Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27535 del 02/12/2020

Cassazione civile sez. II, 02/12/2020, (ud. 08/09/2020, dep. 02/12/2020), n.27535

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24585/2019 proposto da:

A.A., rappresentato e difeso dall’Avvocato ARNOLD ZAGO, per

procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei

Portoghesi 12, domicilia per legge;

– controricorrente –

Avverso il decreto n. 5932/2019 del TRIBUNALE DI VENEZIA, depositato

il 18/7/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata dell’8/9/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Venezia, con il decreto in epigrafe, ha respinto il ricorso con il quale A.A., nato in (OMISSIS), ha impugnato il provvedimento della commissione territoriale che aveva rigettato la sua domanda di protezione internazionale.

A.A. ha chiesto, per cinque motivi, la cassazione del decreto.

Il ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentandola violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7, 8, art. 14, lett. c) e art. 27, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato “non risultando oggettivamente dimostrata nè risultando offerti adeguati elementi che avvalorino la dedotta correlazione dell’espatrio con persecuzioni legate a motivazioni anche latamente politiche o riconducibili ad altri aspetti previsti dalla Convenzione di Ginevra”.

1.2. Così facendo, tuttavia, ha osservato il ricorrente, il tribunale non ha adempiuto il suo dovere di cooperazione istruttoria, colmando, mediante l’esercizio del potere istruttorio ufficioso previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, i margini di incertezza e di dubbio sulla veridicità della narrazione svolta dal richiedente.

2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentandola violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7, 8, art. 14, lett. c) e art. 27, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale, citando informazioni risalenti alla prima metà del 2018, ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria sul rilievo che, in Pakistan, non esiste un conflitto armato tale da determinare un rischio specifico e individualizzato di grave danno a carico del richiedente.

2.2. Così facendo, però, ha osservato il ricorrente, il tribunale non ha adempiuto il suo dovere di cooperazione istruttoria, il cui assolvimento comporta l’assunzione di informazioni specifiche, attendibili ed aggiornate sulla situazione politica e sociale del Paese d’origine del richiedente.

3.1. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentandola violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7, 8, art. 14, lett. c) e art. 27, nonchè la motivazione apparente e/o il contrasto irriducibile tra le risultanze delle informazioni sulla situazione socio-politica ed economica del Paese di provenienza e le conclusioni giuridiche assunte, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale ha rigettato la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria sul rilievo che, in Pakistan, non esiste un conflitto armato tale da determinare un rischio specifico e individualizzato di grave danno a carico del richiedente.

3.2. Tale conclusione, tuttavia, ha assunto il ricorrente, non è conciliabile con i dati che, alla luce delle informazioni assunte, sono riportati nello stesso decreto impugnato. Il tribunale, infatti, con riguardo alla regione di provenienza del richiedente, e cioè la città di Sialkot nel Punjab, pur evidenziando che la situazione complessiva della sicurezza è migliorata nel 2017 rispetto agli anni precedenti, ha nondimeno evidenziato l’esistenza del rischio di attentati terroristici e di violenze etniche e settarie da parte di gruppi di militanti sunniti. Numerosi sono stati, tra il 2014 ed il 2018, i morti tra i terroristi militanti in azioni svolte dalla polizia pakistana. I morti in episodi di violenza nella città di Sialkot, tra il 2016 ed il 2017, sono quadruplicati e la situazione nel 2018 non è sostanzialmente mutata.

3.3. I dati esposti, quindi, ha proseguito il ricorrente, risulta in stridente ed inconciliabile contrasto con le conclusioni cui il tribunale perviene in ordine all’inesistenza di un conflitto armato e di un pericolo di grave danno alla popolazione, con il conseguente vizio di motivazione.

4.1. I motivi, da esaminare congiuntamente, sono infondati.

4.2. Il tribunale,in effetti, ha ritenuto, innanzitutto, che “i fatti riferiti dal ricorrente, in assenza di aspetti persecutori diretti e personali, non sono riconducibili alle previsioni di cui alla… Convenzione di Ginevra” ed ha, quindi, respinto, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e), la domanda diretta al riconoscimento dello status di rifugiato “non risultando oggettivamente dimostrata nè risultando offerti adeguati elementi che avvalorino la dedotta correlazione dell’espatrio con persecuzioni legate a motivazioni anche latamente politiche o riconducibili ad altri aspetti previsti dalla Convenzione di Ginevra”.

