Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27529 del 30/12/2016


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Cassazione civile, sez. II, 30/12/2016, (ud. 23/11/2016, dep.30/12/2016),  n. 27529

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19849/2012 proposto da:

N.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA CICERONE 44, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CARLUCCIO,

rappresentata e difesa dagli avvocati NICOLA DE GIOSA, FERDINANDO DE

GIOSA;

– ricorrente –

contro

M.A.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA G. MERCALLI 13, presso lo studio dell’avvocato ARTURO

CANCRINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

SANDRO MARCO STEFANELLI;

– controricorrente –

e contro

N.V., C.T.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 228/2012 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 19/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/11/2016 dal Consigliere Dott. GUIDO FEDERICO;

udito l’Avvocato Ninfadoro Valeria con delega depositata in udienza

dell’Avv. Cancrini Arturo difensore del controricorrente che si

riporta agli atti depositati;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

Con atto di citazione notificato il 12.9.2003 M.A. conveniva innanzi al Tribunale di Brindisi N.S., esponendo:

– di aver concluso un preliminare in forza del quale il convenuto si obbligava a vendere a lui o a persona da nominare un’abitazione sita in (OMISSIS), della quale il promittente alienante si era riservato il diritto di usufrutto per la durata di 5 anni sulla quota di 1/5;

– il prezzo era stato pattuito in 66.000,00 Euro e la somma di 33.000,00 Euro era stata versata contestualmente alla conclusione del preliminare;

– l’attore aveva appreso che il N. si era recato presso lo studio del notaio P. per alienare l’immobile oggetto del preliminare a tale C.T..

Chiedeva pertanto la pronuncia di sentenza ex art. 2932 c.c., avente ad oggetto l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto definitivo di vendita.

Il N., costituitosi, chiedeva la reiezione delle domande ed, in via riconvenzionale, l’annullamento del contratto preliminare per errore o dolo, e la conseguente condanna dell’attore al risarcimento del danno, oltre alla condanna per responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c..

Con atto di citazione notificato il 15.9.2003 il N. evocava, a sua volta, in giudizio il M., esponendo che:

nel luglio 2003 aveva rifiutato la proposta di vendere l’immobile formulatagli dal convenuto e che in data 24 luglio 2003 il figlio, N.V., aveva rinvenuto un assegno di 30.000,00 Euro: in tale circostanza aveva appreso che suo padre aveva sottoscritto con il M. un preliminare di vendita alla presenza del notaio Pe., in data 24.7.2003;

– il convenuto aveva versato una caparra di importo assai elevato per costringere il promittente alienante alla futura vendita.

Chiedeva pertanto la pronuncia di nullità del contratto per vizio di forma ai sensi degli artt. 1350 e 1351 c.c., deducendo che la promessa di vendita necessitava della presenza di testimoni, ovvero di annullamento del contratto, per dolo o errore, e la condanna del convenuto al risarcimento del danno.

Successivamente, interveniva in giudizio C.T., il quale chiedeva l’accoglimento delle domande proposte dal N..

A seguito del decesso di N.S. il processo veniva riassunto dagli eredi di questo, N.V. e N.A., i quali si riportavano alle domande ed alle difese proposte dal de cuius.

Con la sentenza n. 522/08 pubblicata il 24 luglio 2008 il Tribunale di Brindisi respingeva le domande di nullità e di annullamento del contratto preliminare spiegate da N.A. e V., nonchè la domanda di esecuzione forzata ex art. 2932 c.c., formulata dal M..

Dichiarava l’inadempimento del N. all’obbligo di concludere il contratto e conseguentemente condannava N.A. e V. alla restituzione della somma di 30.000,00 Euro, ricevuta a titolo di caparra, oltre al risarcimento del danno, determinato in 5.000,00 Euro.

La Corte d’Appello di Lecce, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda ex art. 2932 c.c., spiegata dal M., confermando la condanna del N. al risarcimento del danno, determinato in 5.000,00 Euro.

