata da Agenzia ICE, proprio perchè il diritto finale non è ancora sorto, non è predicabile la prescrizione (Cass. 19 marzo 2014, n. 6332; Cass. 10 ottobre 2007, n. 21239) e consequenzialmente nessun effetto può avere il loro mancato esercizio rispetto alle pretese indirizzate, dopo la cessazione del rapporto, contro la determinazione dei diritti e la loro quantificazione infine operata dal datore di lavoro;

è poi vero che la Corte territoriale non ha fatto menzione dell’eccezione e che la ricorrente ha trascritto nel ricorso il contenuto dell’atto di appello con cui essa fu coltivata in secondo grado, ma stante l’infondatezza in diritto, vale il principio per cui “alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di gravame, la Suprema Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con quel motivo risulti infondata, di modo che la statuizione da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (tra le molte, v. Cass. 28 giugno 2017, n. 16171) il che, allorquando si tratti di rigettare un’eccezione rispetto ad una domanda avversaria accolta, si traduce in realtà in una mera integrazione della motivazione mancata;

2. con il secondo motivo Agenzia ICE assume la violazione e falsa applicazione della L. n. 70 del 1975, art. 13 e D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, nonchè dell’art. 2120 c.c. e dei contratti collettivi di lavoro ratione temporis applicabili sostenendo che, pur se i dirigenti non erano stati contemplati dalla disciplina collettiva che per gli altri dipendenti, dopo il 1997, aveva disposto la protrazione del regime di t.f.r., fosse ragionevole la sottoposizione del proprio personale ad un medesimo regime, tanto che nè i diretti interessati, nè le organizzazioni sindacali avevano contestato la scelta così operata;

il terzo motivo denuncia invece, con riferimento alla medesima questione, la violazione degli artt. 132 e 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulla domanda con la quale si era richiesto in grado di appello che il regime di cui all’art. 13, fosse quanto meno limitato al periodo successivo al 1998;

3. i motivi, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente;

3.1 il personale dell’ICE, ai sensi della L. n. 106 del 1989, art. 5, comma 5, fu sottoposto per legge, a partire dal 18.7.1990, alla disciplina della contrattazione collettiva privata del settore assicurativo, anche rispetto al t.f.r.;

successivamente la disciplina legale è mutata;

secondo la L. n. 68 del 1997, art. 10, infatti “il rapporto di lavoro dei dirigenti e del personale dell’ICE è disciplinato dai contratti collettivi del comparto degli enti pubblici non economici” (comma 1) e “alle materie non disciplinate dai contratti di cui al comma 1 si applica il regolamento del personale di cui all’art. 4, comma 3, lett. a)” (comma 2);

la riforma è stata intesa da questa Corte come tale da avere comportato un’evoluzione dei rapporti di lavoro verso il regime del pubblico impiego privatizzato (Cass. 20 giugno 2016, n. 12679);

nel 2011, l’ICE è stato poi soppresso ed il personale è stato distribuito tra la nuova Agenzia ICE e il MISE, ma la norma (D.L. n. 98 del 2011, art. 14, comma 26-octies) ha previsto che “ai dipendenti trasferiti al Ministero dello sviluppo economico e all’Agenzia di cui al comma 18, mantengono l’inquadramento previdenziale di provenienza nonchè il trattamento economico fondamentale e accessorio limitatamente alle voci fisse e continuative, corrisposto al momento dell’inquadramento”;

non vi è quindi dubbio che tale ulteriore evoluzione ordinamentale non abbia comportato mutamenti nell’assetto dei diritti oggetto di causa che restano quindi da definire secondo la disciplina preesistente ad esso;

3.2 con riferimento quindi alla richiamata previsione di cui alla L. n. 68 del 1997, art. 10, non vi è dubbio che la contrattazione collettiva in concreto non sia intervenuta quanto ai dirigenti, perchè il c.c.n.l. 1998-2001, oltre a risultare applicabile (art. 1) solo ai non dirigenti, nel regolare la protrazione del regime di t.f.r. di cui alla disciplina previgente, lo ha fatto con esplicito riferimento al “personale non dirigente” (art. 46);

ciò non consente di aderire, anche per l’inequivoca limitazione letterale, alla tesi secondo cui ai dirigenti potrebbero estendersi le regole applicate per i non dirigenti; al contempo la normativa specifica dell’ICE del 1997 non ha previsto forme opzionali (l’opzione era stata prevista invece dalla L. n. 106 del 1989, art. 5, comma 5, in relazione ai mutamenti illo tempore intervenuti), nè, trattandosi di lavoratori già in servizio al 31.12.1995, è fatta questione di avvenuto esercizio dell’opzione di cui alla L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 56 (e successive norme ed accordi attuativi), sicchè le regole generali sulla trasformazione in t.f.r. non sono di ostacolo al permanere del regime dell’indennità di fine servizio del parastato (sul tema, v. Cass. S.U. 25 marzo 2010, n. 7158, in motivazione);

nè ha rilievo il D.L. n. 78 del 2010, art. 10, comma 12, norma che avrebbe (ma, in senso contrario v. anche Corte Cost. 11 ottobre 2012, n. 223) fatto trasmigrare i regimi di t.f.s. a regimi di t.f.r., in quanto la disposizione è stata abrogata (L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 98), con previsione anche di riliquidazione di quanto attuato medio tempore secondo i sistemi previgenti;