Il tribunale, inoltre, ha rigettato la domanda di protezione sussidiaria ritenendo che, alla luce del rapporto EASO 2018, la situazione della sicurezza in Pakistan, pur essendo caratterizzata da conflitti politici ed etnici e da violenza settaria, oltre che da controversie internazionali con India e Afghanistan, non è così grave, neppure nel Punjab, da configurare, ai fini previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), un conflitto armato che determina un rischio specifico e individualizzato di grave danno a carico del richiedente.

Si tratta, com’è evidente, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, di un apprezzamento fattuale, non censurato dal ricorrente, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per omesso esame circa uno o più fatti decisivi specificamente indicati, a fronte del quale la decisione conseguentemente assuntadal giudice di merito, certamente non illogica e contraddittoria rispetto ai dati accertati, si sottrae alle censure svolte in ricorso.

In effetti, il requisito essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate (Cass. n. 18353 del 2006): ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la situazione socio-politica o normativa del Paese di provenienza è, dunque, rilevante solo se correlata alla specifica posizione del richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica (Cass. n. 30105 del 2018, la quale ha ritenuto che il relativo accertamento integra un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nei limiti di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5; conf., Cass. n. 10177 del 2011).

Nello stesso modo, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h) e, in termini identici, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g), definiscono come “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Il D.Lgs. n. 251 cit., art. 14, comma 1, a sua volta, dispone che il “danno grave” sussiste, tra l’altro, nell’ipotesi di”c)… minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. In particolare, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria prevista dal D.Lgs. n. 251 cit., art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata – in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12) – nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, per cui il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019; Cass. n. 9090 del 2019; Cass. n. 14006 del 2018).

Nel caso di specie, invece, come detto, non è risultato accertato, in punto di fatto, nè che il ricorrente possa essere assoggettato ad una persecuzione personale e diretta per l’appartenenza ad un’etnia, associazione, credo politico o religioso, ovvero in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, nè che lo stesso, in caso di rientro in patria, possa ricevere una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona in ragione della violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

4.3. Nè risulta fondatala censura concernente il dedotto inadempimento da parte del giudice di merito al dovere di cooperazione istruttoria.

Invero, come questa Corte ha affermato (cfr. le ordinanze n. 13449 del 2019, n. 13450 del 2019, n. 13451 del 2019 e n. 13452 del 2019), il giudice di merito, nel fare riferimento alle cd. fonti privilegiate di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, deve indicare la fonte in concreto utilizzata nonchè il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante ai fini della decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità dell’informazione predetta rispetto alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione.

Nel caso di specie, la decisione impugnata soddisfa i suindicati requisiti, posto che la stessa ha indicato la fonte in concreto utilizzata ed il contenuto delle notizie sulla condizione del Paese tratte da detta fonte. Ed è noto che, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, il ricorrente ha il dovere, inadempiuto nel caso di specie, di indicare in modo specifico gli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, con il preciso richiamo, anche testuale, alle fonti di prova proposte, alternative o successive rispetto a quelle utilizzate dal giudice di merito, in modo da consentire alla Suprema Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (cfr. Cass. n. 26728 del 2019).

5.1. Con il quarto motivo ed il quinto motivo, il ricorrente, lamentando, rispettivamente, un error in procedendo a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 19, comma 2, ha censurato il decreto impugnato nella parte in cui il tribunale, senza alcuna valida giustificazione, ha rigettato la domanda di protezione umanitaria.

5.1. Il tribunale, infatti, ha osservato il ricorrente, ha ritenuto che “nessuna specifica ragione di vulnerabilità è stata allegata dal ricorrente”, laddove, al contrario, il richiedente aveva provveduto a tale onere di allegazione, evidenziando, tanto in sede di audizione personale da parte della commissione territoriale, quanto nel corso dell’udienza di comparizione innanzi al tribunale, il pericolo attuale di subire violenze fisiche da parte dell’ex datore di lavoro che tuttora lo incolpa dell’incendio e della distruzione della fabbrica presso la quale il ricorrente era impiegato.