La Corte, per quanto qui ancora interessa, ricondotta la domanda di annullamento spiegata da N. alla fattispecie di cui all’art. 1439 c.c., ne confermava la reiezione, ritenendo che gli elementi posti a fondamento della configurabilità di un comportamento ingannevole da parte del M. non avessero i requisiti di cui all’art. 2729 c.c..

Il giudice di secondo grado, inoltre, premessa la compatibilità della domanda ex art. 2932 c.c., con la pattuizione della caparra confirmatoria, affermava, in relazione alla mancanza della dichiarazione prescritta dalla L. 47 del 1985, art. 40, che la dichiarazione suddetta non configura presupposto processuale ma condizione della pronuncia onde essa era stata ritualmente acquisita in secondo grado.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione N.A..

M.A. ha resistito con controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c., mentre gli altri intimati non hanno svolto, nel presente giudizio, attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo la ricorrente denunzia la insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3) e 5), censurando la statuizione della Corte d’Appello che, qualificata la domanda proposta in primo grado come domanda di annullamento per dolo, ha ritenuto la mancanza di elementi idonei ad integrare il dolus malus da parte del M..

Secondo la ricorrente sussistono diversi elementi in forza dei quali è possibile desumere che le condizioni psico-fisiche del N. all’epoca del preliminare non erano tali da consentirgli di comprendere gli atti giuridici da lui posti in essere onde la Corte avrebbe dovuto disporre l’annullamento del contratto, riconducendo il caso di specie alla “più corretta previsione” di cui dell’art. 428 c.c..

Il motivo è inammissibile in quanto si risolve in una mera rivalutazione dei fatti già oggetto del sindacato del giudice di merito.

Premessa le genericità del motivo, in quanto non viene enucleato il punto decisivo della controversia in relazione al quale sussiste la carenza motivazionale, non risulta adeguatamente censurata la statuizione della Corte che ha, da un lato affermato la carenza degli elementi costitutivi dell’annullamento ex art. 428 c.c. e dall’altro ha ritenuto, con valutazione logica, coerente ed esaustiva che gli elementi dedotti in relazione al comportamento ingannevole del promissario acquirente rilevante ai fini della fattispecie di cui all’art. 1439 c.c., fossero privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c..

Non sussiste dunque il dedotto vizio di carenza motivazionale, configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento.

Nel caso, invece, in cui vi sia mera difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato degli elementi delibati dal giudice di merito, il motivo di ricorso si risolve, come nel caso di specie, in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Ss.Uu. 24148/2013).

Con il secondo motivo la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 345 c.p.c., lamentando che la Corte abbia ritenuto ammissibile la produzione nel giudizio di appello di documenti la cui mancanza aveva determinato la pronuncia di rigetto della domanda ex art. 2932 c.c., da parte del giudice di prime cure, trattandosi di documenti che la parte avrebbe ben potuto produrre nel giudizio di primo grado.

Pure tale motivo è infondato.

Ed invero secondo il consolidato indirizzo di questa Corte in tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita di un immobile, la sussistenza della dichiarazione sostitutiva di atto notorio, di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, rilasciata dal proprietario o da altro avente titolo, attestante l’inizio dell’opera in data anteriore al 2 settembre 1967, non costituisce un presupposto della domanda, bensì una condizione dell’azione, che può intervenire anche in corso di causa e sino al momento della decisione della lite. Ne consegue che la carenza del relativo documento è rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, con l’ulteriore conseguenza che sia l’allegazione, che la documentazione della sua esistenza, si sottraggono alle preclusioni che regolano la normale attività di deduzione e produzione delle parti e possono quindi avvenire anche nel corso del giudizio di appello, purchè prima della relativa decisione (Cass. Ss.Uu. 23825/2009; Cass. 17419/2010).

Le spese seguono al soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

PQM

La Corte respinge il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione delle spese sostenute da M.A., che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00, per esborsi, oltre ad accessori di legge.

Nulla sulle spese in relazione agli altri intimati che non hanno svolto nel presente giudizio attività difensiva.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2016

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