d’altra parte, Cass. 5 novembre 2008, n. 26557, seppure ad altri fini, ha sottolineato come, nonostante l’evoluzione normativa, i rapporti di lavoro con l’ICE abbiano avuto continuità giuridica;

in questo quadro, nell’assenza di una normativa che sia intervenuta esplicitamente a regolare la vicenda sotto il profilo del trattamento di fine servizio, non è possibile ipotizzare la tesi di una liquidazione pro rata di esso, con periodi regolati secondo un regime (t.f.r.) ed altri secondo altro regime (L. n. 70 del 1975, art. 13);

i diritti di fine rapporto, comunque denominati, sorgono infatti, a parte le possibilità di anticipazione di cui qui non si discute, solo al termine del rapporto di lavoro (Cass. 19 luglio 2018, n. 19277; Cass. 6 febbraio 2018, n. 2827; Cass. 23 aprile 2009, n. 9695);

essi pertanto, in assenza di norme diverse, soggiacciono al regime esistente in quel momento;

al contempo, le regole di accantonamento o contribuzione che assistono le diverse forme ed i diversi istituti, riguardano le modalità di realizzazione e conservazione della provvista e, allorquando vi siano mutamenti di regime, si pone soltanto il diverso problema di regolare le eventuali modalità di confluenza di tale provvista verso chi sia tenuto all’erogazione ultima;

tale fenomeno risulta nel caso di specie meno gravoso in quanto sia il t.f.r. sia l’indennità di fine servizio sono a carico del datore di lavoro, il che potrebbe anche consentire l’assorbimento mediante detrazione di eventuali anticipazioni erogate all’epoca in cui vigeva il t.f.r., ma in ogni caso non può incidere sugli obblighi che discendono la legge e che sono da applicare al momento della cessazione del rapporto;

la sentenza impugnata ha quindi fatto buon governo della disciplina giuridica coinvolta;

è poi da escludere qualsivoglia rilievo all’asserita omissione o apparenza di pronuncia rispetto alla pretesa subordinata di applicazione del regime t.f.r. dal 1990 al 1997, di cui al terzo motivo;

l’ipotesi giuridica su cui si basa tale domanda subordinata è infatti smentita da quanto sopra argomentato in diritto e quindi il motivo è in ogni caso inammissibile (Cass. 1 marzo 2019, n. 6145; Cass., S.U., 2 febbraio 2017, n. 2731);

4. il quarto motivo sostiene la nullità della sentenza di secondo grado per non avere pronunciato, così violando l’art. 112 c.p.c., sul motivo di appello con il quale si era censurata la sentenza del Tribunale per avere ritenuto che anche a favore di D.G.G. fossero maturate differenze per i titoli azionati, non conteggiando l’importo di Euro 18.850,51 di cui l’Amministrazione affermava l’avvenuto pagamento;

la ricorrente sostiene che l’avvenuto pagamento di quell’importo fosse pacifico, per omessa contestazione e comunque rileva che in appello era stata prodotta la prova documentale della relativa disposizione;

il motivo è inammissibile;

va infatti fatta applicazione del principio per cui “nel caso di denuncia, in sede di ricorso per cassazione, del vizio di omessa pronuncia, è necessaria l’illustrazione del carattere decisivo della prospettata violazione, dimostrando che ha riguardato una questione astrattamente rilevante, posto che, altrimenti, si dovrebbe cassare inutilmente la decisione gravata” (Cass. 2 agosto 2016, n. 16102);

d’altra parte, la valutazione di tale decisività va condotta sulla base di dati che siano stati ritualmente addotti con il ricorso;

nel caso di specie, la ricorrente, pur affermando che quel pagamento fosse pacifico, non trascrive i documenti o gli atti da cui andrebbe tratta tale conclusione ed anche la disposizione di pagamento prodotta in secondo grado grado è menzionata ma non ne è trascritto il contenuto;

analogamente, risultando dallo stesso ricorso per cassazione che per il D.G., quale differenza tra percepito e corrisposto, era stata chiesta la somma di Euro 23.460,16, mentre a suo favore sono stati riconosciuti dal Tribunale Euro 10.252,70, non si vede come possa affermarsi, sulla base di tali soli dati, che, attraverso l’esclusione dell’avvenuto pagamento di Euro 18.850,51, si sia determinata eccedenza del pronunciato rispetto al richiesto;

la formulazione del motivo si pone dunque in contrasto sia con i presupposti di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1 (Cass. 24 aprile 2018, n. 10072) e di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., S.U., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime (con riferimento in particolare, qui, ai nn. 4 e 6 della stessa disposizione), da cui si desume la necessità che la narrativa e l’argomentazione siano idonee, riportando anche la trascrizione esplicita dei passaggi degli atti e documenti su cui le censure si fondano, a manifestare pregnanza, pertinenza e decisività delle ragioni di critica prospettate, senza necessità per la S.C. di ricercare autonomamente in tali atti e documenti i corrispondenti profili ipoteticamente rilevanti (v. ora, sul punto, Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34469);

5. la complessità e novità della questione principale dibattuta di causa giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2020

 

 

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