5.2. Il tribunale, inoltre, ha proseguito il ricorrente, ha ritenuto non credibili le dichiarazioni rese dal richiedente, laddove, in realtà, i margini d’incertezza e di dubbio sulla veridicità della narrazione nonchè gli episodi di persecuzione diretta e personale, che il ricorrente ha allegato, avrebbero potuto e dovuto essere confermati e colmati attraverso l’esercizio del potere-dovere istruttorio ufficioso.

5.3. Il ricorrente, del resto, risulta da anni nel territorio italiano, dove si è ben inserito e dove svolge un’attività lavorativa che gli consente di mantenersi.

5.4. I motivi, da trattare congiuntamente, sono infondati.

In tema di protezione internazionale, infatti, l’accertamento del giudice del merito deve avere, anzitutto, ad oggetto la credibilità soggettiva del richiedente il quale, infatti, ha l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a), essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (cfr. Cass. n. 27503 del 2018).

La valutazione d’inattendibilità del richiedente costituisce, peraltro, un apprezzamento di fattoche può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e cioè per l’omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata ovvero per la mancanza di motivazione nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità.

5.5. Nel caso di specie, il tribunale ha ritenuto che il racconto svolto dal richiedente non era credibile “alla luce delle contraddizioni in cui è incorso… in particolare in ordine al pestaggio a cui sarebbe stato sottoposto per incolparsi dell’incendio…”.

D’altra parte, ha aggiunto il tribunale, non può non rilevarsi come “a distanza di oltre 12 anni da quando si sarebbe verificato l’incendio, il pericolo a cui il ricorrente dichiara di essere tuttora esposto non è credibile che sia attuale…”e che “anzi, questa insistenza sulla persecuzione nei suoi confronti da parte del padrone della fabbrica, che addirittura potrebbe volerlo vedere morto per non essersi incolpato innanzi alla polizia, rende non credibile l’intera vicenda raccontata”.

5.6. Ora, a fronte di tale apprezzamento, il ricorrente non ha specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame, nell’accertamento dell’attendibilità della sua narrazione, sia stato del tutto omesso dal giudice di merito, nè il “dato”, testuale o extratestuale, da cui gli stessi risulterebbero esistenti, il “come” e il “quando” tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti, nè, infine, la loro “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.), limitandosi, piuttosto, a sollecitare un’inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, in effetti, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Com’è noto, il compito di questa Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro, nel rispetto dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, abbiano dato coerentemente conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, sia tale da rendere oggettivamente percepibili le ragioni della decisione assunta: come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. Il tribunale, invero, dopo aver valutato le prove raccolte in giudizio, ha, in modo comprensibile, oltre che logico e coerente, indicato le ragioni per le quali (non importa se a ragione o torto) ha escluso, in fatto, la credibilità soggettiva del richiedente e, quindi, la sussistenza dei presupposti necessari della protezione umanitaria che lo stesso aveva invocato.

5.7. Nè può invocarsi la dedotta violazione del dovere di cooperazione istruttoria se non altro perchè l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente, affermata dai giudici di merito, costituisce motivo sufficiente per negare anche la protezione di cui trattasi (Cass. n. 31480 del 2018).

D’altra parte, questa Corte ha già avuto occasione di chiarire, nella sentenza n. 4455 del 2018 (successivamente riaffermandolo in Cass. n. 17072 del 2018 ed in Cass. n. 22979 del 2018), che, se assunto isolatamente, il contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza non integra, di per sè solo ed astrattamente considerato, i seri motivi di carattere umanitario, o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, in quanto il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU – può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione ed il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale (cfr. Corte EDU, sent. 8/4/2008). In altri termini, la riscontrata non individualizzazione dei motivi umanitari non può esser surrogata dalla situazione generale del Paese d’origine del richiedente perchè, altrimenti, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto ma, piuttosto, quella del suo Stato d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e tenuto conto che il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia può essere valorizzato, come presupposto della protezione umanitaria, non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (cfr. Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nella specie, è stata esclusa.

6. I motivi articolati in ricorso si rivelano, in definitiva, del tutto infondati. Peraltro, poichè il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.

7. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

8. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al ministero dell’interno le spese di lite, che liquida in Euro 2.100,00, per compenso, oltre spese prenotate a debito; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 8 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2020

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